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Partiamo da là dove, tra via Della Vetra de’ Cittadini e Corso di Porta Ticinese, la casa del povero barbiere Giangiacomo Mora non c’è più.
Partiamo da Alessandro Manzoni, quando ne “La colonna infame” ci racconta l’incredibile processo con molteplici torture, intentato sulla credenza degli untori della peste, ma in realtà no, intentato senza ragionevolezza alcuna e solo ad affermare l’arbitrio totale di un potere senza controllo. Così Manzoni ci parlava dello “sdegno e il ribrezzo… contro passioni che non si posson bandire, come falsi sistemi, né abolire, come cattive istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne’ loro effetti, e detestarle”. E’ cronaca giudiziaria del 1630, e già da allora, cercando fra Manzoni e Pietro Verri, scopriamo che la tortura, pur utilizzata secondo regole date dal diritto romano – regole travalicate da quei giudici da colonna infame – già cadeva in un cono d’ombra, tra imbarazzi e sottintesi, formalmente non rivendicata.
Il divieto di tortura e di trattamenti disumani degradanti è oramai incluso in una norma di “ius cogens”, il cosiddetto diritto cogente, dunque inderogabile. E pur essendo, tortura e trattamenti inumani, categorie da differenziare, sono entrambe aggregabili concettualmente in una finalità: l’annullamento dell’individuo da parte di un potere più o meno legittimo.
Parrebbe piuttosto ovvio: l’uso della tortura, per ottenere informazioni (tortura giudiziaria), o il maltrattamento per umiliare chi è sottoposto al controllo della forza pubblica che si pone in posizione di supremazia e abuso, è illegittimo oltre che indegno. Eppure finora tali comportamenti, difficilmente inquadrabili in generiche fattispecie di reato, non rientravano in una categoria semplice, descritta e sanzionata dal codice penale: non avevano il nome crudo e concreto di un reato. Tortura. Ci sono voluti 33 anni da quando le indicazioni contenute nella Convenzione di New York del 1984, ratificate da noi nel 1988 (ma già presenti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo -1948 – e nell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), venissero recepite concretamente anche dall’Italia. E ci sono voluti anche quattro anni di lavori di commissione e verifiche parlamentari perché una legge, fortemente modificata rispetto a chi l’aveva elaborata (il senatore Luigi Manconi, Pd, si rifiutò di votare il nuovo testo) avesse sorte più fortunata di altre (la riforma penitenziaria e l’introduzione della giustizia riparativa rimaste al palo o sovvertite dal cambio di governo e in forza delle prudenti incertezze del precedente governo che le aveva promosse e le avrebbe potute licenziare). Così il 14 luglio 2017, la legge numero 110, parla di tortura e la sanziona, introducendo due articoli nel codice penale, il 613 bis e il 613 ter: dai 4 ai 10 anni di carcere, che salgono a un massimo di 12 se a commettere il fatto è un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei suoi doveri. Legge che, dovuto passo avanti, pur lascia spazio a dubbi interpretativi, là dove si richiede, per la commissione del reato, che questo sia commesso “mediante più condotte” – reiterato, dunque.
Come altri, anche questo sforzo normativo ci è imposto dalle procedure di infrazione avviate dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo per le condotte tenute dalle forze dell’ordine durante il G8 di Genova del 2001, qualificate come tortura, per cui siamo stati invitati a dotarci “di strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura o altri maltrattamenti impedendo loro di beneficiare di misure in
contraddizione con la giurisprudenza della Corte”.
Se mai ci fossimo ritenuti un’isola felice rispetto a quanto accadeva in America o in Iraq negli anni del post 11 Settembre (Guantanamo, Abu Ghraib), la scuola Diaz e la caserma Bolzaneto ci hanno riportato a una realtà spesso ipocritamente sottostimata. Nel male, si potrà dire che il G8 ha acceso l’attenzione su uso e abuso della forza nell’ambito di arresti, fermi, trattenimenti anche legali. Solo accennando a vecchi casi, mai abbastanza sondati, di “tortura giudiziaria” su brigatisti rossi (coinvolti nel sequestro del generale americano Dozier), o più recentemente al caso dell’imam radicale Abu Omar, vittima di extraordinary rendition per mano della Cia e col favore dell’allora Sismi, risultano oltraggiose e inspiegabili, e manco nella logica di malintese ragioni di sicurezza nazionale o contrasto al terrorismo, le morti atroci, per pestaggio e successive indifferenza e incuria, di giovani o uomini sottoposti al controllo delle forze dell’ordine, quali Cucchi, Aldrovandi, Uva, Gugliotta. A quelle morti persino prive di “ragion di Stato”, se non la prepotenza dello Stato – morti occultate, manipolate, inquinate da connivenze indicibili -, danno dovuta risonanza familiari sbigottiti e un’informazione sana, vigile, generalmente non incline a chiudere gli occhi. In questo senso, i 613 bis e ter, pur con mancanze e prudenze, sono il passo dovuto “a render meno potenti e meno funesti” quei “falsi sistemi” e “cattive istituzioni”, quell’“arbitrio” che, direbbe Manzoni, “non si deve intendere libero e assoluto, ma legato dal diritto e dall’equità”.
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