Illuminare zone che nell’informazione mainstream restano buie e sviluppare un giornalismo di approfondimento di interesse pubblico. È l’obiettivo di questa rete di 40 reporter che lavorano su scala transnazionale su diritti, giustizia sociale l’ambiente
Sara Manisera – FADA Collective
Pochi lo ricordano ma nel 2019, prima della diffusione del coronavirus, il pianeta stava vivendo un incredibile contagio di rivolte e sollevazioni. Dall’Iraq al Libano. Dal Cile ad Hong Kong passando per Francia, Ecuador, Algeria, Sudan, Iran e Spagna, migliaia di giovani scendevano in piazza, occupando, con tende e sacchi a pelo, luoghi pubblici e riappropriandosi di spazi a loro negati da tempo. Con le dovute differenze – a Hong Kong si facevano barricate contro la restrizione delle libertà democratiche, in Iraq si scendeva in piazza per chiedere riforme, diritti e lavoro, in Algeria si chiedeva la testa del Presidente – c’era qualcosa in comune in quelle sollevazioni sparse in angoli disparati del pianeta. Erano movimenti nati dal basso, sotto l’impulso di giovani, che rivendicavano diritti e giustizia sociale. E noi, come giovani giornalisti freelance (nelle testate straniere i “giovani” giornalisti sono già inviati) guardavamo con attenzione e curiosità a quei movimenti, convinti che andassero osservati e documentati come veniva fatto all’estero, ma non in Italia. Eravamo, infatti, convinti che fosse necessario raccontare anche nel nostro Paese quelle rivolte. Eppure, nonostante la portata storica di quegli eventi, pochissimi dei nostri reportage e documentari hanno trovato spazio nei media italiani. Sono stati pubblicati da Al Jazeera, Arte, Der Spiegel, The Guardian, Libération e altri media internazionali ma non in Italia.
Il senso di un nome
Ed è così che, nel 2020, spinti da una crescente frustrazione nei confronti di un panorama mediatico stantio e dall’urgenza di un agire collettivo, abbiamo deciso di fondare FADA. Il termine ha origine in Niger e indica degli spazi informali di discussione pubblica, aperti a tutti. Nasciamo come un collettivo informale di sette reporter, sparsi in diversi Paesi, che decidono di unirsi per raccontare i diritti in un mondo in cambiamento. Decidiamo, anche, di parlare dei nostri diritti come lavoratori precari, con l’idea di portare nel dibattito pubblico una riflessione sullo stato di salute del giornalismo in Italia, precario quanto gli incarichi di troppi giovani giornalisti.
In questi tre anni FADA è cresciuta, diventando un’associazione non profit, con una rete allargata di oltre 40 reporter freelance, che si occupano di temi e territori diversi. L’obiettivo è sviluppare e promuovere un giornalismo d’approfondimento e di interesse pubblico, con al centro i diritti, la giustizia sociale e l’ambiente. A distinguerci è la capacità di raccontare sul campo, in profondità, con strumenti multimediali, le cause e gli effetti di fenomeni complessi, mettendo in evidenza connessioni globali e locali, realizzando narrazioni accurate e creative, che hanno un impatto sul pubblico, sulle comunità e che contrastano forme di polarizzazione tossiche.
Lo abbiamo fatto con il webdoc multimediale “Iraq without water” – premiato dall’Associazione dei Corrispondenti delle Nazioni Unite a New York – un viaggio sull’acqua da Mosul a Basra, lungo i fiumi Tigri ed Eufrate, che racconta la crisi idrica attraverso le voci degli ambientalisti iracheni. Oppure con il webdoc “Donne fuori dal buio”, prodotto grazie a un crowdfunding e al supporto dell’ong Un Ponte Per, che ci ha permesso di raccogliere le voci di quattro donne irachene quindici anni dopo l’invasione a guida statunitense in Iraq. Un lavoro premiato con la Colomba d’Oro per la Pace che è stato portato in oltre 30 città d’Italia attraverso associazioni, comitati di cittadini e cinema.
Ma uno dei veri punti di forza di FADA sono le sinergie internazionali. In questi anni, grazie al sostegno di organizzazioni e programmi come Journalismfund Europe, Investigative Journalism for the Eu, il Pulitzer Center on Crisis Reporting, Free Press Unlimited, Lighthouse Reports, Bertha Foundation e Evens Foundation, siamo riusciti a tessere reti di collaborazione con colleghi e colleghe di altri paesi, per realizzare inchieste, reportage e documentari. Basti pensare all’inchiesta Dal Punjab a Latina, pagare per diventare schiavo di Daniela Sala e Ankita Anand pubblicata su Irpi Media, che ricostruisce la rete di sfruttamento dall’Agro Pontino fino in India, unendo i puntini di fenomeni come il caporalato e la migrazione, raccontati troppo spesso in modo superficiale. Oppure l’inchiesta Tunur: il modello di esportazione di energia verde dal Nord Africa all’Ue, di Arianna Poletti e Aïda Delpuech che mette in luce le contraddizioni della transizione ecologica voluta dall’Unione Europea ma pagata dalle comunità locali in Tunisia, private di acqua. E ancora il lavoro immenso sull’uso dei fondi italiani ed europei per l’esternalizzazione del controllo delle frontiere portato avanti da Giacomo Zandonini insieme a decine di colleghi internazionali e premiato dalla Evens Foundation nel 2022. O il lungo reportage realizzato in Benin grazie al sostegno del Pulitzer Center, dove Marco Simoncelli e Davide Lemmi, hanno dimostrato come land grabbing e colture intensive da parte di multinazionali del Nord globale abbiamo stravolto l’economia e la sussistenza delle comunità locali spingendole o nelle braccia di gruppi jihadisti o verso la migrazione.
