Giustizia e informazione, cosa c’è in ballo

Intervento del presidente dell’OgL Riccardo Sorrentino all’incontro con l’ordine degli avvocati che si è svolto il 31 ottobre a Brescia sui recenti ritocchi degli articoli 114 e 116 del Codice di procedura penale e del disegno di legge in tema di presunzione di innocenza

Riccardo Sorrentino

Di cosa parliamo, quando parliamo di rapporti tra giustizia e informazione? Solo di dignità delle persone? Decisamente no. Parliamo dell’applicazione della violenza terribile dello Stato sui suoi cittadini, che possono essere privati della libertà, dei propri beni, in alcuni paesi anche della vita. Diritto penale e diritto di procedura penale costituiscono il volto terribile del diritto, che richiede grande equilibrio, una grande – lasciatemelo dire – delicatezza. Lo Stato non può diventare l’agenzia che esercita la vendetta privata, rendendola pubblica. La giustizia cesserebbe di essere giustizia.

Contro la violenza, gli uomini e le donne hanno un solo strumento: la ragione. Non la ragione matematica – che pure non mi stancherò mai di ammirare – ma la ragione discorsiva, quella che nasce da un confronto sereno, mite, tra diverse argomentazioni. 

La civiltà è questo, e niente altro. 

Per questo motivo ritengo che sia stato un vero e proprio salto di civiltà dell’ordinamento giuridico italiano il passaggio dal sistema inquisitorio al sistema accusatorio, in cui le prove si formano nel dibattimento, nel corso di una discussione virtualmente, o meglio tendenzialmente paritaria tra la difesa e l’accusa, che pure resta obbligata a raccogliere e mettere a disposizione anche le prove a favore dell’indagato e dell’accusato. 

Considero allora importanti gli sforzi del mondo del diritto di proteggere il dibattimento dalle ingerenze esterne. Mi ha sempre molto colpito il “linguaggio della purezza” che spesso i giuristi adottano quando parlano del processo penale, per esempio quando parlano di “verginità cognitiva” del giudicante, che deve avvicinarsi al dibattimento quasi senza nulla sapere della questione di cui si discute. È un uso enfatico del linguaggio, forse non rigoroso, ma esprime una cura doverosa verso il delicato equilibrio di quelle procedure. L’informazione su quanto avviene durante le indagini, e poi nei tribunali resta però fondamentale. Le dittature ne sono – a contrario – la prova.

Il tema della verginità cognitiva richiama immediatamente il cuore della discussione sul rapporto tra giustizia e informazione: il problema, indubbiamente grave, della “giustizia parallela”, la pretesa di fare giustizia penale al di fuori delle aule giudiziarie, senza le regole, le garanzie, i vincoli del diritto.

Qualcuno la chiama “giustizia mediatica”. Non credo che sia opportuno. Perché questa formula evoca soluzioni che non risolvono il problema. Qualcuna di esse è stata adottata, nell’ordinamento giuridico italiano, e noi giornalisti l’abbiamo subita, e con noi la qualità dell’informazione. Mi ha fatto piacere notare che, ultimamente, alcuni penalisti di Milano – in passato i più rigidi – hanno compreso come le regole del decreto legislativo 188 del 2021 sulla presunzione di innocenza abbiamo moltiplicato i problemi, e non li hanno risolti.

Una cosa deve essere chiara. Non respingo il concetto di giustizia mediatica perché voglio negare l’esistenza di patologie, a volte anche gravi, del giornalismo. Noi tutti – mi rivolgo ai colleghi – dobbiamo esserne consapevoli e anche acuti critici. Respingo quel concetto perché i media sono soltanto il luogo virtuale, lo spazio virtuale in cui si cerca di fare “giustizia parallela”. Vorrei che fosse chiaro questo concetto: i media sono il luogo virtuale in cui si fa “giustizia parallela”.

A muoversi in questo spazio non sono soltanto i giornalisti, che sempre meno lo governano, e forse non l’hanno mai fatto. In un recente evento del nostro Ordine a Milano, l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli ha parlato di una catena lunga dell’informazione, di cui le giornaliste e i giornalisti sono soltanto un anello. Posso ricordare qui che ne fanno parte i politici, i giornalisti – certo – gli specialisti di litigation public relation, mondo oscuro, gli esperti, gli stessi avvocati e magistrati.

