In Marocco la libera informazione non è gradita

Il lavoro di chi fa giornalismo indipendente nel (e sul) Paese guidato da Mohammed VI è a rischio: il racconto di un freelance allontanato dalla polizia durante una inchiesta. E alcuni consigli su come tutelarsi al meglio
Di Matteo Garavoglia 

questo articolo è parte di  Tabloid Project, il magazine multimediale dell’OgL sull’informazione 


Lo scorso 30 marzo, insieme al collega e fotografo Giovanni Culmone, sono partito per un lavoro sul campo di un mese in Marocco per indagare sulla repressione nazionale e transnazionale che ancora oggi il governo di Mohammed VI attua nei confronti di dissidenti, attivisti, oppositori politici, giornalisti e membri della società civile. Il nostro viaggio è stato possibile grazie a un finanziamento di Journalismfund Europe, un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro registrata in Belgio. Tuttavia, come vedremo, non è stato possibile completare il nostro viaggio.

Il progetto prevedeva due momenti di ricerca: uno in Marocco, per raccogliere materiale sulla repressione interna, e l’altro in Spagna, Belgio, Paesi Bassi e Italia, per raccontare le persecuzioni che ancora colpiscono i dissidenti e gli attivisti fuggiti dal loro Paese per garantire la propria sicurezza personale, e condurre interviste a esponenti delle istituzioni europee sui programmi di riforma legati alla sicurezza e alla giustizia promossi da Bruxelles ma mai realizzati.

Nella notte tra il 26 e il 27 aprile ci trovavamo a Laayoune, capitale amministrativa del Sahara Occidentale, quando poco dopo la mezzanotte circa dieci agenti di sicurezza marocchini si sono presentati davanti alla nostra stanza d’hotel per comunicarci che non eravamo persone gradite sul territorio. Da lì siamo stati accompagnati prima in taxi fino ad Agadir, città del sud del Marocco, e poi in autobus fino a Marrakech. Dopo altri due giorni nel Paese, pedinati da agenti in borghese e in contatto costante con l’Ambasciata italiana a Rabat, siamo rientrati in Italia il 29 aprile con un volo di linea. 

Nel frattempo, sugli organi di stampa marocchini e italiani sono uscite ricostruzioni che non rappresentano in alcun modo ciò che è realmente accaduto. È stato scritto che saremmo entrati con un’auto privata e senza la necessaria autorizzazione per soggiornare a Laayoune. È stato anche detto che non era la prima volta che tentavamo di entrare illegalmente nella regione e che avremmo voluto diffondere tesi separatiste sotto copertura.

In realtà, eravamo  entrati in Marocco con regolare visto turistico il 30 marzo all’aeroporto di Rabat, senza mai nascondere la nostra professione. Dopo aver raccolto interviste e testimonianze in Marocco, il 24 aprile eravamo arrivati a Dakhla, nel sud del Sahara Occidentale, con un volo interno da Casablanca. Il 26 avevamo preso un autobus di linea fino a Laayoune, senza svolgere alcun tipo di lavoro giornalistico. Nella notte tra il 26 e il 27 aprile, infine, siamo stati raggiunti dagli agenti di sicurezza marocchini e allontanati dalla città. Si è trattato, quindi, di un invito a lasciare il territorio e non di un’espulsione, come erroneamente riportato.

Non è la prima volta che una situazione del genere si verifica nei territori occupati del Sahara Occidentale. Negli ultimi anni, centinaia di persone non sono state fatte entrare o sono state espulse: parlamentari, europarlamentari, giornalisti, avvocati, organizzazioni internazionali come Amnesty International e relatori dell’ONU.

Stretta sorveglianza

Il Marocco rimane uno Stato con un apparato di sorveglianza tra i più sofisticati al mondo e una capacità di controllo del territorio capillare, soprattutto nelle regioni più sensibili come il Rif, a nord, o il Sahara Occidentale, territorio conteso tra le autorità di Rabat e il Fronte Polisario fin dal 1976

Se l’epoca del re Hassan II (1961-1999) si è rivelata brutale, con torture, violenze dell’apparato securitario e sparizioni forzate di dissidenti politici all’ordine del giorno, sotto Mohammed VI si è verificato un processo di riforma istituzionale che, in apparenza, ha portato il Paese a rispettare i diritti umani secondo gli standard internazionali. Nonostante l’apertura di una commissione d’inchiesta per fare luce sui cosiddetti “anni di piombo” di Hassan II e una revisione costituzionale nel 2011, a seguito dei moti legati alle cosiddette “primavere arabe”, diverse zone d’ombra continuano a interessare il regime attuale.


