Come si fa una inchiesta «sotto copertura» 


Backstair è l’unità investigativa di Fanpage. Le sue indagini sono spesso undercover, come nel caso di Gioventù meloniana, che è stata vista 20 milioni di volte. Obiettivi, metodo e processi di una redazione a suo modo unica in Italia

Di Francesco Gaeta 

«Una porta può essere aperta in tanti modi, alcuni più irruenti di altri. Fosse per me, sceglierei sempre la chiave, ma a volte non basta». È l’opinione di Luigi Scarano, dal 2021 a Backstair, la redazione di giornalismo investigativo del quotidiano online Fanpage. È servito qualcosa in più di una chiave per realizzare Gioventù meloniana, l’inchiesta su Gioventù italiana, il movimento giovanile di Fratelli d’Italia. Pubblicata il 13 e il 26 giugno, è stata vista 20 milioni di volte ed ha aperto un dibattito sul merito di quanto emerso, cioè la fedeltà nel movimento ad alcuni disvalori di matrice fascista, e sul metodo giornalistico, l’inchiesta sotto copertura. Gioventù meloniana è infatti un dietro le quinte inedito di riunioni, convegni e campi scuola, conditi di saluti romani, «sieg heil», lodi a «zio Benito», frasi e gesti razziste e omofobi. Tutto filmato, senza possibilità di fraintendimenti.

Luigo Scarano fa part di Backstairs, l’unità investigativa di Fanpage.

Per Scarano il giornalismo sotto copertura è uno «strumento potente, ma è solo uno di quelli disponibili». Va usato «solo quando è indispensabile per raccontare qualcosa altrimenti inaccessibile». Scarano sa anche che è uno strumento controverso «all’interno della nostra stessa categoria. Per molti colleghi non è giornalismo, si avvicina di più allo spionaggio». Accusa condivisa da Italo Bocchino, ex parlamentare di AN e oggi direttore editoriale del Secolo d’Italia. Dopo avere visto la prima puntata dell’inchiesta nello studio di La7 disse: «Non è giornalismo, avete messo la telecamera al buco della serratura». La replica di Francesco Cancellato, direttore di Fanpage: «È un metodo giornalistico, si chiama undercover, e ha dignità in tutto il mondo». Ha un po’ meno dignità e seguaci in Italia: «Le nostre inchieste – spiega Scarano – sono state storicamente ignorate da molti colleghi. Per invidia. O imbarazzo: facciamo qualcosa che potrebbero, o magari vorrebbero, fare anche loro, ma che per tanti motivi non fanno». In ogni caso, il feedback dal pubblico dopo Gioventù meloniana è stato tale da indurre la direzione ad avviare una newsletter di dialogo su obiettivi, metodi e temi del giornalismo di inchiesta.

Il team e il metodo
Backstair è una redazione nella redazione formata da quattro persone. Ha tempi ben diversi dal quotidiano digitale di cui fa parte: le inchieste durano mesi, a volte anche più di un anno. Oltre che da proposte interne, sono lavori che a volte nascono da segnalazioni che arrivano dalla redazione di cronaca e altre volte sono la prosecuzione del lavoro del quotidiano. «Backstair funziona come un hub di approfondimento di Fanpage». 

Sul sito di Backstair il giornalismo di inchiesta viene definito «quello che si fa filmando tutto, verificando tutto e rendendo pubblica la verità». Verificare non significa lasciar fare a una telecamera messa sotto una camicia. Per Shalom, inchiesta undercover del 2023 sulla comunità di recupero fondata da suor Rosalina Ravasio in provincia di Brescia, è servito un anno di lavoro, un centinaio di ex ospiti contattati e 40 interviste. Le sole telefonate di contatto per le interviste ammontano a un audio di 48 ore. Spiega Cristiana Mastronicola, che ha coordinato con Scarano l’inchiesta:«Sapevamo che infiltrarci non sarebbe bastato. Quello che avremmo potuto filmare era solo un frammento di ciò che andava raccontato. Lo sapevamo grazie al materiale di una prima inchiesta giudiziaria a carico dei vertici della comunità da cui era emerso il clima di manipolazione e di violenza psicologica in cui vivevano gli ospiti. Avevamo a disposizione migliaia di pagine da studiare». 

