di Riccardo Sorrentino
Intervento alla cerimonia del Premio Vergani, Milano 16 novembre 2024
Sono molto contento di essere qui e ringrazio gli organizzatori per l’invito. Il premio Vergani è uno degli appuntamenti milanesi che riesce a riunire un grande numero di giornalisti. Abbiamo bisogno di momenti come questi in cui si discute della nostra professione, sempre più in difficoltà, e si premiano gli esempi migliori di giornalismo. Non faccio fatica a credere che la scelta dei premiati sia stata molto difficile.
Ho sempre pensato che non ci siano momenti storici che non siano momenti di crisi. Questa volta, però, il giornalismo – soprattutto in Italia – ha veramente di fronte problemi complessi, interdipendenti. Viviamo, secondo me, una situazione che richiede un salto, non un’evoluzione graduale, né singole innovazioni che si diffondano lentamente nel mercato dell’informazione. I nostri giovani – e tanti di essi, a causa di una legge antica, sono fuori dall’Ordine – stanno già reinventando il giornalismo, con nuove forme, nuove organizzazioni redazionali, nuovi contenuti. Noi, a Milano, cerchiamo di sostenerli.
Quello che occorre fare è completare il passaggio dal “mestiere” alla “professione”. Non è questione, qui, di requisiti formali, burocratici del nostro lavoro, quelli che permettono la partecipazione all’Ordine, che pure andranno aggiornati. L’obiettivo è realizzare quel che il giornalismo è davvero, la funzione a cui risponde nelle moderne società.
Il nostro lavoro, lo ripeto spesso, è una vera professione. Anche sul piano economico. I medici, gli avvocati – ma anche gli insegnanti – non offrono quel che i consumatori domandano. Non siamo noi pazienti a decidere quali medicine, quali analisi, quali interventi dobbiamo “domandare”, è il medico che ce lo indica. Analogamente fanno gli avvocati, gli insegnanti e, in ampia misura, anche noi che offriamo, in ciascun settore, le informazioni che non si possono non sapere. Sul mercato siamo l’offerta, ma è un’offerta speciale perché definisce in buona parte la domanda. Per questo motivo l’uso delle metriche sul traffico di internet per inseguire domanda, in sé stesse preziose, è un problema. Il clickbait distrugge la nostra professione anche sul piano economico.
In un mondo in cui la notizia – che resta comunque la base della nostra professione – tende sempre più a diventare una commodity, occorre un lavoro di scavo, di ricerca e di analisi dei fatti sempre più profondo. Non a caso l’innovazione, nel nostro mondo, passa attraverso le inchieste di lungo periodo e il futuro sembra orientarsi verso una divisione delle redazioni più legata all’orizzonte temporale del lavoro, e meno ai canali di diffusione della notizia. Anzi, il nostro continuo interrogarci sui diversi media, sui format, sulle tecnologie ci distrae un po’ da quel che permette davvero di far incontrare la domanda e l’offerta sui nostri mercati: i contenuti.
Non può che passare attraverso i contenuti la ricostruzione della credibilità del giornalismo. Mi perdoni il compianto, e affascinante Marshall McLuhan ma… il mezzo non è il messaggio. Parlo volutamente di credibilità e non di fiducia, che non sono sinonimi: la fiducia appartiene a gruppi piccoli, prevedibili, non certo a società complesse, diversificate, dove la realtà è e non può non essere incerta. Il nostro lavoro – lo ripetiamo molte volte – è la mediazione tra la realtà e il grande pubblico. Il giornalismo non può essere quindi una mediazione della complessità, come dice qualcuno, non può puntare a semplificare quello che non è semplificabile. Il mondo non è un villaggio, tantomeno un villaggio globale.
Il compito del giornalismo di riferire la realtà dei fatti impone, se dobbiamo diventare professionisti fino in fondo, competenze solide che diano anche indipendenza di giudizio. Non si può descrivere la realtà di un processo penale se non facciamo riferimento al complesso di norme che lo reggono; non possiamo descrivere la realtà del denaro se non conosciamo i “fatti istituzionali” che vi sono dietro. Il nostro lavoro diventa quindi anche un lavoro di “traduzione culturale” tra mondi diversi. Un grande medico, un grande architetto, uomo o donna, può non sapere nulla di un processo o dell’economia, proprio come un uomo o una donna che svolgano lavori meno complessi. Noi dobbiamo tradurre per loro. Abbiamo da poco iniziato a offrire sul nostro sito una serie di toolbox, una biblioteca digitale, per aiutare i colleghi a spiegare le realtà più complesse che abbiamo di fronte. Non è un caso se siamo partiti dal processo penale.
L’Ordine dei giornalisti è molto cambiato nel tempo. Si occupa sempre meno di deontologia, oggi affidata – giustamente – ai consigli di disciplina; mentre diventa cruciale il ruolo della formazione, che non può essere offerta senza un’idea forte di giornalismo alla sua base. La nuova Fondazione Walter Tobagi per la cultura giornalistica, intitolata a un collega profondo e di grande impegno civile, vuole essere uno strumento importante per coltivare una visione solida della nostra professione.
Ho molto parlato di economia, di domanda e di offerta, ho usato un linguaggio economico che non è consueto nel nostro mondo. È inevitabile in questa fase: il mercato italiano dell’informazione è da sempre molto distorto e gli imprenditori, oggi, non sono in grado di elaborare una risposta alle difficoltà del settore, di mettere a punto un modello di business sostenibile. L’Ordine non ha rapporti con gli editori – e forse è un campo, questo, da esplorare – perché è l’organismo di autoorganizzazione dei giornalisti.
Noi giornalisti abbiamo però un compito importante da svolgere, dal valore anche economico: fare del giornalismo nuovo. Nuovo nei contenuti, nelle forme, nell’organizzazione del lavoro. Non semplicemente un “giornalismo di qualità”, espressione che ormai ha perso significato, ma un giornalismo di precisione, rigoroso nella ricerca delle informazioni, nell’approfondimento dei fatti, in ogni singola parola che usa. Ben sapendo che i tempi di lavoro sono e resteranno rapidissimi.
Non possiamo dimenticare infine che la nostra professione è in prima linea. Ovunque nel mondo, e anche in Italia, viene compressa la dimensione liberale delle nostre liberaldemocrazie, e la libertà di informazione è la prima a essere colpita. Sono tre anni che ci impegniamo, per esempio, per contrastare le norme sulla presunzione d’innocenza e qualche breccia, nel mondo degli avvocati, siamo riusciti a farla. Non escludo qualche novità a breve, almeno per quanto riguarda Milano.
Non si tratta però soltanto di questo. Ovunque, nel mondo, nascono piccoli “Ordini dei giornalisti”, i press councils; e nascono quando la libertà di informazione viene messa in discussione. È successo dopo la caduta del muro di Berlino, ma anche – più recentemente – in Australia e in Gran Bretagna. In una fase così difficile, anche l’Ordine deve insistere di più sul tema della libertà; e se la responsabilità ovviamente resta in capo ai suoi organi istituzionali, la sua forza dipende dal mutuo appoggio dei suoi iscritti. C’è un lavoro intenso che ci chiama e che, nella diversità dei ruoli, deve essere svolto insieme.