Presentata il 1° ottobre 2024 dal presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia Riccardo Sorrentino. Obiettivo: «Lo sviluppo di una cultura giornalistica che renda più rigoroso e più solido il nostro lavoro». Il manifesto programmatico della Fondazione nel discorso di presentazione
Buongiorno a tutti. Grazie di essere qui. L’occasione, lo sapete, è la presentazione della nuova Fondazione Walter Tobagi per la cultura giornalistica che è nata, con il riconoscimento firmato dal presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana il 4 luglio 2024. È una fondazione lombarda, che svolgerà tutte le sue attività in questa regione, espressione – come è – dell’Ordine lombardo dei giornalisti. Proprio perché lombarda, è però una Fondazione che ha l’ambizione di diventare un punto di riferimento. Il futuro ci dirà se ci saremo riusciti.
La Fondazione nasce dalla trasformazione dell’Associazione Walter Tobagi per la formazione al giornalismo, che essa stessa è stata all’avanguardia. È nata negli anni 70, negli anni in cui Tobagi era ancora attivo, prima del suo tragico assassinio il 28 maggio 1980 per mano di terroristi comunisti. Aveva l’obiettivo di gestire, in collaborazione con la Regione, la prima e per molto tempo l’unica scuola di giornalismo italiana (di cui io stesso sono stato allievo). L’Italia arrivava con ritardo alle scuole: la Francia, per parlare di un paese molto vicino al nostro dal punto di vista giornalistico, ha fondato la sua prima scuola nel 1899. Nel nostro Paese era ancora molto forte – e forse lo è anche oggi – l’idea che il giornalismo non si potesse insegnare, che si imparasse nelle redazioni, nelle strade. La stessa scuola era considerata da molti più come un canale di accesso alternativo al contratto di praticante che come un vero veicolo di formazione, anche se i suoi docenti l’hanno poi trasformata – e io posso testimoniarlo – in una straordinaria occasione di crescita professionale. I master lombardi di giornalismo hanno continuato a percorrere brillantemente questa strada. Venuto meno, in anni lontani, il sostegno economico della Regione anche la scuola dell’Ordine si è poi trasformata in un Master, la Scuola di giornalismo Walter Tobagi dell’Università di Milano, al quale l’Ordine dà, e continuerà a dare, il suo piccolo contributo finanziario.
Oggi l’idea di una cultura su cui fondare il giornalismo si è fatta strada anche da noi. Ecco perché l’Associazione per la formazione al giornalismo è diventata una Fondazione per la cultura giornalistica – cultura giornalistica in molti sensi – e in questa occasione vorrei spiegarvi perché. Sia chiaro, l’antica idea del giornalismo che si impara in strada non è del tutto sbagliata. I chirurghi imparano in sala operatoria, i medici nelle corsie, e gli avvocati nei tribunali; anche se hanno alle spalle un solido percorso di studi, una cultura. Quell’idea rivela anche qualcosa di importante: la stratificazione del lavoro giornalistico. Inizia con il “cercare le notizie” che è la base di tutto ed è cosa diversa anche dallo scriverne e può poi arrivare alla news analysis più raffinata e al commento più ragionato. Il riferimento a Walter Tobagi non è solo il ricordo stanco di un fatto atroce, non l’unico in quel periodo, ma anche l’omaggio a un modo di intendere il giornalismo: profondo e consapevole.
Quell’idea del giornalismo che si impara per strada sottolinea poi – dal momento che parliamo qui di cultura – un filo rosso che attraversa la cultura italiana. Non c’è nulla di più sbagliato del nazionalismo culturale, ma c’è una “scuola italiana” che ha sempre invitato alla concretezza: Dante Alighieri e le complessità dell’animo umano; Giovanni Boccaccio e la varietà della vita delle città; Niccolò Machiavelli e la politica; la scienza di Galileo Galilei, che ha scritto il primo grande reportage giornalistico, il Sidereus nuncius, la cui pubblicazione, il 13 aprile 1610, segna il momento più importante della storia dell’umanità; Giambattista Vico e la sensibilità per i popoli culturalmente diversi da noi eredi del logos greco; il federalismo e, di nuovo, la vivacità della vita cittadina di Carlo Cattaneo; il marxismo di Antonio Labriola, l’estetica di Francesco De Sanctis, lo storicismo assoluto e l’universale concreto di Benedetto Croce, per poi arrivare al meraviglioso laboratorio di cultura politica nel 900, stroncato violentemente dal fascismo: Giovanni Amendola, Luigi Sturzo, Luigi Einaudi, Piero Gobetti, Carlo Rosselli, Giacomo Matteotti, Antonio Gramsci, Camillo Berneri e molti altri. Alcuni di questi pensatori politici sono ricordati perché sono morti, non per quello che hanno scritto. Era un mondo vivacissimo e concretissimo tristemente spazzato via.
