Studiare alla Columbia Journalism School, oggi

di Christian Caurla

questo articolo è parte di Tabloid Project, il magazine multimediale dell’OgL sull’informazione

Da un certo punto di vista, non c’è momento peggiore per studiare alla Columbia Journalism School.
Le barricate bloccano ormai ogni ingresso, la polizia circonda gli edifici del campus e studenti scompaiono per settimane arrestati dalla polizia. Da marzo, almeno quattro studenti internazionali sono finiti nel mirino per aver partecipato a proteste pro-Palestina. Mahmoud Khalil, studente palestinese, è stato arrestato nel suo dormitorio e dichiarato espellibile in base a una legge della Guerra Fredda. Poi è toccato a Yunseo Chung, studentessa sudcoreana negli Stati Uniti fin dall’infanzia, alla studentessa palestinese Leqaa Kordia e all’indiana Ranjani Srinivasan. Il 14 aprile è sparito anche Mohsen K. Mahdawi. Nessuno di questi è accusato di commettere crimini. Tutte queste azioni sono state condotte nel nome della libertà di espressione, la stessa libertà che il giornalismo dovrebbe difendere.

Proteste davanti alla sede della Columbia University a New York (@Ansa)

In America come nel resto del mondo, il mondo del giornalismo è in crisi. Il Washington Post ha appena licenziato circa 100 dipendenti. HuffPost ha annunciato che un quarto della sua redazione verrà tagliato. Non molto tempo fa, BuzzFeed News ha chiuso definitivamente e Vice Media ha dichiarato bancarotta. Il Los Angeles time ha annunciato il licenzamento del 20% della sua newsroom. Reuters, un altro pilastro del giornalismo globale, ha recentemente annunciato un taglio di 100 posti di lavoro — oltre a riduzioni precedenti — mentre fa sempre più affidamento sull’intelligenza artificiale per la produzione dei suoi feed di agenzia.
Questi non sono eventi isolati, ma la fotografia di un’industria colpita da cambiamenti profondi e sotto enorme pressione. La lettura dei giornali è in calo, l’attenzione del pubblico si sposta verso influencer e creatori indipendenti, mentre l’intelligenza artificiale continua a rimpiazzare posti di lavoro.
Ma non si tratta solo della perdita di impieghi. L’insicurezza professionale si intreccia con un clima politico sempre più ostile verso i giornalisti. I miliardari acquistano testate importanti, sollevando dubbi sull’indipendenza editoriale. Allo stesso tempo, il presidente Donald Trump ha attaccato apertamente le istituzioni giornalistiche, proponendo tagli ai finanziamenti per PBS e NPR. Anche la Columbia University, dove ha sede la scuola di giornalismo più prestigiosa al mondo, è finita anche nel mirino di Trump che ha annunciato il blocco di 400 milioni di fondi federali e richiesto e ottenuto limiti alla libertà accademica.

Giornalisti durante una conferenza stampa di Karolin Leavitt, portavoce della Casa Bianca (@Ansa)

Le ragioni di una scelta

La posizione della Columbia simboleggia il bivio in cui si trova il settore. Resta l’apice della formazione giornalistica, la meta più ambita per gli aspiranti reporter. Ma i suoi laureati si affacciano su un settore che non si sta solo riducendo: sta crollando. Investire oggi in un’istruzione alla Columbia sembra quasi assurdo, come acquistare una carrozza all’alba dell’era automobilistica. Come si posiziona quindi questa istituzione prestigiosa, e il giornalismo stesso, di fronte a questi cambiamenti epocali? E come può giustificare le sue rette a sei cifre in un contesto economico e politico così incerto?
La questione mi riguarda personalmente. Ho iniziato la mia carriera giornalistica in Italia prima di trasferirmi in Germania, dove ho lavorato come freelance, soprattutto per Deutsche Welle, il servizio internazionale tedesco, finché nel 2023 decisi di candidarmi alla Columbia Journalism School. Sebbene la mia scelta sia arrivata dopo quasi sette anni nel giornalismo, non è una posizione insolita.

La Columbia offre due tipi di programmi: un Master’s of Science per giornalisti agli inizi della carriera e un Master’s of Arts per chi ha almeno cinque anni di esperienza. Entrambi i programmi hanno specializzazioni diverse: data journalism, investigazioni e documentari per il master di primo livello; specializzazioni tematiche (politica, economia, cultura e scienza) per il master avanzato. Entrambi i percorsi costano circa 80.000 dollari per due semestri, a cui bisogna aggiungere il costo della vita, a New York. In realtà, la maggior parte degli studenti non paga l’intero importo. Molti ricevono almeno 30.000 dollari di sconto, e altri ancora ottengono borse di studio ben più consistenti, specialmente gli studenti internazionali.
Considerando tutti questi fattori, la Columbia potrebbe non essere l’istituzione più costosa—anzi, potrebbe essere una delle più accessibili negli Stati Uniti. Ho studiato giornalismo anche a Berlino e Milano, e paradossalmente, questa scuola della Ivy League nel cuore di Manhattan, almeno per me, è stata la meno costosa. Ciò nonostante, molti studenti si laureeranno con debiti considerevoli.

