Il caso Battistini e la censura di Stato


Francesco Gaeta 

Minacce fisiche e verbali, creazione di video e false identità, diffusione di fake news sugli autori per screditarne il lavoro, liste di proscrizione. Tra i diversi modi in cui si può ostacolare il lavoro di un giornalista, a Stefania Battistini, inviata del Tg1, è toccata la variante più pesante: la minaccia di arresto. Dopo un primo avvertimento dei servizi segreti in agosto – il Fsb aveva annunciato di aver aperto un procedimento penale – il ministero degli interni russi ha inserito la giornalista nell’elenco delle persone ricercate insieme con l’operatore Simone Traini. La loro colpa è avere raccontato al seguito delle truppe ucraine l’offensiva all’inizio di agosto nel territorio russo di Kursk. Avere fatto cioè, bene, il proprio lavoro. Nella stessa lista nera, diffusa dalla Tass il 12 settembre, ci sono altri colleghi di testate straniere: Simon Connolly di Deutsche Welle, Nick Walsh della Cnn e le ucraine Natalia Nagornaya, Diana Butsko e Olesya Borovik. Per i due italiani – difesi in un comunicato dalla Rai, che li ha poi richiamati in Italia – il rischio è una condanna fino a 5 anni di carcere. 

Non è semplice misurare la febbre da censura, tracciare linee di tendenza tra episodi che per primi noi giornalisti tendiamo a trattare con picchi di indignazione altissimi nelle fasi di emergenza per poi indulgere a troppo rapide dimenticanze. Occorre assumere invece il punto di vista di chi osserva, studia le nuove forme di ricatto e di intimidazione, e così facendo prepara possibili risposte.  È una logica meno emotiva e di lungo periodo, che è quella di un progetto cofinanziato dalla Commissione Europea: MFRR (Media Freedom Rapid Response), che monitora in un database onlinequotidianamente aggiornato le violazioni della libertà di stampa a danno dei media negli Stati dell’Unione e nei paesi candidati. 

I dati

L’ultimo Report of Media Freedom di MFFR aggiornato a giugno 2024 ha raccolto 474 segnalazioni che hanno coinvolto 748 giornalisti. In un caso su cinque si è trattato di intimidazioni e minacce fisiche e verbali (92 segnalazioni, il 19,4%). Subito dietro c’è il «blocco dell’attività giornalistica» (16,9%), che può consistere nell’ostacolare la possibilità di essere sui luoghi chiave, l’accesso alle informazioni, la distribuzione dei contenuti giornalistici. Il caso Battistini, appunto. Questo tipo di censura ha registrato un aumento: nei primi 6 mesi del 2024 sono già stati registrati più casi (80) rispetto all’intero anno passato (76). A quanto pare, più che un pugile che picchia o minaccia la censura assume sempre più i tratti di un buttafuori che impedisce l’accesso alla stanza dei fatti.

 Il punto vero è che tra i buttafuori, anche in Europa, ci sono sempre più soggetti pubblici, governi o enti parastatali. La censura è infatti attuata da funzionari governativi e pubblici nel 22,4% dei casi e questo tipo di matrice ha registrato da gennaio a giugno 2024 quasi lo stesso numero di episodi (106) rispetto all’intero 2023 (109). Nell’UE, inoltre, il MFRR ha censito dodici iniziative legislative riguardanti leggi che limitano la libertà di stampa. 

Gli «agenti stranieri»  
La censura di Stato sull’informazione sembra oggi avvenire percorrendo due strade. 
La prima è quella inaugurata con le norme sui cosiddetti “agenti stranieri” escogitata dal regime russo come strumento di condizionamento sui media indipendenti (ne avevamo parlato qui). Le società – comprese quelle editoriali – in cui esiste una partecipazione straniera vengono cioè etichettate come organizzazioni che perseguono gli interessi di potenze straniere. In questi casi le garanzie assicurate normalmente – se e quando sono assicurate – vengono fortemente allentate, consentendo ai governi forme di intervento liberi da ogni vincolo o contrappeso. 

È quanto accaduto in Ungheria con il Sovereignty Protection Act voluto dal premier Orban e votato dal Parlamento di Budapest nel dicembre scorso, tra proteste interne e censure del Parlamento Europeo. La legge prevedeva la creazione di una autorità governativa con il potere di raccogliere informazioni su gruppi o individui che beneficiano di finanziamenti esteri e possono influenzare il dibattito pubblico. Le pene previste arrivano a tre anni. Su queste premesse il Sovereignty Protection Office – la nuova entità di sorveglianza governativa nata dopo la legge – ha avviato nei mesi scorsi una inchiesta sull’editore indipendente Átlátszó per accuse mosse da Civil Solidarity Foundation, un’organizzazione della società civile ungherese strettamente allineata con il partito di governo Fidesz. Il pretesto è strato un finanziamento estero ad  Átlátszó. Lo schema dunque è chiaro, semplice nella sua brutalità e può essere facilmente replicato contro la voce scomoda di turno.
Questa modalità di censura ha infatti avuto seguito altrove. 
Per esempio, in Georgia, paese retto dal partito nazionalista Sogno Georgiano. Una nuova legge ha concesso al ministero di Giustizia poteri per indagare sulle organizzazioni finanziate dall’estero, rendendo possibili multe pecuniarie per chi non rende noti i dati richiesti dalle autorità, comprese le informazioni personali e riservate. 

L’offensiva sul servizio pubblico

Un secondo modo che i Governi adoperano – e non da ora – per avere una informazione amica è agire sui media del servizio pubblico. In certi casi lo si fa in maniera rude, quasi senza pudori, arrivando a chiudere la stessa emittente pubblica. 
A giugno in Slovacchia – paese retto da una coalizione guidata dal partito Smer del premier Robert Fico, da HLAS, un partito populista di sinistra e dal Partito nazionale slovacco (SNS) – il parlamento ha approvato un disegno di legge per sciogliere la tv pubblica RTVS e sostituirla con un’entità politicizzata, STVR. Il direttore dell’emittente pubblica Ľuboš Machaj sarà sostituito anni prima della scadenza del suo mandato. Il disegno di legge è stato ovviamente criticato dall’opposizione e dai dipendenti della RTVS. Si è trattato in realtà dell’ultimo atto di una offensiva che durava da tempo, e che si era concretizzata in tagli di bilancio del 30% e forti pressioni sul management. Il direttore della nuova emittente sarà selezionato da un consiglio i cui nove membri saranno nominati dal ministero della Cultura e dal parlamento. 
In Lituania, è invece in discussione il modello di finanziamento dell’emittente pubblica. A giugno il deputato Mindaugas Lingė ha proposto una modifica della legge sulla radiotelevisione nazionale lituana (LRT) che propone l’abolizione della soglia minima di finanziamento e mette a repentaglio la sostenibilità, l’indipendenza e la capacità della LRT di adempiere al suo mandato. 
La Russia di Putin ha dunque fatto scuola anche in certi pezzi d’Europa. Il caso Battistini non è grave soltanto perché riguarda una giornalista italiana, ma perché esemplifica una censura di Stato replicabile non solo nei regimi ma anche in sistemi che si dicono democratici e siedono alla nostra stessa tavola.

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