Quell’antica idea del giornalismo che non si impara diventa però corrosiva quando decade nel populismo dell’”università della strada”, dell’”università della vita”, che si pretende superiore agli studi rigorosi: un’idea che tanti danni ha fatto e sta facendo. La storia del giornalismo mostra al contrario che si può essere coltissimi e svolgere questo lavoro ogni giorno, facendo anche la cronaca più semplice. È stato direttore e caporedattore di due quotidiani, per tre anni, Georg Wilhelm Friedrich Hegel: non aveva ancora una cattedra, ma aveva già pubblicato la Fenomenologia dello Spirito, era già entrato dalla porta principale nella storia della filosofia. La famosa frase sulla lettura dei giornali, che è la “preghiera mattutina del cittadino” (o “del borghese”, se preferite) nasce da questa sua esperienza. Fu direttore di giornali e poi dal 1851 al 1862 corrispondente dall’Europa per la New York Tribune – corrispondente eternamente precario – Karl Marx. Lui e Friedrich Engels scrissero circa 500 articoli. Oggi una copia originale della Tribune che ospiti un suo articolo costa più di mille euro contro i 35 di una copia dello stesso periodo senza il suo contributo. Si può pensare quel che si vuole di Marx, come uomo, come politico, come studioso, ma la sua immensa cultura è innegabile. Da comunista riproponeva ancora ai suoi lettori gli articoli scritti, negli anni giovanili, quando era “solo” un democratico, sulla libertà di stampa. Più vicino a noi, è stato direttore e caporedattore di Combat, quotidiano della resistenza francese, Albert Camus.

Aveva già scritto lo Straniero, il Mito di Sisifo, e i critici hanno trovato tracce del suo stile persino nei pezzi non firmati di cronaca sugli incidenti stradali, segno che Camus “scendeva” in tipografia, tagliava e aggiungeva pezzi agli articoli perché entrassero in pagina. Le sue riflessioni sul giornalismo, nei saggi e nei diari, sono ancora oggi una grande scuola. Nel numero del 31 agosto 1944, a pochi giorni dalla liberazione di Parigi, nel suo articolo Critique de la nouvelle presse, poi ripubblicato nelle Actuelles, scriveva: “Il nostro desiderio, tanto più profondo quanto spesso silenzioso, era di liberare i giornali dal denaro e di dar loro un tono e una verità che elevassero il pubblico a ciò che di meglio c’è in lui”.
Il giornalismo quindi sa essere, può essere una professione nobile. È una professione, malgrado uno scetticismo relativamente diffuso: lo è per una considerazione insieme economica ed etica. Così come il medico, che è – come si dice – dal lato dell’offerta, indica al paziente quale deve essere la sua domanda di farmaci, analisi mediche o interventi chirurgici; così come l’avvocato, anche lui dal lato dell’offerta, deve indicare al cliente quale procedure devono essere seguite, e quindi che forma deve assumere la sua domanda di servizi legali, anche il giornalista fa qualcosa di simile. Non di uguale ma di simile. Il giornalista ha il compito dare al lettore, al telespettatore, al navigatore, non le narrazioni che desidera, ma quelle informazioni veritiere che, in un certo ambito, non si possono ignorare. Tutte queste figure offrono ai “consumatori” indicazioni sulla loro “domanda”, e queste proposte devono essere allora avanzate con grande onestà, secondo verità, senza voler massimizzare i guadagni. Altrimenti il sistema salta, il mercato non funziona.