Quindi, ne vale la pena?

Prima risposta

Dipende da ciò che si cerca. La Columbia non è un’agenzia di collocamento, è un’università. La sua missione principale è insegnare giornalismo, non garantire un lavoro. Ma i due aspetti sono inseparabili ed è strano formarsi per una professione che potrebbe non esistere più. La Columbia è consapevole di questa realtà, motivo per cui enfatizza le statistiche sull’occupazione post-laurea (tra il settanta e l’ottanta per cento nel primo anno). Ma per analizzare la questione, consideriamo separatamente l’aspetto formativo e quello occupazionale.

Ciò che rende unica la Columbia è la possibilità di apprendere dai migliori nel settore. Ho perso il conto di quanti giornalisti vincitori del Premio Pulitzer ci hanno insegnato. Attualmente, seguo un corso con Azmat Khan, vincitrice del Pulitzer 2022. La sua co-docente, Haley Willis, ha vinto quattro Pulitzer di squadra. Sto anche seguendo un corso con Walt Bogdanich, vincitore di tre Pulitzer, insieme a Steve Eder, che ne ha vinti due. Nove premi Pulitzer in due classi.
E non si tratta solo delle lezioni. Anche gli eventi sono fondamentali. A febbraio, la Columbia ha ospitato “The Future of Nonfiction Video“, dove ho avuto l’opportunità di parlare con giornalisti di Vox, coloro che hanno praticamente inventato il giornalismo video moderno. Molti di loro hanno ora lanciato canali indipendenti e stanno iniziando a raggiungere la sostenibilità economica—il ché ci riporta al tema dei posti di lavoro.

Dal punto di vista professionale, il programma può sembrare datato. Molti studenti trascorrono mesi a perfezionare l’arte di scrivere articoli da 2.500 parole per riviste in via di estinzione. Questo non vale per tutti, ad esempio i data journalist hanno prospettive lavorative più solide. Ma è innegabile che molte delle posizioni per cui la Columbia prepara gli studenti non esisteranno più al momento della laurea, almeno non per tutti. Molti laureati dovranno iniziare con stage in piccole città americane, svolgendo ruoli più simili a quelli di aggregatori di notizie che a veri e propri giornalisti investigativi. Questi impieghi rientrano nelle statistiche di collocamento della Columbia, ma difficilmente sono lavori da sogno, almeno inizialmente. Non passa settimana in cui ex studenti vengano a visitarci dal The Guardian, New York Times e in praticamente tutte le principali testate, anche se ci sono arrivati molti anni dopo essersi laureati.

Da un lato, questo potrebbe essere il peggior momento per entrare alla Columbia Journalism School. Solo due anni fa, era al centro degli eventi mondiali, con gli accampamenti pro-palestinesi sgomberati con la forza dalla polizia. Il campus è ancora chiuso ai non studenti e le barricate sono ancora lì. Molti posti di lavoro, invece, non ci sono più. Ma, d’altra parte, potrebbe essere anche il momento migliore. Per chi è veramente determinato a diventare un giornalista, questo è un luogo sicuro per sperimentare un tipo di giornalismo che sarebbe difficile praticare altrove, quello che richiede mesi di sviluppo e che spinge l’ambizione a livelli che la maggior parte delle redazioni non possono permettersi.

La Columbia ti offre questa opportunità, ma chiede molto in cambio. Forse troppo. La pressione è enorme e, nonostante sia uno dei periodi più stimolanti della loro vita, gli studenti sono in crisi perenne. Molti passano notti insonni, altri ricorrono alla dog therapy o all’agopuntura, finanziati dalla Columbia, per resistere. Il paradosso non sfugge a nessuno: formarsi per un futuro che sembra svanire sotto i nostri occhi, lavorando incessantemente per qualcosa che potrebbe non esistere. 

Quindi, ne vale la pena? 

Seconda risposta

Fino a un mese fa, la mia risposta sarebbe stata sì. Se vuoi davvero fare il giornalista, probabilmente non c’è posto migliore. A patto di essere disposto a sopportare una pressione estrema e accettare problemi che, in fin dei conti, potrebbero non essere neanche dell’istituzione, ma semplicemente della realtà del settore. Oggi, però, non ne sono più così sicuro. L’università si è piegata alla volontà di un’amministrazione che ha adottato tattiche degne di regimi dittatoriali. Nei suoi comunicati ha utilizzato la stessa narrazione della lotta contro l’antisemitismo, strumentalizzata per colpire un altro gruppo di studenti che, come ammesso dalla stessa amministrazione, non sono accusati di alcun crimine. La Scuola di Giornalismo rappresenta l’eccezione più evidente alla Columbia: ha organizzato eventi rilevanti con ospiti autorevoli che analizzano la tragedia del popolo palestinese, e ha rilasciato dichiarazioni critiche nei confronti di alcune decisioni dell’amministrazione. 

Si può scegliere di chiudere un occhio e venire qui solo per l’istruzione, ma la capacità di voltarsi dall’altra parte non è una qualità che appartiene alla maggior parte dei grandi giornalisti.

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