La guerra a Gaza: cosa succede quando una testata sbaglia   

L’esplosione all’ospedale Al Ahli avvenuta in ottobre a Gaza City è un caso di studio che evidenzia come ammettere l’errore serve a riaffermare un patto con i propri lettori. E accredita e rafforza il brand di un giornale perché lo rende più affidabile 
di Francesco Gaeta 
francesco.gaeta@odg.mi.it

 
«Fonti palestinesi riferiscono che ci sarebbero centinaia di morti e feriti in un attacco israeliano sull’ospedale di Gaza». Poco dopo le 19 del 17 ottobre 2023, la BBC riporta con questo tweet la notizia di un’esplosione avvenuta all’ospedale Al Ahli, al centro della città di Gaza. L’ospedale, gestito dalla chiesa anglicana, è in quel momento affollato di pazienti. Mentre sui social si diffondono le immagini delle vittime, il tweet della Bbc viene rilanciato tra gli altri dall’arcivescovo di Canterbury e dal primo ministro scozzese Humza Yousaf.«L’attacco israeliano» viene stigmatizzato da diverse Ong attive a Gaza, tra cui MSF. Nel frattempo, sul canale news della BBC il reporter Jon Donnison sottolinea che per quanto le forze armate israeliane neghino ogni responsabilità «è tuttavia difficile vedere chi altri possa avere causato tutto questo». Una versione dell’accaduto analoga a quella della BBC viene rilanciata a caldo anche da testate e agenzie di stampa come Associated Press, Reuters, Cnn, New York Times. La versione che dunque si diffonde per prima è quella fornita dal cosiddetto ministero della Salute di Gaza, gestito da Hamas. 

Nelle ore seguenti, quello che si accende è un microconflitto all’interno del grande conflitto, fatto di accuse e contro-accuse tra le parti in lotta, di testimonianze, presunti documenti, ricostruzioni e successive smentite. Per le testate internazionali che stanno seguendo la guerra, l’esplosione diventa di fatto un drammatico test sulla loro capacità di pesare, filtrare e valutare dati e informazioni. Meglio: di gestire e porre riparo all’errore. Perché qui il tema è questo: cosa succede quando una testata si accorge di avere sbagliato?

Primi chiarimenti

Già il giorno successivo, le ricostruzioni giornalistiche più accurate chiariscono che, tra le diverse ipotesi, quella di un attacco missilistico israeliano appare la meno plausibile, come dimostra tra gli altri una accurata analisi del sito di giornalismo investigativo Bellingcat. Incrociando video diffusi sui social e i dati balistici del cratere, molte testate – la BBC tra queste – ipotizzano come più probabili altre due piste alternative: che l’esplosione sia avvenuta per effetto di un missile lanciato da Hamas e caduto per errore sopra l’ospedale o esploso in aria perché abbattuto dal sistema di contraerea israeliano. Sul proprio sito, per esempio, la AP dice di avere analizzato «più di una dozzina di video dei momenti prima, durante e dopo l’esplosione dell’ospedale, oltre a immagini e foto satellitari. L’analisi di AP mostra che il razzo che si è spezzato in aria è stato sparato dall’interno del territorio palestinese e che l’esplosione dell’ospedale è stata molto probabilmente causata quando parte di quel razzo si è schiantato al suolo». 

Di certo, l’esplosione è avvenuta nel parcheggio e non all’interno della struttura come si era detto inizialmente e ha causato un numero di vittime che, secondo una indagine indipendente di The Human Rights Watch, sarebbe comunque inferiore al dato “ufficiale” di 471 morti, fornito a caldo da Hamas. 

Le rettifiche 
A qualche ora di distanza dall’accaduto, mentre i fatti iniziano a cristallizzarsi, i vertici della BBC ritengono di dovere prendere posizione. Giovedì 19 ottobre, circa 48 ore dopo l’esplosione, il numero 2 di BBC News Jonathan Munro afferma che durante la copertura live «il linguaggio usato dall’emittente non è stato sufficientemente corretto» e che il corrispondente BBC Jon Donnison ha sbagliato nell’avanzare ipotesi circa le cause dell’esplosione nell’ospedale: «Pur non avendo mai detto che la causa dell’accaduto fossero gli israeliani», tuttavia è «importante per noi correggere» anche solo l’impressione che questo sia accaduto. 