Il compito dei giornalisti – ripeto – è fornire le informazioni veritiere che, in un certo ambito, non si possono ignorare. Per svolgere questo ruolo il giornalismo oggi ha bisogno di maggior cultura. Di competenze, di conoscenze, e di cultura. Anche per recuperare la fiducia perduta dei cittadini. Il giornalismo è oggi in difficoltà, su molti fronti: quello economico, in tutto il mondo, quello tecnologico, quello politico. Fa fatica – soprattutto in Italia dove non è mai stato così forte come altrove – a ritrovare la sua collocazione. Gli manca una strategia complessiva, il suo ruolo storico è stato travolto e resta soltanto il nucleo profondo, che dà però un senso, una direzione alla sua esistenza: la necessità, crescente in una società sempre più diversificata, di qualcuno che operi una mediazione tra la realtà sociale, i fatti, e l’opinione pubblica. Compito non semplice: non si tratta solo di riempire le asimmetrie informative tra persone che svolgono compiti diversi, che sono state individuate dalla scienza economica come un fallimento del mercato, ma che sono anche un danno per la società civile. Ci anche sono differenze enormi tra le competenze dei singoli cittadini. Oggi chi non è avvocato o magistrato non conosce le necessarie sottigliezze di un processo penale, anche se è un medico espertissimo, o un architetto di alto livello; e viceversa, un grande avvocato non riesce neanche ad apprezzare le conoscenze di un medico. In un corso organizzato con l’Ordine dei medici è emerso che uno specialista, per esempio, in cardiologia, non riesce neanche a valutare le capacità – quindi le conoscenze specialistiche, il metodo clinico – di un neurologo, pur avendo studiato le basi di quella specializzazione. Non a caso, l’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha spesso insistito – per esempio quando si è occupato della cronaca giudiziaria – sul nuovo ruolo di “traduttore culturale” al quale siamo chiamati. La questione non riguarda però solo le diverse competenze. Si tratta anche di colmare le crescenti distanze tra le opinioni, l’ethos, la cultura, di cui ciascun cittadino è portatore. Viviamo sempre più in una società interculturale.
Ricordiamo che Platone chiamava “città dei porci”, quella parte della sua Kallipolis, della “città bella” della sua Repubblica, che era dominata solo dalla divisione del lavoro, dalla parcellizzazione delle competenze, e quindi della cultura. Ricordiamo che Adam Smith sottolineava, oltre agli innegabili vantaggi, i rischi della divisione del lavoro in un passaggio drammatico della sua “Ricchezza delle nazioni”: rischi di un istupidimento individuale e collettivo per i quali indicava anche la soluzione, l’istruzione “per le persone di tutte le età”. Smith si riferiva ai pericoli della “ripetizione di poche semplici operazioni”, oggi superata quasi ovunque, ma se trasferiamo, con intelligenza, quegli spunti al mondo attuale, l’importanza di una professione che abbia la funzione di fare da mediatore, da traduttore, diventa sempre più evidente.
Occorre – di nuovo – una cultura solida, di fondo. Non c’è ancora una laurea in giornalismo in Italia. Esistono meravigliosi master di giornalismo e quelli lombardi sono sicuramente i migliori, non ho dubbi. Non è stato ancora individuato però un percorso di studi che possa sostenere l’attività giornalistica come quello che sostiene il lavoro dei medici, degli avvocati, degli ingegneri. Quando si propone oggi la laurea in giornalismo, mi viene qualche dubbio. Non è una contraddizione. Per prima cosa preferisco il sistema francese, molto flessibile e diversificato, a una strutturazione rigida. Oggi ci sono in Francia una quindicina di scuole, di livello diverso: alcune post diploma, altre post laurea, con curricula diversi. Sono tutte ufficialmente riconosciute, nel senso che danno diritto alla tessera di giornalista.
La laurea in giornalismo oggi viene proposta perché diventi unica forma di accesso alla professione e, devo essere sincero, è una soluzione che non mi piace molto. Non mi piace perché preferisco una laurea che dia un accesso preferenziale, che sia abilitante; più in generale perché trovo interessante l’idea di Luigi Einaudi di cancellare il valore legale dei titoli di studio; e perché apprezzo il sistema di alcuni stati americani, come la California, dove è possibile persino diventare avvocati senza laurea, anche se l’iter è giustamente più lungo e articolato. Nel mondo dei lavoratori stars, skilled through alternative routes, lavoratori con competenze acquisite attraverso strade alternative, non vedo perché un espertissimo utilizzatore delle nuove tecnologie, un grafico dal percorso originale, o anche un brillante laureato in giurisprudenza, in economia, in storia, in scienze politiche, in statistica, in arte deve vedere la strada bloccata da una rigidità puramente formale. Si cade nella tentazione, secondo me da evitare, di risospingere l’Ordine in una logica corporativa, nell’illusione di poter calmierare l’offerta di lavoro. Il rischio, concretissimo, è quello di far sviluppare ulteriormente il giornalismo fuori dall’Ordine; e l’Ordine serve.
