Cosa vuol dire fare “risk assessment”: procedure e accorgimenti per limitare i pericoli che corrono i reporter sul campo. Alcuni casi concreti
di Lorenzo Bagnoli
questo articolo è parte di Tabloid Project, il magazine multimediale dell’OgL sull’informazione

Quando Cecilia Sala è stata arrestata in Iran il 19 dicembre 2024, i suoi colleghi rimasti in Italia avevano un compito: evitare che scomparisse dall’agenda delle notizia. Lo ha descritto Paola Peduzzi in un articolo su Il Foglio, testata per cui Sala scrive, in cui ricostruisce i momenti concitati che hanno fatto seguito alla scomparsa.

Il ritorno a casa di Cecilia Sala, rilasciata l’8 gennaio 2025: era stata arrestata a Teheran il 19 dicembre senza alcuna motivazione
In redazione c’era una semplice pratica: aggiornarsi via messaggio a una certa ora. Saltato l’appuntamento, è sorta la prima preoccupazione e, scoperto che la collega non era salita sull’aereo che la doveva riportare a casa, si è compreso che la situazione era grave.
Qualche odiatore da tastiera, come al solito, si è permesso di dire che Cecilia Sala voleva fare una vacanza in Iran. Non ha senso criticare colleghi e colleghe che vengono rapiti in Paesi a rischio. Non c’è modo di escludere del tutto che questa situazione si verifichi, se non standosene a casa e rinunciando a fare questo lavoro. Il punto vero è che nessuno può davvero essere preparato a ogni situazione perché gli imprevisti esistono. Sia per chi è sul campo sia per chi, da casa, cerca di fare qualcosa per aiutare.
Certo, chi parte e chi resta possono entrambi cercare di prepararsi alle più svariate evenienze possibili. Entrambi possono cercare di adottare procedure, alcune semplici, altre molto più complesse e costose, per dare un nome ai pericoli e ipotizzare delle soluzioni. In altri termini, possono cercare di fare una valutazione dei rischi, una procedura che in inglese si chiama risk assessment. È un processo che, peraltro, in campo giornalistico si applica a qualunque situazione in cui è possibile identificare un rischio.
Le domande giuste
Il risk assessment può valere sia per la sicurezza personale sia per quella di una fonte, ma può anche servire per valutare il rischio pre e post pubblicazione, in termini di censura e di campagne di discredito ai danni di giornali e giornalisti. È, in altre parole, un processo che può essere utile per cercare di essere più consapevoli. La sua efficacia si basa essenzialmente su una capacità che poi è l’essenza del mestiere: fare (e farsi) le domande giuste. Alcune sono standard, come quelle delle cinque “W”: chi è la fonte del pericolo? Per quale motivo? Quali sono le condizioni in cui questa minaccia può concretizzarsi? Come si può mitigare il rischio?
Due esempi banali.
Poniamo che ci sia da fare un’intervista a un criminale che potrebbe aggredire il giornalista nel momento in cui gli si pongono delle domande. Mitigare il rischio potrebbe significare scegliere di approcciarlo in un luogo pubblico, dove una reazione esagerata darebbe nell’occhio, oppure in un luogo lontano dal suo “feudo”, dove potrebbero venire altre persone a dargli manforte. Se non è possibile e, per esempio, va approcciato a casa, un’altra forma per mitigare il rischio è fare un sopralluogo preliminare per capire la geografia del luogo, oppure lasciare una persona a bordo dell’auto per rendere più veloce l’uscita dalla zona in caso di pericolo.
Poniamo, invece, che il rischio non sia fisico. Ci sono dei documenti sensibili da recuperare da una chiavetta, fornita da una fonte che non si conosce bene. In questo caso, la minaccia potrebbe essere informatica. Ci si può allora rivolgere a consulenti che possano aiutare a vagliare il rischio che dei file contengano dei virus. O anche a proteggere i propri file in server e dispositivi adeguati, per evitare che qualcuno cerchi di appropriarsene, se si conducono inchieste su soggetti in grado di usare spyware. Un gruppo a cui fare appello in Italia per questo tipo di aiuto è l’Hermes Center, un’organizzazione non profit che si dedica a promuovere i diritti digitali e una maggiore consapevolezza di rischi e opportunità legate all’uso di strumenti tecnologici.
È ovvio che il solo porsi le domande non risolve nulla, ma pone attenzione, stimola la cautela e il ragionamento. È altrettanto ovvio che il lusso del tempo è per pochi, tra chi fa giornalismo. È sempre una questione di equilibrio: il risk assessment funziona quando non inibisce all’azione e non complica troppo le situazioni da valutare, ma quando offre criteri di scelta e di selezione delle opzioni possibili. Nelle redazioni più strutturate, ci sono persone dedicate solamente alla gestione del rischio. Per chi lavora come freelance o per le piccole redazioni esistono comunque delle buone pratiche che si possono adottare e degli strumenti, molti dei quali suggeriti da siti internazionali dedicati al giornalismo.
