In che termini oggi si può fare giornalismo di inchiesta in un contesti come quello della Striscia di Gaza? Ugo Tramballi, a lungo inviato di guerra del Sole 24 Ore, risponde all’intervento di Lorenzo Bagnoli (IrpiMedia): entrare al seguito di un esercito consente ai giornalisti di vedere le distruzioni causate delle stesse forze di cui si è al seguito
di Ugo Tramballi
Un vecchio inviato a Beirut negli anni ’80, raccontava che a un posto di blocco i siriani lo avevano costretto a mangiare l’accredito stampa. Il documento che aveva inavvertitamente esibito, era stato rilasciato dai cristiano-maroniti, nemici dei siriani. La “bufala” ebbe molto successo: nei mesi e negli anni successivi molti se la sarebbero rivenduta a colleghi e familiari: i palestinesi mi hanno fatto mangiare l’accredito degli sciiti, gli sciiti quello dei sunniti, i drusi quello degli israeliani. Era una balla perché nonostante il caos settario di quel paese (sono 17 le confessioni del Libano e in quegli anni tutti avevano combattuto contro tutti, almeno una volta), esisteva un solo accredito per la stampa. Era un banale foglio A4, una foto pinzata o incollata con un timbro che rappresentava il cedro del Libano. Nome, cognome e numero di passaporto. Il documento veniva rilasciato previa richiesta del giornale. Più di una volta l’avevo scritta io stesso nell’anticamera dell’ufficio-stampa del ministero, firmandomi Indro Montanelli. La guerra civile era iniziata nel 1975; negli anni successivi erano intervenuti i siriani, gli israeliani, gli americani, i francesi, il contingente italiano del generale Franco Angioni. Ma l’accredito continuava ad essere rilasciato dal ministero dell’Informazione su Hamra, la via principale di Beirut Ovest musulmana. Secondo uno dei primi manuali Cencelli del paese, quel ministero spettava al partito Amal, sciita. E a tutti, anche a coloro che volevano vedere morto Nabih Berri, il leader di Amal, andava bene così. Quell’accredito veniva accettato in ogni posto di blocco, quale fosse la milizia che lo controllava.
Nelle guerre civili
Questo episodio nasconde un insegnamento fondamentale per tutti i vecchi, gli attuali e i futuri inviati di guerra: più regna il caos, meglio si lavora. Nel Libano degli anni ’80 uscivo di casa e non dovevo fare altro che scegliere se cercare di entrare nel campo palestinese di Chatila bombardato dai siriani o seguire la guerra inter-cristiana tra i clan dei Gemayel e dei Frangieh. Non dovevo chiedere nessun permesso: oltre all’accredito servivano solo un autista di fiducia e un po’ di dollari in tasca.
Un altro paradiso per l’inviato di guerra era stato l’Afghanistan dei mujaheddin che combattevano l’invasione russa. Uso la definizione “paradiso” sapendo di parlare da giornalista a giornalisti: Beirut, la valle del Panshir o l’assedio iraniano di Bassora durante la guerra con l’Iraq, non avevano nulla di paradisiaco. Un buon corrispondente al fronte non deve mai dimenticare di essere testimone di tragedie. Anche se una certa dose di cinismo può essere sempre utile.
Conflitti come l’afghano o il libanese permettevano una grande libertà di movimento perché erano combattuti da milizie, per lo più erano guerre civili. Il timbro sull’accredito di Beirut diceva “état du Liban” ma quello stato non esisteva più. Un gran numero delle guerre calde dell’epoca della Guerra Fredda, avevano queste caratteristiche.
Perché con Gaza cambia tutto
Poi è venuta l’età del giornalismo embedded: cioè delle guerre combattute da un esercito regolare con uno stato maggiore, un servizio stampa, i tour guidati, la propaganda, sceneggiature predeterminate e quasi mai scelte dai giornalisti. L’invasione americana dell’Iraq del 2003 è stata l’apogeo della propaganda di guerra. Un’altra più attuale è Gaza. Da un anno gli israeliani combattono, impedendo alla stampa internazionale di entrare nella striscia. Prima che occupassero Rafah, a Sud, anche gli egiziani negavano l’accesso da quell’unica altra frontiera, oltre l’israeliana. Le sole testimonianze sono quelle dei giornalisti arabi che erano già a Gaza prima del 7 ottobre dell’anno scorso: soprattutto al Jazeera in arabo, molto schierata; e la stessa all-news in inglese, meno propagandistica e più professionale. Al settembre 2024 i giornalisti uccisi nella striscia sono 111. Solo medici, infermieri e impiegati Onu hanno avuto più morti. E’ difficile dire se i giornalisti sono degli obiettivi per gli israeliani. Qualcuno forse è stato ucciso di proposito ma la gran parte è stata vittima come donne e bambini, dei bombardamenti indiscriminati.
Nelle molte altre crisi precedenti, Israele permetteva alla stampa internazionale di entrare a Gaza. Ma neanche sommando gli scontri del 2007, 2008, 2012, 2014 e 2021, vittime e danni sono paragonabili con “Spada di ferro”, il nome in codice dato a questa guerra dagli israeliani. Questa volta solo piccoli gruppi di giornalisti vengono scortati e portati dove l’esercito israeliano vuole. Visite brevi, di qualche ora. Puro giornalismo embedded. Ma non dovete pensare che i giornalisti dentro Gaza siano invece più liberi di raccontare tutto ciò che vedono. Anche loro sono sotto l’attento controllo di Hamas. I sondaggi dicono che la maggioranza dei palestinesi è contro il movimento islamico ma, dentro, nessuno può permettersi di dirlo. Ancor meno accusare Yahya Sinwar, il capo di Hamas corresponsabile del massacro quotidiano, di farsi scudo dei civili.
Per i colleghi puristi del giornalismo di guerra, essere embedded equivale a un tradimento della professione. Ma qui in Israele come in ogni conflitto dove combattono eserciti regolari, non c’è alternativa ad essere “irregimentati” (la traduzione negativa di embedded). In realtà anche così, anche entrare a Gaza su invito israeliano è meglio di niente. Oltre ad ascoltare la propaganda dell’ufficiale accompagnatore, i giornalisti possono tenere gli occhi aperti e vedere le distruzioni causate dall’esercito dell’ufficiale accompagnatore. Quello che conta è lo stato d’animo del giornalista, che sia embedded o no. Nel 2004 un inviato e un operatore della NBC americana erano “aggregati” (la tradizione meno dura di embedded) a una brigata di Marines, a Fallujah. Partecipando a un’operazione, furono testimoni dell’esecuzione dentro una moschea di alcuni combattenti iracheni feriti e disarmati. Fecero il loro lavoro: diedero la notizia.