Mi fa un po’ paura l’idea della laurea anche perché non vorrei che si trasformasse in uno spin off, una derivazione delle lauree in comunicazione, corsi di studi di tutto rispetto che sono però altra cosa. Se il giornalista deve essere mediatore tra la realtà sociale e l’opinione pubblica, allora occorre una laurea – lasciatemi dire – di “scienze sociali per il giornalismo”: oltre alle competenze tecniche, quindi, diritto, criminologia, storia, economia, finanza, geografia, relazioni internazionali, statistica e analisi dei dati, con approcci comparati, con la possibilità di specializzarsi. È vero, ci sono forme di giornalismo che sembrano richiedere competenze per così dire più leggere ma in realtà diverse dalla nostra è possibile anche guardare questi ambiti con uno sguardo alto. Vogliamo discutere della difficoltà di leggere un bilancio di una società di calcio, magari quotata in Borsa?
Queste sono le discipline “dure” dietro il nostro lavoro. Del resto, all’esame di ammissione della Scuola di giornalismo cosa mi è stato chiesto di studiare? Diritto, storia contemporanea, geopolitica, lingue… All’esame di Stato? Lavoravo al Sole 24 Ore, quindi economia e finanza. L’Università Paris-Panthéon-Assas propone, non a caso, un doppio diploma in storia e informazione, l’Università dell’Essex un Bachelor of Arts in giornalismo e criminologia, Science Po un Master in giornalismo e Affari internazionali, e gli esempi possono moltiplicarsi.
Ci sono anche crescenti competenze “tecniche”, “pratiche” per svolgere meglio il nostro lavoro. Ne parlerà, subito dopo di me, Lorenzo Bagnoli, direttore di Irpimedia e stretto collaboratore dell’Ordine, esponente di una forma di avanguardia di giornalismo che stiamo sostenendo.
Qualunque sia la strada da percorrere, una cultura giornalistica solida ci permette anche di affrontare, a viso aperto e senza ipocrisie, le patologie del nostro lavoro. Nelle discussioni con gli avvocati e con i magistrati, sul tema della presunzione di innocenza, ho sempre detto che io avrei parlato a nome di un giornalismo fisiologico. L’obiettivo – che deve diventare anche uno degli obiettivi della attività di questa Fondazione – era quello di spiegare le peculiarità del nostro lavoro, che non tutti conoscono e tengono presente nelle loro analisi e nelle loro valutazioni: l’ampiezza e la diversità del suo sguardo, le insidie della ricerca della verità in tempi stretti. Occorre però anche affrontarne le patologie. L’attività, preziosissima – e in Lombardia davvero intensa – del Consiglio di disciplina territoriale non arriva ovunque. In primo luogo perché le regole vietano la pubblicità piena delle decisioni e quindi limitano il loro valore segnaletico. All’estero si occupano di deontologia i press councils: non c’è l’Ordine, ma ci sono istituzioni riconosciute che svolgono le stesse attività e hanno poteri anche più ampi. Questi press councils possono imporre la pubblicazione, anche sui giornali, delle decisioni, che in alcuni casi “fanno stato” negli eventuali procedimenti giudiziari. Sarebbe bello se il mondo politico lombardo ci aiutasse a superare le nostre limitazioni.
L’esame deontologico, per quanto prezioso per prendersi cura del rapporto di fiducia tra giornalisti e cittadini, ha inoltre una funzione specifica, ereditata dalle antiche corporazioni dell’epoca della lex mercatoria, quando veniva allontanato il mercante inadempiente, per evitare che tutti i membri della gilda fossero mal giudicati. Si trattava e si tratta di rendere individuale una responsabilità che rischia di diventare generale, e colpire l’intera categoria. Anche per questo la pubblicazione delle decisioni è fondamentale.