Viaggiare (quasi mai) sicuri
Il lavoro sul campo implica sempre un’esposizione a rischi di vario genere, e i più delicati riguardano l’incolumità fisica. Meno si conosce il contesto, tanto più è alto – ovviamente – il rischio di trovarsi in situazioni impreviste. Anche in questo caso però ci sono piccoli accorgimenti che si possono adottare. Prendo due esempi dalla mia esperienza in IrpiMedia, per cercare di rendere l’idea di come proviamo ad affrontare il problema in una piccola redazione senza molte risorse economiche come la nostra.
Il primo caso riguarda la serie #SpecialeCop29, realizzata in Azerbaijan dalle colleghe Sofia Turati, Cecilia Fasciani e Margherita Capacci: una serie di inchieste con foto e video per documentare il tasso di inquinamento di un Paese che si è presentato al mondo come un’avanguardia della transizione energetica. Per quanto nessuna delle reporter fosse mai stata sul campo, avevamo tutti presente la situazione. Colleghi e colleghe che conosciamo sono stati incarcerati e incarcerate nel Paese, sappiamo il rischio che corrono molti degli attivisti e delle attiviste che sono stati intervistati durante il viaggio.
La prima decisione che abbiamo preso è che un lavoro del genere si pubblica solo a viaggio concluso e nominando molto più le organizzazioni delle singole fonti per proteggere chi rimane sul posto quando i giornalisti sono rientrati. In termini di organizzazione del viaggio, invece, le tre colleghe sono state in grado di produrre un documento abbastanza dettagliato dei singoli spostamenti in modo tale che io, dalla mia scrivania di Milano, potessi avere un’idea precisa di che cosa sarebbero andate a fare in quale giorno. A ogni intervista io ricevevo un segnale di “in” e “out” via Signal, al momento la app di messaggistica istantanea più sicura che ci sia (per quanto possibile). Il lavoro preliminare e il semplice porsi più domande di una normale trasferta ha permesso alle colleghe di scegliere meglio le location per le interviste e magari chiedere a qualcuno degli intervistati di evitare di incontrarsi in luoghi pubblici. O al contrario incontrarsi solo in luoghi pubblici, a seconda dei casi.
Nel secondo caso, invece, il progetto di inchiesta ha riguardato una trasferta nel Delta del Niger per documentare la situazione nelle comunità più esposte all’attività estrattiva delle società petrolifere internazionali. Il lavoro è poi diventato la serie di inchieste The Nigerian Cartel, pubblicata nel 2020. In quel caso, la valutazione della sicurezza è stata affidata a due diverse agenzie che fanno ricerca per conto di grandi organizzazioni internazionali. Si è deciso, in alcuni casi, di affidare loro anche parte della raccolta del materiale, con l’ausilio di partner giornalistici locali perché la situazione sul campo era troppo instabile per affrontarla con il budget che avevamo a disposizione per la sicurezza. Questa gestione della ricerca ha anche fatto in modo che invece di un fixer, il tuttofare che risolve i problemi di un giornalista straniero e il cui lavoro troppo spesso è sottovalutato e non riconosciuto, ci fossero dei veri partner giornalistici di progetto. Può capitare che in casi del genere chi lavora sul campo preferisca comunque rimanere anonimo e celarsi dietro il nome della propria testata perché uscire pubblicamente è anche peggio che rinunciare alla firma. È sempre una questione di equilibri.
Combattere la solitudine
In generale, per chi può, il principale strumento di difesa è costruire reti di salvaguardia. Reti che siano informate di ciò che uno fa, in Italia come all’estero (ambasciate e consolati sono due presidi a cui fare sempre riferimento); reti che aiutino con consulenze tecniche in caso di bisogno e che permettano di analizzare una situazione con un punto di vista informato e differente.
È ancora una volta un’ovvietà che da freelance questo processo sia sempre più difficile. Però reti come quella di FADA Collective, collettivo di colleghe e colleghi di cui abbiamo anche scritto su Tabloid, stanno cercando di contrastare la solitudine con cui ci si muove da precari. L’obiettivo è cercare di promuovere sistemi di mutuo aiuto tra colleghi e al tempo stesso stimolare le testate a creare un contesto di supporto per chi va sul campo anche se non ha un contratto presso la testata per cui lavora. Non è certamente una soluzione al problema dei freelance che vanno in contesti difficili e si espongono a rischi, ma rappresenta un approdo sicuro, un posto dove confrontarsi e dove trovare ascolto anche per chi non ha una redazione con cui farlo.
UNA LISTA DI RISORSE
Cercando “risk assessment” sul portale della Global network of investigative journalism è possibile trovare video di seminari e form da compilare che aiutano a porsi le domande giuste per fare una valutazione del rischio di base. Anche la ong Committee to protect journalists (Cpj) aiuta soprattutto a valutare i pericoli fisici in certe situazioni e aiuta a pensare subito a chi sono i contatti di emergenza in caso di necessità. Il grant europeo IJ4EU, che offre denaro ai progetti di giornalismo investigativo più promettenti, mette a disposizione ai candidati un foglio Excel che aiuta a identificare una griglia con la quale valutare probabilità di una situazione rischiosa e pratiche da seguire per mitigare il rischio o per affrontarla nel caso in cui si verifichi.