A Gaza anche l’inchiesta rischia di soffocare


Scoprire qualcosa di nuovo richiede tempo. E in una guerra così devastante, l’urgenza della denuncia o l’insufficienza di dati verificabili rende proibitiva una investigazione affidabile

Di Lorenzo Bagnoli, condirettore di IrpiMedia, testata di giornalismo di inchiesta 


Prima premessa: non sono un reporter di guerra. Seconda premessa: non faccio cronaca. Detto questo, la mia opinione: in guerra non c’è spazio per l’inchiesta. Il motivo è quasi banale: un conflitto crea delle condizioni per cui verificare indipendentemente le informazioni e cercare molto al di là di quello che forniscono le fonti ufficiali diventa proibitivo. Come si può pensare di chiedere ai giornalisti di Gaza di fare più dei miracoli che già compiono ogni giorno andando in onda o raccontando ciò che vedono? Ne sono già morti come mai era avvenuto in conflitti precedenti. Non possono scavare oltre e chiunque fosse insieme a loro in questo momento in un contesto drammatico come quello della Striscia cos’altro mai potrebbe fare? A Gaza adesso non c’è tempo per l’inchiesta.
In Israele ci sono testate che hanno la capacità di fare inchieste e che negli anni hanno firmato grandi pezzi di giornalismo. Dopo il 7 ottobre, +972 ha rivelato il modo in cui l’esercito israeliano ha allargato il raggio degli obiettivi dei suoi bombardamenti anche a target non militari. È un’inchiesta che si basa sulla testimonianza di diverse fonti anonime che proprio per il momento in cui esce è molto significativa. Tuttavia, in altre circostanze, avrebbe richiesto probabilmente delle conferme ulteriori prima di essere pubblicata. L’urgenza della denuncia è opprimente, è del tutto comprensibile. Le fonti anonime, se affidabili e corroborate, possono essere ritenute sufficienti in circostanze tanto eccezionali. Ma normalmente l’asticella delle conferme è più alta, soprattutto per accusare l’esercito. 

Entrare o “verificare da lontano”?
I media internazionali chiedono – giustamente – il diritto di entrare nella Striscia di Gaza per verificare di persona cosa stia succedendo. Tuttavia possono lavorare anche da fuori: uno dei principali pezzi di inchiesta sul conflitto è stato realizzato (principalmente) “da remoto”. Mi riferisco al lavoro di verifica su chi sia stato responsabile della distruzione dell’ospedale di al Ahli di cui abbiamo scritto nel primo numero di Tabloid del 2024. È un lavoro che non ha fornito risposte certe ma ha almeno permesso alle testate internazionali di correggere le informazioni scorrette che già erano state diffuse. È un pezzo di grande giornalismo che è servito solo alla verifica dei fatti è che è stato fatto “lontano” dal contesto di guerra. Non è servito a svelare ma a correggere. Tanto è vero che è una ricostruzione comunque incompleta. 

Il problema dell’inchiesta è che ha dei tempi suoi, che si intrecciano con quelli della cronaca ma non ne possono dipendere. Scoprire qualcosa di nuovo richiede tempo. E a volte è semplicemente troppo presto oppure altrettanto semplicemente mancano i dati. Prima di scoprire altro a volte servirebbe capire meglio quello che è successo e che sta succedendo. Spiegazioni, approfondimenti e storie possono essere molto più utili di un’inchiesta per fornire contesto in scenari di guerra, dove altre forme di giornalismo sono pressoché impossibili se non schierandosi inevitabilmente e abbassando le richieste in merito alle prove. Allora diventa più una questione di denuncia che di nuova conoscenza, che è uno scopo altissimo ma che non è necessariamente il motivo per cui si cercano di scoprire dei fatti tenuti nascosti. 

Differenti scale di priorità 
Un’altra riflessione riguarda quale necessità di conoscenza appaga l’inchiesta in contesti di guerra: a quale pubblico ci si rivolge? Per la tipologia di inchieste che faccio con i colleghi di IrpiMedia ho la fortuna spesso di collaborare con dei colleghi locali. La relazione non è la stessa che intercorre tra un fixer – un supporto al lavoro di un altro giornalista straniero che poi firma – ma tra colleghi del tutto alla pari, che cercano insieme tagli e prospettive dalle quali osservare un problema e costruire un’ipotesi di ricerca. Mi è capitato spesso di cercare di costruire insieme a colleghi russi in esilio oppure ucraini lo spazio per realizzare delle inchieste comuni, transnazionali. Questo spazio si è del tutto dissolto dal febbraio del 2022. Le priorità che abbiamo sono diverse. Ho più volte proposto di raccontare insieme la ricostruzione dell’Ucraina ma finora è sempre stato troppo presto. La mia scala di notiziabilità è del tutto disallineata rispetto alla loro. E questo, dal mio punto di vista, è un problema perché nel migliore dei casi significa lavorare senza il fondamentale contributo dei colleghi. 

Giornalismo e democrazia, sospesi insieme 
Arrivo così all’ultima considerazione: se il giornalismo è il cane da guardia della democrazia, serve la democrazia affinché ci sia il giornalismo. A volte nei “discorsi petto in fuori” con cui fingiamo che la professione sia un’arma ho l’impressione che scambiamo i termini. Nei Paesi dove la democrazia è sospesa o è cancellata anche il giornalismo subisce la stessa sorte. E se c’è la guerra, anche il giornalismo inevitabilmente risponde alla legge marziale, con tutti i limiti che questo comporta. 

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