Esistono però delle patologie del giornalismo che vanno oltre il comportamento di alcuni singoli. Patologie che nascono da un ethos errato, diffuso, non sempre del tutto consapevole, che va sostituito con una riflessione profonda sul nostro ruolo. Il giornalismo italiano è spesso migliore del giornalismo straniero, è per così dire meno “ingenuo”. Alcune patologie, molto specifiche, sono però più acute nel nostro Paese.
La commistione tra spettacolo e informazione, tra comunicazione – pubblicitaria o politica – e informazione è un problema noto da tempo. Oggi pone però nuove sfide. Durante l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, è emerso che il ministero della Difesa e il ministero degli Esteri di Mosca hanno sfruttato per i loro fini una procedura standard delle agenzie di stampa internazionali, e in fondo di tutti noi giornalisti: per noi ogni dichiarazione di un’istituzione politica è, di per sé stessa, una notizia. Non valutiamo la sua verità, perché è espressione di una volontà. Se un ministro ci dicesse che “il riscaldamento globale non esiste”, non ci chiederemmo, prima di pubblicare la notizia, se ha ragione o ha torto. Non è un climatologo, è un politico che ci dice che non farà nulla, o comunque farà molto poco, per risolvere questo problema. La notizia va pubblicata, così com’è. Per questa strada, però, quel ministro sta anche diffondendo un’informazione quantomeno molto controversa. Il problema è emerso in circostanze tragiche, la guerra tra Russia e Ucraina, ma nella piccolezza delle nostre vite quotidiane, quante volte diamo la parola a questo o quel politico, di destra o di sinistra, per registrare poi una dichiarazione che, in realtà, non esprime neanche una volontà, ma è propaganda pura e diventa notizia soltanto perché il personaggio è noto e va seguito in ogni caso?
Un altro grande problema, in qualche modo collegato a questo, è il settarismo, recentemente definito “una prova di debolezza”, che associa i giornalisti al gregge dei professionisti, degli imprenditori del conflitto, che sono spesso anche i rentiers della paura, coloro che prosperano sulle preoccupazioni dei cittadini. La realtà, lo sappiamo, è spesso “lotta di contrasti”, come li chiamava Benedetto Croce, e nessuno può chiedere ai giornalisti una obiettività che vada al di là di uno stile composto – composto perché lasci emergere la realtà delle cose – e di una descrizione articolata dei fatti, che tenga conto della loro complessità. I professionisti del conflitto fanno invece un altro lavoro; e, ricordiamolo, non sono l’espressione di una crisi della società, della democrazia: mettono in crisi la democrazia, che è lo strumento che permette una convivenza non violenta di stili di vita diversi, di scelte personali, sociali, politiche differenti e anche divergenti, di culture non riconducibili a una finta unità.
Il giurista francese Antoine Garapon ci ha suggerito un altro rischio. Nella sua ansia di essere – come deve, come chiede il codice deontologico della Society of professional journalists statunitense – il cane da guardia sulle questioni pubbliche e sul governo, il giornalismo può andare troppo in là: può tendere a sostituirsi, in quanto “più moderno” e “più efficace”, a quei luoghi di dibattito pubblico, altamente codificati, su cui si fondano i sistemi liberaldemocratici, tipicamente le aule dei tribunali e le camere parlamentari. Il risultato può essere la crisi dell’architettura istituzionale. Quando si parla di giustizia mediatica si parla di molte cose diverse, e non sempre la responsabilità è dei giornalisti che a volte sono semplici messaggeri. La tendenza a sostituirsi ai magistrati, ai giudici è però comunque molto forte. Come è forte la tentazione a costituirsi in una “terza Camera” politica, dove esercitare il dibattito pubblico. Non è sempre un errore, sia chiaro: è una critica, quella di Garapon, che tende ad assomigliare alle argomentazioni con cui Napoleone III, il primo esponente del cesarismo, il primo tiranno – per così dire – “eletto dal popolo” – compresse la libertà di stampa. Occorre però fare attenzione: i luoghi di discussione “alternativa” che in questo modo noi giornalisti creiamo possono veicolare propaganda, non fatti e argomentazioni; comunicazioni, non informazioni; e spesso diventano l’occasione per mescolare spettacolo e informazione, e per mettere in scena conflitti artificiosi.