Negli ultimi anni, il Paese ha conosciuto un importante sviluppo delle sue strutture ricettive, consolidato dal fatto che nel 2030 ospiterà la Coppa del mondo di calcio insieme a Spagna e Portogallo. Allo stesso tempo, il regime del re Mohammed VI si è impegnato a costruire una serie di relazioni bilaterali che hanno rafforzato la percezione esterna del Marocco, nonostante i recenti scandali legati al sistema di spionaggio Pegasus e al Qatargate, che ha interessato anche lo Stato nordafricano

L’inchiesta

In Marocco abbiamo comunque concluso la prima fase del nostro lavoro. Abbiamo incontrato personalità come il giornalista Omar Radi, vittima di spionaggio tramite Pegasus, il quale, dopo una pesante campagna di diffamazione e un processo iniquo, ha passato gli ultimi quattro anni in una cella d’isolamento; la famiglia di Yassine Chabli, morto sotto tortura in un commissariato di polizia nella città di Ben Guerir; alcuni attivisti del Rif, una regione particolarmente attenzionata dalle forze di sicurezza marocchine dopo le proteste di massa del 2016; e diversi membri dell’Associazione marocchina per i diritti umani, che da anni denunciano gli abusi del regime di Mohammed VI. 

Si è trattato di un lavoro di inchiesta che ha richiesto diversi mesi di indagine, reso possibile solamente grazie a organizzazioni come Journalismfund che riescono a garantire salari e rimborsi spese a giornalisti e fotografi freelance come noi ancora prima della pubblicazione sui media tradizionali.

L’episodio spiacevole che ci è capitato – soprattutto la campagna di diffamazione promossa dai giornali marocchini, che tende a colpire in maniera indiscriminata cittadini marocchini e stranieri – era qualcosa che avevamo messo in conto. Oggi il Sahara Occidentale rimane una regione totalmente inaccessibile per giornalisti e operatori dell’informazione. 

La gestione del rischio

Proprio per questo motivo avevamo creato un gruppo di emergenza sull’applicazione Signal con alcuni colleghi in Italia per segnalare in tempo reale eventuali criticità. Con una persona in particolare avevamo condiviso la nostra posizione in tempo reale fin dall’arrivo all’aeroporto di Rabat il 30 marzo. Avevamo inoltre preparato un messaggio con i numeri di emergenza dell’ambasciata, il nostro programma quotidiano nella regione contesa e, soprattutto, inventato due parole d’ordine per segnalare la gravità della situazione: una per comunicare l’espulsione dal Paese, pratica comune in Marocco che non necessita misure particolari, e un’altra per segnalare un pericolo imminente e attivare tutti i contatti consolari e non solo. 

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Appresa la notizia dell’allontanamento, siamo riusciti ad attivare la prima e, fin dai primi istanti, i nostri colleghi hanno potuto seguirci in tempo reale nonostante fosse notte. Successivamente abbiamo deciso di contattare il numero d’emergenza dell’Ambasciata italiana, una volta appreso che la notizia distorta era stata ripresa da alcuni organi di informazione italiani dopo il lancio dell’agenzia ANSA. Era infatti la prima volta che due persone erano rimaste in territorio marocchino dopo un allontanamento. Questo particolare – unito al pedinamento continuo – ci ha portati a comunicare in maniera costante con il corpo diplomatico italiano fino alla nostra partenza da Marrakech. Qui abbiamo scoperto, grazie al console onorario della città marocchina, di non aver ricevuto alcun tipo di decreto di espulsione. 

Questa storia si è risolta nel modo migliore, anche se abbiamo vissuto sulla nostra pelle ciò di cui dissidenti e attivisti sono vittime quotidianamente: la diffamazione a mezzo stampa. Paradossalmente, uno dei temi della nostra inchiesta.

Questo articolo è stato realizzato con il sostegno di Journalismfund Europe

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