Venerdì 19 aprile, l’OgL organizza un corso di una giornata dedicato al Data Journalism. Otto ore di lavoro con una classe di 20 persone. L’obiettivo per ciascun partecipante è costruire una inchiesta su un tema scelto da ciascuno attraverso il reperimento, l’analisi e la visualizzazione di un tableau di dati relativi all’argomento scelto. Questo articolo racconta una metodologia di formazione in tema di Data Journalism – in sincrono e non – che costituisce un modello di corso ti tipo laboratoriale verso cui saranno sempre più indirizzati alcuni dei corsi dell’OgL in futuro
di Andrea Nelson Mauro
La trasformazione digitale ha cambiato tantissimo il giornalismo negli ultimi vent’anni, circa. Dai computer sempre più performanti per modificare l’impaginazione, all’arrivo di internet come luogo in cui trovare informazioni, condividere contenuti e interagire con il pubblico, passando per le fotocamere digitali in mano a redattori e freelance che hanno moltiplicato esponenzialmente la possibilità di catturare frammenti di realtà da raccontare sui giornali.
Il data journalism è un tipo di giornalismo che si incastra in questo filone. Non è però né uno strumento, né un insieme di strumenti: è un concetto che presuppone la capacità di utilizzare un nuovo metodo di lavoro nel racconto della realtà, una questione non solo tecnica ma anche culturale.
È questo il fulcro del corso in Data Journalism che come Dataninja stiamo portando avanti all’interno dell’European Data Journalism Network e che ispira il corso che si tiene a Milano il 19 aprile. Questo Network, ideato dall’Osservatorio Balcani-Caucaso e finanziato dalla Commissione Europea, raggruppa circa 30 testate da tutta Europa, che in questi anni hanno creato collaborativamente delle inchieste pan-europee. Ultima in ordine di tempo “Femicides in Europe”, frutto della collaborazione tra 18 redazioni diverse.
All’interno di questo Network, con Dataninja abbiamo organizzato un corso pan-europeo sul Data Journalism, con alcune caratteristiche precise:
- È in inglese, che è la lingua principale quando si avviano collaborazioni internazionali
- È asincrono, che vuol dire che una parte della didattica è gestita in totale autonomia da chi partecipa al corso
- È collaborativo, nel senso che i/le partecipanti sono chiamate/i a collaborare tra di loro in precisi task ed ambienti online.
- È project-based, perché oltre alla teoria, c’è tantissima pratica e tutti/e i/le partecipanti devono creare alla fine del corso una presentazione/proposta di inchiesta giornalistica (che noi chiamiamo Data Pitch).
La metodologia del Data Journalism al centro del corso ha due principali elementi costituenti:
- Il primo è l’applicazione di una versione “giornalistica” del metodo scientifico come processo di lavoro. Partire da un’ipotesi, trovare i dati, analizzarli, confrontarli, raccontarli e – fondamentale – renderli accessibili al lettore che può verificarli.
- Il secondo è l’acquisizione progressiva di competenze tecnologiche: soprattutto comprendere sempre di più quali sono le potenzialità dei dati e delle tecnologie a nostra disposizione.
Un nostro vecchio amico, Aaron Pilhofer, il giornalista che ha creato il team di Data Journalism del New York Times, diceva sempre: per un giornalista non è fondamentale saper sviluppare software, ma è cruciale che sappia cosa si può fare con le tecnologie.
Operativamente, il corso è stato aperto al pubblico gratuitamente (in quanto finanziato dalla Commissione Europea) e ha ricevuto oltre 800 candidature di potenziali partecipanti da tutta Europa e oltre. Dura tra i 4 e i 6 mesi, durante i quali i/le partecipanti vengono instradati verso il percorso didattico e supportati da un team di tutor e istruttori/trici.
Rispetto al giornalismo diciamo così “tradizionale”, nel Data Journalism i passaggi sono abbastanza schematici:
- Il primo è trovare i dati: dove e come cercare, sfruttando le risorse online e facendo richieste di accesso generalizzato (previste per legge in Italia e all’estero, con il nome di FOIA – Freedom on Information Act)
- Il secondo è pulire i dati: significa organizzarli bene, come rassettare la casa. Sono formattati allo stesso modo? Sono trascritti in modo corretto? I dati devono essere organizzati in maniera tale da poter essere usati al meglio con un foglio di calcolo come Excel.
- Il terzo è analizzare i dati: si tratta di applicare tecniche come l’ordinamento, i filtri, i raggruppamenti (tabelle pivot) per estrarre quelli che in gergo tecnico chiamiamo “Insights”, e cioè le principali informazioni che i dati ci danno.
- Il quarto è visualizzare i dati: Alberto Cairo, uno degli esperti più quotati al mondo (autore di diversi libri che hanno fatto scuole) dice che «visualizzare i dati può aiutare a far venire fuori notizie che, prima, dentro i dati erano nascoste». Creare un grafico rende i dati più comprensibili.
- Infine raccontare i dati: è quello che oggi viene definito “storytelling” e altro non è che il racconto giornalistico, la cronaca o ricostruzione dei fatti, organizzati in una storia.
Non sono tanti i data journalist in Italia e nel mondo e non sono tanti, tra i giornalisti, ad avere le competenze citate sopra, né quelli in grado di applicarli in modo sistemico. Ma queste competenze sono cruciali nel racconto della contemporaneità che è fatta largamente di dati, numeri, informazioni codificate e digitali per le quali non è più sufficiente la formazione umanistica tradizionale.
Se assistiamo a un dibattito in TV, ci capita spesso di sentire il politico del Partito Blu che cita un dato, e il politico del Partito Bianco che cita un altro dato che dice esattamente l’opposto. Chi ha ragione e chi sbaglia? Chi dice la verità e chi una fake news? È altamente probabile che entrambi stiano dicendo la verità, e che la differenza stia nel fatto che i dati che citano raccontano prospettive diverse dello stesso fenomeno, tengono conto o meno di alcuni fattori, hanno metodologie di raccolta diverse. Potrebbero avere ragione entrambi, ma le competenze di data journalism e questo approccio “giornalistico” al metodo scientifico sono gli unici strumenti in grado di farci capire quale delle due letture opposte sia più attendibile.
C’è un salto culturale insomma che dobbiamo fare come sistema informativo. Aumentare e arricchire l’offerta didattica per diventare giornalisti con competenze più attinenti a quanto detto fin qui, che attraversino tutte le discipline e non come materia “stand alone” da inserire in un corso di giornalismo.
Finora in Italia è stato fatto molto poco, mentre nel Regno Unito esistono da anni i cosiddetti Master in Data Journalism, come per esempio quello della Birmingham University.
È una strada, questa, per diffondere sempre di più tra i giornalisti e le giornaliste alcune competenze necessarie per fronteggiare le sfide di oggi, e che permette al giornalismo e all’informazione di riacquistare alcune delle sue caratteristiche cruciali: affidabilità, attendibilità, verificabilità, trasparenza, perché tutti i contenuti giornalistici creati con la metodologia del Data Journalism possono essere smontati e rimontati da chi ne fruisce, e ciò li rende più attendibili e permette alle testate di riacquistare ciò che giorno dopo giorno sembra sfumare sempre di più: la fiducia delle lettrici e dei lettori.