In altre occasioni ho evocato allora un “giornalismo mite”, ho accennato a un elogio della mitezza giornalistica. La cultura italiana degli ultimi 30 anni ha cercato di porre al centro questa virtù. Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky ha proposto un diritto mite, in un mondo, quello giuridico, terribile perché si fonda sulle sanzioni, sull’uso spesso legittimo ma non per questo sempre giusto della violenza. Di mitezza hanno parlato il filosofo politico Norberto Bobbio, lo psicologo Eugenio Borgna. Oltre naturalmente a molti teologi. Perché la fonte prima è inevitabilmente – lasciatemelo ricordare, anche se sono forse la persona meno indicata, qui dentro – quel Beati mites, quoniam ipsi possidebunt terram, che ha illuminato, insieme alle altre beatitudini, la nostra cultura, l’ha arricchita della cura per i deboli propria della civiltà ebraica. Uso il latino, non perché “fa cultura”, ma perché mitis non è mansuetus; ed è l’originale greco a suggerircelo: dice praus, che evoca la mitezza, la gentilezza, la dolcezza di chi è forte, di chi ha coraggio. Bobbio si sbagliava quando indicava la mitezza come una virtù debole. In realtà è una virtù forte. Il giornalismo mite, mite perché coraggioso, perché forte, solido e fondato su una solida cultura, non è un giornalismo rinunciatario, e men che meno un giornalismo ignavo. È un giornalismo che sa quel che dice, e lo dice con chiarezza, con voce ferma, ma senza aggredire, senza far paura. Anche perché ha affrontato e superato le sue paure, e dice la realtà – la realtà effettiva, la realtà possibile – come essa è e come essa può davvero essere; e nient’altro.
Un giornalismo può essere forte, virtuoso, se ha alle spalle una cultura solida, una cultura che non sia semplice conoscenza, ma sia Bildung, formazione del carattere. Bisogna essere forti anche nel porre a noi stessi i limiti giusti. La libertà di espressione su cui si fonda il nostro lavoro e che, giustamente, così spesso invochiamo, è solo un punto di partenza: è una “libertà da”, libertà dalle interferenze di qualunque potere, riconosciuta a tutti i cittadini. A noi occorre anche una “libertà di”. Libertà di fare informazione veritiera, corretta. Le due libertà non sono in contraddizione, come scriveva invece Isaiah Berlin negli anni cupi del confronto tra le democrazie liberali e il comunismo sovietico, spingendosi però troppo in là. La “libertà di”, in questo caso libertà di fare informazione veritiera, è più profonda della “libertà da”, ma proprio per questo impone dei vincoli precisi. Vincoli che non possono venire dall’esterno, altrimenti la libertà viene negata. I vincoli al giornalismo devono venire dai giornalisti stessi. All’estero i press councils – i locali “ordini” dei giornalisti – sono nati, invariabilmente, nel momento in cui si è temuto che intervenisse il Parlamento o comunque il potere politico a dettare regole. La loro nascita tumultuosa dopo la caduta dei regimi comunisti ne è un esempio drammatico, ma è accaduta la stessa cosa per esempio in Gran Bretagna, o in Australia, o in Belgio.
Occorre cultura, e una cultura peculiarmente giornalistica, per porsi i limiti giusti. Non possiamo dimenticare che tutti i codici etici, tutto il lavoro dei consigli di disciplina, si basano – anche inconsapevolmente – sull’idea di una virtù che si possa apprendere, che sia razionale, come volevano Socrate, gli antichi greci, Tommaso d’Aquino, Immanuel Kant. Le norme europee hanno imposto a tutti gli organismi di autorganizzazione delle professioni una formazione professionale continua che si allarghi anche ai temi deontologici. L’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha molto investito in questa attività, che noi giudichiamo fondamentale; e la Fondazione Walter Tobagi diventerà il suo braccio operativo in questo campo.