Questi sono solo alcuni esempi dei lavori realizzati da FADA: approfondimenti di lungo periodo che, partendo dal dettaglio, provano ad allargare lo sguardo unendo la piccola con la grande storia, collegando i puntini di fenomeni che abbracciano la crisi climatica, l’ambiente e i diritti – negati – delle persone, per restituire ai cittadini un racconto completo e chiaro, che aiuti a comprendere quanto tutto sia interconnesso. L’abbiamo visto con la pandemia, quando molte filiere globali di approvvigionamento si sono interrotte. Lo stiamo vedendo adesso con il gas, il grano ed altre materie prime. E lo continueremo a vedere sempre di più. Per questo crediamo che sia necessario praticare un giornalismo capace di raccontare la complessità di quest’epoca, partendo dal micro per arrivare al macro, dalla singola storia alle storie, dall’individuo alla comunità. Un giornalismo di interesse pubblico che racconti il mondo in cui viviamo attraverso il reportage e le storie delle persone perché, laddove i cittadini sono ben informati, il dibattito pubblico si articola, orientando la politica verso decisioni tese verso il bene comune. Laddove, invece, manca un giornalismo di qualità si grida, si urla e ci si polarizza, e si finisce a credere alla propaganda o a semplificazioni eccessive, spacciate per verità.
Fare inchiesta in Italia
E qui arriviamo all’altro fattore cruciale di un giornalismo di qualità: le risorse economiche. Le inchieste sociali che realizziamo sul campo, attraverso varie forme di collaborazione, richiedono tempo – per scrivere il bando, per ottenere il finanziamento, e infine per essere pagati dai media che decidono di pubblicarci – e denaro per fare ricerca, realizzare il reportage e post-produrlo. A volte, dall’idea alla pubblicazione può passare anche un anno. Insomma sono investimenti di lungo periodo sulla cultura – per dirla in grande – che poco si addicono al sistema editoriale italiano. Un sistema che insegue lo share, l’intrattenimento, basato sulla velocità e su un modello di business controllato da pochi gruppi imprenditoriali, che genera contenuti schizofrenici e lavoratori con sempre meno diritti.
Secondo EurOMo – osservatorio di monitoraggio della proprietà dei media in Europa «Rai, Fininvest, Sky e Cairo realizzano il 90% delle entrate del mercato audiovisivo; quattro sono le società che hanno il 56% dei proventi del mercato radiofonico e quattro si spartiscono il 62% di quello dell’informazione stampata». Inoltre, si legge nel rapporto, «i principali rischi per la trasparenza nel Paese sono rappresentati da complesse catene di proprietà, mancanza di dati all’interno dei rendiconti finanziari che comportano una difficile tracciabilità delle informazioni e un intricato sistema di finanziamento spesso non trasparente per i cittadini. Il primo elemento degno di nota, che rimanda a questioni ampiamente riportate nella letteratura accademica, è la vicinanza di editori e proprietari a partiti politici e gruppi di interesse industriali e finanziari».
Inoltre come ribadisce anche il rapporto “Liberties. Media Freedom 2023”, in Italia, «la forte concentrazione della proprietà dei media persiste e rappresenta un rischio significativo per il pluralismo dei media». A ciò si aggiunge il problema dei finanziamenti pubblici dello Stato «assegnati a media di grandi o medie dimensioni», il crescente problema delle Slapp – le Strategic Litigation Against Public Participation, ovvero cause legali che «colpiscono giornalisti freelance, direttori di testate giornalistiche, scrittori citati in giudizio per diffamazione o presi di mira da politici locali e funzionari governativi di alto livello» e la retribuzione dei giornalisti. Secondo l’Autorità per la Garanzia nelle Comunicazioni, AGCOM, nel 2018, quindi in una situazione pre Covid, «il 78% dei giornalisti freelance guadagnava meno di 20mila euro all’anno».
Cosa accade all’estero
Altrove, tuttavia, non è così. In altri Paesi come Francia, Germania, Paesi Bassi, Norvegia, lo Stato, gli editori e gli imprenditori scelgono di investire in giornalismo, fotografia e documentari di qualità perché investire in cultura garantisce un prestigio sociale, oltre a cittadini informati. E basterebbe vedere la qualità delle riviste – mensili, bimensili e semestrali – e la cura che è riposta nel prodotto, dagli articoli alla grafica, dalle fotografie alla carta. Lo stesso vale per la produzione di documentari – brevi e lunghi – trasmessi in prima serata sulle televisioni pubbliche francesi o tedesche. Nei Paesi Bassi, i media vengono finanziati da ben tre fondi pubblici: il Media Fund, il CoBo Fund e il Journalism Promotion Fund. E progetti giornalistici innovativi e collaborativi di inchiesta transnazionale come Lighthouse Reports – con cui anche FADA ha collaborato – ricevono persino una parte di fondi dalla Lotteria nazionale olandese.
Il momento storico di grande cambiamento che stiamo attraversando in questi anni ha bisogno di cittadini informati e, viceversa, di un’informazione che possa fornire loro gli strumenti per potersi orientare. Di meno talk show e più giornalismo di interesse pubblico. Per questo abbiamo bisogno di imprenditori ed editori visionari, ma anche di una comunità di redattori e lettori che cerchino notizie di qualità e che sappiano riconoscerle, pretenderle e sostenerle.