De Bortoli ha richiamato come esempio il caso di quel ministro che nel 2014, pur essendo avvocato, dichiarò: “Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara”.

A me piace ricordare un altro caso, esploso in Francia nello stesso periodo. Un caso in cui i giornalisti sono stati in buona sostanza passivi. Lasciatemi allora, per un momento fare il giornalista e raccontarvi questo episodio. Siamo nel cuore della Francia, a La-Selle-sur-le-BIed; è il 10 settembre 2012. Quella sera il marito di Jacqueline Sauvage, 65 anni, torna a casa, la trascina per i capelli in cucina e le dice: “Sta’ zitta e prepara la cena”. Lei obbedisce, prende una pillola per dormire, va a letto. Dopo solo due ore si sveglia, prende un fucile e spara al marito alle spalle. Poi telefona al figlio, che non risponde perché due giorni prima si è suicidato, non sopportando le umiliazioni a cui il padre lo sottopone. Al dibattimento, le tre figlie denunciano le violenze sessuali del padre, che ha forse abusato anche del figlio maschio.

Al processo si decide che non è applicabile la “legittima difesa indiretta” che pure, nel 1989, aveva portato all’assoluzione – dopo un giorno solo di processo – la 17enne Ida Beaussart che aveva ucciso nel sonno il padre, violento neonazista, per impedirgli di ammazzare, il giorno dopo, l’altra sua figlia. La pubblica accusa chiede allora per Jacqueline Sauvage il minimo della pena, 10 anni. Al minimo della pena la condanna la Corte d’assise, con giuria popolare, in primo e secondo grado. La Cassazione conferma.

A questo punto si scatena la “giustizia parallela”. Le avvocate di Jacqueline Sauvage costruiscono un caso centrato sulla violenza – innegabile, inaccettabile – del marito sulla donna, che diventa quindi un simbolo della lotta alla violenza maschile. L’obiettivo è la grazia, che poi François Hollande, un presidente che non amava questo istituto, le concede prima parzialmente, poi in modo totale, scatenando le critiche dei magistrati. La rete tv Tf1 produce due anni dopo, con la consulenza delle legali, anche un docufilm, intitolato Jacqueline Sauvage, c’était lui ou moi.

A questo punto interviene però l’ex avocat-général, l’accusatore di Jacqueline Sauvage. Frédéric Chevallier scrive una lettera aperta su Le Monde, e si rivolge alla donna, spiegando a tutti che ben diversa era la situazione così come era emersa durante il processo. Jacqueline Sauvage non era una persona debole, ma una donna molto determinata, che guidava l’azienda di famiglia, aveva accesso a sei conti correnti (di cui due, effettivamente, bloccati dal marito per conflitti familiari). Nella casa, racconta, erano state trovate dodici armi da fuoco e centinaia di munizioni. Il fucile usato dalla donna era suo personale. Non solo: quando Jacqueline Sauvage era venuta a sapere del tradimento del marito, aveva “brutalizzato”, dice Chevallier, la rivale. Le cronache del processo sono più precise: l’aveva affrontata con una pistola in pugno, e l’aveva inseguita fino alla Gendarmerie, dove la vittima si era poi rifugiata.

La reazione delle avvocate è stata furiosa. Sempre su Le Monde, Janine Bonaggiunta e Nathalie Tomasini scrivono: “Monsieur l’Accusateur public, Comment osez-vous écrire une lettre (Le Monde du 1er octobre) à Jacqueline Sauvage par voie de presse, deux ans après sa libération? Vos propos sont d’une indécence sans nom”.

L’elemento chiave di questa vicenda è che la “giustizia parallela” si svolge sui media, ma con un ruolo passivo dei giornalisti. Si può raccontare, a questo punto, anche il caso da pochi giorni tornato di attualità dei fratelli Lyle e Erik Menéndez, che nel 1989 uccisero il padre, che li avrebbe violentati, e la madre, ereditando 14 milioni di dollari. Il primo processo fu trasmesso integralmente in televisione e si concluse senza un verdetto: la giuria non raggiunse l’unanimità. Un secondo li condannò all’ergastolo. Oggi, dopo una serie Netflix, lanciata a settembre e un docufilm, lanciato sempre su Netflix questo mese, con le testimonianze dei fratelli che correggono le presunte “distorsioni” dei telefilm, il procuratore George Gascon ha annunciato che rivedrà le decisioni prese in passato aprendo così la porta alla libertà condizionale finora negata. Anche in questo caso, tutto avviene sui media, ma non con il coinvolgimento dei giornalisti e della loro mediazione. Sono singoli esempi e, lo ripeto, in alcuni casi abbiamo un ruolo attivo e decisamente criticabile. Non siamo però gli unici responsabili. 