Abbiamo presto capito però che lo sforzo era insufficiente, perché i corsi sono – per loro natura – sfuggenti. Iniziano a svanire nel momento in cui finiscono. Abbiamo allora lanciato un’iniziativa diversa, quella dei toolbox, una specie di biblioteca digitale che sia a disposizione dei colleghi, sempre, su temi che siano insieme deontologici e analitici. Con l’aiuto di Federica Brunelli abbiamo lanciato un primo toolbox su un tema che aveva suscitato molti equivoci, anche tra di noi, quello della giustizia riparativa, molto esposta alle insidie della giustizia mediatica. Stiamo andando anche oltre: l’11 ottobre allo Iulm, presenteremo un’iniziativa più ambiziosa, per lo sforzo profuso e per gli obiettivi che ci siamo posti, realizzato con l’aiuto della Clinica legale di Giustizia penale del Dipartimento di Scienze Giuridiche Cesare Beccaria della Università Statale di Milano, guidata dalla professoressa Angela della Bella, e con l’aiuto della Camera Penale guidata da Valentina Alberta, con il sostegno fattivo di Federico Riboldi e Margherita Pisapia. Presenteremo un toolbox complessivo sul processo penale, che sia un punto di riferimento, pratico, concreto e culturalmente rigoroso, per chi si occupi di cronaca giudiziaria e di cronaca nera. L’idea è quella di andare avanti, di moltiplicare i toolbox, di aggiornarli nel tempo, di fornire ai colleghi non certo un’interpretazione autentica e cogente, ma una serie di spunti di riflessione e autoriflessione sul nostro lavoro. L’economia, la sanità, l’analisi dei dati, ma anche il giornalismo di inchiesta, sono alcuni dei temi che richiedono iniziative analoghe. Da oggi è alla Fondazione che questi toolbox saranno operativamente affidati.
L’obiettivo che è sullo sfondo di tutte queste attività, e in qualche modo le unifica, è e resta quello di dare un contributo allo sforzo più difficile: quello di recuperare la fiducia del grande pubblico nei confronti non solo e non tanto del giornalismo – di ciascuno dei giornalisti e di ciascuna delle singole testate – ma del metodo giornalistico, la ricerca rigorosa in tempi rapidi, continuamente aggiornata, delle informazioni rilevanti nel momento in cui diventano disponibili o possono essere recuperate, la loro contestualizzazione e la loro analisi critica.
Non si può dimenticare però che un giornalismo così solido richiede risorse, anche economiche. Occorrono redazioni ampie. Il settore dei media è invece in crisi, strutturale. Il modello di business dei giornali finanziati dalla pubblicità si è svuotato. La “vecchia” imprenditorialità nel settore non demorde ma non è risolutiva. Continua a voler fare dei media meri strumenti per “influenzare l’opinione pubblica”, obiettivo oggi, e forse da sempre, impossibile. Alternative non ne nascono. Le cooperative di giornalisti hanno mostrato i loro limiti: troppo lente nel processo decisionale, poco attraenti per gli investitori esterni. All’estero si è molto discusso di questo problema, alcune soluzioni sono state individuate, e vengono sperimentate: negli Stati Uniti, o in Francia dove hanno fatto molto discutere le proposte di Julie Cagé. Sono soluzioni che richiedono una regolamentazione, per essere efficaci. Chiedono un’elaborazione economica e giuridica, prima ancora di una volontà politica e della ricerca di investimenti. Chiedono una cultura dell’innovazione, che si proietti in avanti. La Fondazione servirà anche a favorire questa elaborazione.
C’è poi un’ultima forma di cultura del giornalismo che richiede di essere coltivata, anche a livello regionale e locale. L’attività giornalistica, la libertà di fare informazione, la libertà di espressione in tutte le sue forme sono, ovunque nel mondo, sotto attacco. Nelle scorse settimane almeno una giornalista lombarda – Stefania Battistini – è stata vittima della pretesa di un potere politico, di uno Stato, di controllare l’informazione. A volte però questa tendenza procede in forme molto subdole. Ovunque si cerca di mettere tra parentesi la cultura della libertà, la dimensione liberale delle nostre liberaldemocrazie. Si tenta di far lentamente scivolare le nostre società verso forme di democrazie illiberali, di democrazie plebiscitarie. È la morte della nostra civiltà, ed è la morte del giornalismo, che diventa propaganda settaria, ideologica, astratta. Non possiamo essere d’accordo.