Anche il New York Times decide di spiegare ai propri lettori di avere ecceduto nella valutazione di ciò che stava avvenendo nei minuti e nelle ore successive all’esplosione. Lo fa con un editoriale in cui riconosce che «i resoconti iniziali del Times attribuivano la rivendicazione della responsabilità israeliana a funzionari palestinesi e sottolineavano che l’esercito israeliano aveva detto di stare indagando sull’esplosione. Tuttavia, le prime versioni dei fatti – e l’importanza che esse hanno ricevuto in un titolo – si basavano eccessivamente sulle affermazioni di Hamas e non chiarivano che tali affermazioni non potevano essere immediatamente verificate. Ciò ha lasciato ai lettori un’impressione errata su ciò che era noto e su quanto fosse credibile il resoconto». Data la natura altamente sensibile di ciò di cui si parlava «i redattori del Times avrebbero dovuto prestare maggiore attenzione a come venivano presentati i fatti» ed essere più espliciti su quali informazioni potevano essere verificate». 

Il patto di fiducia 
Il comportamento della BBC e del New York Times sottintendono un approccio che considera i propri lettori depositari di un “patto di fiducia”. La credibilità non è soltanto un fatto deontologico, ha anche e soprattutto un valore economico: chi paga per avere una informazione affidabile deve essere certo di avere in cambio non l’infallibilità di chi produce informazione ma la tracciabilità dei comportamenti messi in campo. In un’ottica del genere, la testata sbaglierebbe due volte se sorvolasse sul proprio errore, e non chiarisse di avere fornito come acclarate e veritiere informazioni che in realtà erano di parte e ancora da verificare. 

La capacità di ammettere l’errore, dunque, è quasi un fattore distintivo sul mercato, nel senso che distingue una testata dalle altre, e ancor più la differenzia da chi non ha o non sente di avere alcun obbligo di tracciabilità, ciò che caratterizza gran parte della cosiddetta “informazione social”, fatta di rimbalzi più che di fonti e di verifiche.  Per quanto possa dunque apparire paradossale, ammettere l’errore ha un valore economico. Perché rafforza un patto di lealtà che, attraverso la rettifica, può meritare di essere ancora valorizzato, cioè pagato da parte del lettore.

La BBC e il New York Times tuttavia non sono stati gli unici ad avere mancato di equilibrio nella copertura della esplosione all’ospedale Ali Ahli di Gaza. Nei giorni successivi al 17 ottobre Oliver Darcy, media reporter della CNN, ha interpellato alcune tra le principali testate internazionali circa la necessità di chiarire ai propri lettori quanto avevano fatto al riguardo. «Un portavoce del Wall Street Journal ha rifiutato di commentare – ha scritto Darcy -. E i portavoce dell’AP e di Al Jazeera hanno ignorato le mie richieste». Quanto alla Reuters, al di là della responsabilità inizialmente attribuita all’esercito israeliano, «un portavoce mi ha detto che «sono stati aggiunti dettagli precisi e attribuzioni alle storie il più rapidamente possibile». Darcy ha anche interpellato CNN: «La CNN è andata anche oltre. Non solo all’inizio della storia ha amplificato le affermazioni di Hamas sui suoi canali, ma il suo iniziale articolo online ha affermato – senza alcuna attribuzione – che Israele era responsabile dell’esplosione letale. La storia è stata successivamente modificata, ma l’errore non è mai stato riconosciuto in una correzione o in una nota dell’editore».

Come avrebbero dovuto comportarsi in un mondo ideale queste testate? Darcy cita il parere di Bill Grueskin, professore della Columbia Journalism School: «Avrebbero dovuto pubblicare note che spiegassero al loro pubblico esattamente come e perché dietro le quinte le cose erano andate storte. Note firmate, in cui fornire una comprensione più dettagliata di come la redazione aveva sbagliato all’inizio, ma anche del perché ci fosse voluto così tanto tempo per correggersi. E avrebbero dovuto farlo fornendo tutti gli elementi necessari, poiché non ci si poteva aspettare che la maggior parte dei lettori ricordasse tutti i dettagli».

C’è un caso che meglio di altri racconta la natura e i costi del “patto con i propri lettori”. È un articolo apparso nel 2018 sul Washington Post che racconta la lotta di alcune famiglie di colore, tra Virginia e Carolina del Nord, per mantenere i terreni assegnati ai propri antenati dopo la guerra civile. Una inchiesta “tormentata” perché piena di errori, tutti corretti, per un totale di 579 righe corrette in 15 passaggi. Come raccontato da Poynter, l’allora direttore Marty Baron preferì percorrere una strada diversa dal cancellare dalla rete l’articolo: «Siamo imbarazzati dagli errori riportati in questo articolo – scrisse ai lettori -. Per ciascuno abbiamo pubblicato una correzione dettagliata». Come notato da Poynter la pubblicazione di una storia come questa avrebbe dovuto costringere la direzione a una riflessione sui processi di verifica del proprio desk. Di sicuro «la direzione sapeva bene che pubblicare un tale numero di correzioni avrebbe rasentato il ridicolo. Tuttavia, il giornale ha anteposto la verità all’orgoglio. E questo dovrebbe essere riconosciuto e applaudito».


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