Lasciatemi anche ricordare un fatto, per sottolineare la complessità del fenomeno, che non si può semplicemente e genericamente condannare: il caso più famoso, in cui è stata invocata una “giustizia parallela” ruota attorno a un articolo, redatto da un giornalista e scrittore francese: il suo titolo è J’accuse, il suo autore Emile Zola. Non fu esattamente un caso di giustizia “a furor di popolo”.

Tutto questo mi permette di dire che c’è un terreno comune, nello spazio virtuale della “giustizia parallela”, tra magistrati, avvocati e giornalisti: il terreno della realtà dei fatti, della verità. Il resto è narrazione fantastica, “liberamente ispirata”, demagogia giustizialista. È vero, in un processo si distingue tra verità processuale e verità storica. Questa stessa distinzione rimanda però a una realtà che è irrilevante per la decisione dei giudici ma non è per questo meno realtà. 

Analogamente, per noi giornalisti il richiamo alla realtà diventa sempre più importante. Pensiamo al ruolo dell’intelligenza artificiale, a come può essere usata per distorcere le cose. La funzione fondamentale dei giornalisti, quelli di fare da mediatori tra la realtà e il grande pubblico, ne esce esaltata. Appare anche una funzione nuova, quella della traduzione culturale, quanto mai necessaria quando si tratta di informare i cittadini, che siano medici di altissimo valore o addetti delle pulizie, sulla realtà di un mondo specializzato come quello del diritto.

Occorre però far parlare davvero la realtà. Quale lezione è stata, durante un recente corso sulla Giustizia riparativa, ascoltare un docente universitario, Roberto Cornelli, criminologo all’Università di Milano, che ci invitava a parlare delle vittime “in carne e ossa” proprio mentre, nel dibattito che si era aperto, noi parlavamo delle vittime sovrapponendo loro le nostre aspettative, se volete l’”archetipo della vittima”. Quella vittima che voi giuristi, giustamente, chiamate “persona offesa”. Anche la precisione del linguaggio deve diventare, pur nella diversità dei compiti, un patrimonio comune tra mondo del diritto e mondo dell’informazione.

La necessità della precisione del linguaggio emerge con chiarezza sul tema della presunzione di innocenza, che ci ha tenuti a lungo impegnati. Cosa significa quel “è considerato innocente”? Siamo obbligati a pensare tutti in un certo modo? Come si potrebbe, in questo caso, ricostruire la realtà, senza un’ipotesi di reato e di colpevolezza, da confutare, magari? I costituenti, che pure hanno votato l’articolo 48, consideravano la formula della presunzione di innocenza poco rigorosa, più politica che tecnica. Una formula che rinviava almeno a due principi sacrosanti ma più concreti, il divieto di comminare sanzioni senza una sentenza – salvo le eccezioni previste dalle leggi – e il principio in dubio pro reo, che potrebbe diventare anche una regola per i giornalisti. 

La precisione del linguaggio permette di evitare equivoci, di non porsi obiettivi irrealistici. Non si parla di presunzione di innocenza nel codice etico dei giornalisti americani, dove semplicemente si chiede di “bilanciare il diritto di un sospettato a un processo equo con il diritto del pubblico a essere informato. Considerare le implicazioni dell’identificazione dei sospettati di reato prima che affrontino accuse legali.” Un’altra norma, non irrilevante nel nostro discorso chiede di “Riconoscere che l’accesso legale alle informazioni è una cosa diversa da una giustificazione etica per pubblicare o trasmettere”.

Un discorso del tutto analogo a questo potrebbe essere fatto – ma non ne ho il tempo qui – per il diritto alla reputazione, anch’esso un diritto che sembra imporre un certo modo di pensare e di esprimere le opinioni.

Come “andare oltre” non è però immediato, se l’obiettivo è quello di decostruire la presunzione di colpevolezza che sembra invece dominare nella società, evitare insomma che la frase “giustizia è fatta” sia pronunciata – come notava Adam Smith già nel Settecento – soltanto in caso di condanna.