Testimoniare la centralità della libertà di espressione in tutte le sue forme – libertà di parola, libertà di fare informazione, libertà di associazione, libertà di manifestazione – è un compito necessario. Alcuni punti fermi si stanno perdendo. Oggi si parla molto di bilanciamento dei diritti, come se fossero tutti sullo stesso piano. Non è sbagliato. Ne discuteremo, per esempio, l’11 ottobre, quando presenteremo il toolkit sul processo penale. In generale però in una società liberale, in una società libera, non è così. I diritti di libertà – e quindi la libertà di espressione, la libertà di fare informazione – vengono prima. Prima non in senso giuridicamente gerarchico ma in un senso lessicografico. Vengono prima come la lettera A, nell’alfabeto e quindi in una ricerca nei dizionari, viene prima della lettera B, e di tutte le altre lettere. In un edificio ci sono mura e mura portanti. Nell’architettura costituzionale di una società libera e giusta – è la grande lezione di John Rawls – le libertà vengono prima. La libertà è inoltre sempre la libertà degli altri. A volte urta. Ho già parlato di giornalismo mite. Non ci si illuda, però. Il giornalismo che non “dà fastidio”, che “non irrita”, non esiste in una società libera. Ricordiamoci anche, come ha scritto Beaumarchais e come ci ricorda ogni giorno il quotidiano francese Le Figaro, che “senza la libertà di criticare, non c’è alcun elogio lusinghiero”: le lodi perdono senso, diventano tutte finte.
La Fondazione ha l’ambizione di voler lavorare anche su questo. Sulla diffusione in Lombardia, di una cultura della libertà di informazione che faccia scuola. Cercheremo l’aiuto di tutte le istituzioni, perché abbiamo bisogno del loro, del vostro, aiuto. In un’ottica non semplicemente bipartisan: è una nozione fuorviante, questa, perché non mette in rilievo il cuore della questione, la costruzione di una cultura civica comune, procedurale come si conviene alle società moderne, che tenga insieme senza schiacciarla la loro enorme diversificazione.
Gli obiettivi della Fondazione sono allora chiari; e sono tanti:
- la diffusione nella società civile di una cultura del giornalismo e della libertà di espressione su cui si fonda
- l’offerta concreta di una formazione professionale continua di alto livello
- l’elaborazione di toolbox rigorosi a disposizione dei colleghi (e del grande pubblico)
- lo sviluppo di una cultura giornalistica che renda più rigoroso e più solido il nostro lavoro
- il sostegno alla ricerca di soluzioni economiche sostenibili per il giornalismo
Un elenco così ambizioso spiega perché abbiamo scelto la forma giuridica della Fondazione e non abbiamo tenuto tutte queste attività all’interno dell’Ordine. Avevamo bisogno innanzitutto di un veicolo di diritto privato, più flessibile. Io non sono fautore della privatizzazione degli Ordini – a meno che non ci siano delle forme di riconoscimento più incisive delle sue attività – ma è evidente che l’attuale normativa, figlia di una cultura corporativa ormai superata, è troppo rigida. Se gli Ordini, tutti gli Ordini, sono una forma di autonoma organizzazione delle professioni – autonome dalla politica, autonome dall’economia – allora devono essere più… autonomi.
Occorreva un veicolo dell’Ordine ma sganciato dall’Ordine che avesse l’ambizione di presentarsi a tutti i potenziali partner, culturali ma – perché no? – anche finanziari, come un’istituzione solida, che deve rispettare precisi vincoli contabili e di governance, e che ha un obiettivo unitario anche se articolato – la cultura giornalistica in tutte le sue forme – in modo da non creare rischi o sospetti di commistioni improprie tra diverse attività. La stessa governance della Fondazione è potenzialmente aperta a quei partner che raggiungessero, per numero e per sostegno, una sufficiente massa critica, mentre il Comitato scientifico, che dobbiamo ora formare e che deve diventare il cervello della Fondazione, deve raccogliere il miglior contributo delle istituzioni culturali della Lombardia.
Da oggi inizia allora un viaggio difficile. Spero di essere riuscito a mostrarvi quanto sia importante per noi.
Nel passare la parola a Lorenzo, che vi illustrerà cosa ci occorre sul piano, come dire, della cultura tecnica del giornalismo, vi ringrazio dell’attenzione.