Ecco perché Shalom ha sì una parte undercover molto rilevante che però non è tutta l’inchiesta. «Serviva raccogliere le voci di persone che non erano più lì. E dopo esserci state non credevano più a niente, alla giustizia, alla verità e a volte neanche a se stesse». È questo lavoro più dei filmati sotto copertura che ha fatto emergere le violenze fisiche e psicologiche, la somministrazione di psicofarmaci senza controllo medico, le vessazioni continue e le punizioni umilianti. Alcuni ex ospiti hanno raccontato di essere stati costretti a lavorare forzatamente, anche di notte. Gli ospiti venivano anche isolati dalle famiglie e sottoposti a un controllo mentale costante, che impediva loro di denunciare gli abusi subiti. «Riuscire a infiltrare la giornalista come volontaria è stato soltanto un pezzo del lavoro. E in molti momenti abbiamo anche avuto il timore che la copertura stesse per saltare, per essere scoperta. Sentivamo che ci stavano portando su un vicolo cieco, che non si fidavano fino in fondo e non ci facevano vedere tutto». 

Shalom non ha ottenuto i risultati a cui puntava: la comunità è ancora attiva, la suora che l’ha diretta continua a esserne responsabile. «La frustrazione fa parte del gioco, ma non è facile gestirla se hai lavorato per tanti mesi per un obiettivo mancato».


La creazione di un alias

Una “copertura” che si protrae per molti mesi richiede freddezza, controllo di sé. Il nome della giornalista di Gioventù meloniana è venuto fuori dopo la pubblicazione dell’inchiesta. E oggi Selena Frasson spiega che «è stato un bene più che un rischio: avere attenzione mediatica mi ha protetta da ritorsioni». La creazione di un alias, nel suo caso, ha richiesto tempo e studio, «perché bisognava presentarsi con un profilo credibile ma anche interessante, in modo tale da riuscire ad essere coinvolta nel più breve tempo possibile all’interno del movimento anche nelle iniziative più riservate». I profili social sono stati sospesi, e sono stati nascosti i dati su amici e famiglia. Sono state adottate precauzioni anche sui tragitti di spostamento, per esempio verso casa, che in realtà non era quella vera anzi ne era ben distante. «È chiaro, nulla di paragonabile a un programma di protezione come quello che può mettere in campo una procura – spiega Scarano -. Ma anche quei programmi a volte falliscono. Quindi sì, abbiamo dei sistemi per proteggerci durante un’inchiesta ma non evitano tutti i rischi». E non preservano dallo stress che un lavoro come questo durato un anno comporta, «un tema di cui si parla poco» conclude Frasson.

Conseguenze legali

I rischi a valle di un’inchiesta undecover, per esempio quelli legali, sono meno elevati di quelli che si corrono in corso d’opera. Spiega Scarano: «Rispetto ad altri approcci, un lavoro sotto copertura ha il vantaggio di mostrare esattamente quello che succede: sta lì davanti alla telecamera. Questo rende molto meno attaccabili i contenuti. Nel caso di Shalom abbiamo avuto una diffida a pubblicare ma nessuna querela. Su Lobby nera (ndr inchiesta su una rete di estrema destra in Lombardia con agganci con il mondo dell’imprenditoria) non abbiamo avuto nemmeno una diffida. Per Gioventù Meloniana abbiamo avuto un’istruttoria aperta dal Garante della Privacy. Chi ha fatto ricorso ha sostenuto che le persone erano state riprese in contesti privati e non di pubblico interesse. La nostra posizione era evidentemente diversa: erano sedi e occasioni di un movimento politico, dunque pubblico per definizione. Abbiamo semplicemente esercitato il diritto di cronaca». 

Sui limiti del diritto di cronaca Scarano ha una posizione senza sfumature. Che ha esposto anche pubblicamente a fine settembre quando per Gioventù meloniana ha ritirato il premio del DIG, il Festival sul Documentario di Inchiesta Giornalistica che si tiene ogni anno a Modena. «Un giornalista che persegue l’obiettivo di raccontare un fatto rilevante per l’interesse pubblico può anche prendere in considerazione di rivelare un segreto di Stato e commettere un reato. Aggiungo: può e deve. Chi querela o fa azioni risarcitorie è assolutamente legittimato a farlo, ma il perseguimento dell’interesse pubblico è la stella polare di questo lavoro. In Italia la querela è considerata sempre una macchia. Ma se il giornalista ha agito in modo accurato e ha privilegiato l’interesse pubblico una querela non scredita e non toglie nulla alla bontà del suo lavoro».

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