Sicuramente la strada non sono il divieto, le sanzioni per i giornalisti. Nel silenzio parla il silenzio, ossia il caso: nessuno è più responsabile. Se la patologia del sistema italiano è nel rapporto troppo stretto tra Procure e giornalisti, la soluzione non può che essere nel fornire a tutti le stesse informazioni di base, e permettere le conferenze stampa, dove il procuratore è davvero costretto a essere trasparente, responsabile, accountable.

Il quadro normativo che invece ci regola oggi è, in un confronto internazionale e alla luce della giurisprudenza europea, molto penalizzante. Il punto non è però soltanto la libertà dei giornalisti. Permettetemi di dire che la nostra non è una battaglia corporativa. Un’istituzione, come l’Ordine, è razionale solo se, come dice Benedetto Croce, “risponde a interessi dell’individuo”, ma “si volge tutt’insieme a fini sopraindividuali e li adempie validamente”.

Viviamo in un’epoca in cui la dimensione liberale delle nostre democrazie viene sempre più compressa, a volte in modo subdolo, lento. Quando parlo di liberalismo non parlo qui – lasciatelo dire a un appassionato del tema – delle politiche contradditorie e inconseguenti dei partiti che in tutto il mondo si dicono liberali. Parlo del liberalismo come metapolitica, come concezione della vita; come l’approccio insieme razionale ed esistenziale che mantiene vive le nostre società, diversificate e plurali.

Il giornalismo risente di questa compressione delle libertà, che a volte è stata introdotta per tutelare diritti che non sono diritti di libertà. Non è solo una questione di leggi. A volte, per esempio, chi rivendica la libertà di espressione sembra rivendicare il diritto di non essere criticato, che limita la libertà altrui. Anche il discorso sul diritto alla reputazione, in alcuni casi, sembra andare nella stessa direzione. 

Non dimentichiamoci mai che i diritti di libertà vengono prima degli altri, se non in senso gerarchico – forse non sarebbe possibile – almeno in senso lessicografico, come ci ha insegnato John Rawls, ripetendo e sistematizzando in fondo l’intera cultura liberale. I diritti di libertà vengono prima come in una ricerca sul dizionario la A viene prima della B e di tutte le altre lettere dell’alfabeto. Altrimenti si esce fuori dall’ambito liberaldemocratico, si va verso le democrazie illiberali, verso i regimi paternalistici, autoritari.

C’è insomma – è questa la conclusione a cui tengo – un possibile percorso comune da fare. Non sarà facile. Giustizia e informazione sono strutturalmente diversi: il giornalismo è rapido, mentre la giustizia è necessariamente lenta; il giornalismo ha uno sguardo ampio, esamina i fatti che emergono dalle indagini e dai dibattimenti sotto molti punti di vista – politici, sociali, etici – mentre la giustizia ha uno sguardo profondo, e ha un ideale di purezza che l’informazione può, per così dire, macchiare. La sfida, quasi la provocazione, che ci pongono le società contemporanee è però proprio questa: la provocazione della coesistenza di sguardi diversi, che a volte possono anche creare frizioni e conflitti.

Noi siamo pronti. Molte iniziative sono state prese da noi in Lombardia per affrontare il tema della “giustizia parallela”. E’ soltanto l’ultima di queste iniziative la predisposizione di un toolbox in formato digitale, a disposizione dei colleghi, che spiega cosa sia il processo penale per favorire quella traduzione culturale sempre più necessaria. E’ stato realizzato in collaborazione con la Camera penale di Milano e con il dipartimento di diritto penale Cesare Beccaria dell’Università di Milano. Altre arriveranno, anche nell’ambito delle attività della neonata Fondazione Walter Tobagi per la cultura giornalistica. 

Abbiamo anche bisogno di nuove norme. Per esempio sulla giustizia interna, che spesso – anche recentemente e con durezza – si è espressa sulla “giustizia parallela”: occorre garantirne la pubblicità, come all’estero, assicurarne la correttezza e la competenza delle procedure – lasciatemi dire che il presidente del Consiglio di disciplina territoriale lombardo è un penalista, giornalista pubblicista, e il suo rigore è ammirevole – occorre prendere in considerazione le esigenze dei giornalisti “segnalati” che sono giudicati da colleghi, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che questo comporta. Insomma: i classici, delicati equilibri di una procedura di giudizio. Sarebbe importante elaborare con il vostro aiuto una riforma in questo senso.

Grazie dell’attenzione e buon lavoro.

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