Quanto fa bene al giornalista specializzarsi?


Avere competenze “verticali” è oggi un asset o un problema? Il valore aggiunto di un giornalista sta nei temi di cui è esperto o nel metodo con cui tratta i temi di cui esperto non è? Rispondono alcuni direttori di testata  

di Silvia Lazzaris 

Il beat è la specialità del giornalista, la sua tana del Bianconiglio in un mondo complesso dove per emergere è fondamentale diventare sempre più esperti di frammenti sempre più ristretti di mondo. La specializzazione giornalistica in inglese si chiama beat perché quando è nato questo concetto, poco più di un secolo fa, significava battere strade specifiche per trovare storie. L’idea è di Charles E. Chapin, direttore dell’Evening World del gruppo Pulitzer a New York, che negli anni Venti alloggiava al Majestic Hotel e in camera sua aveva un oggetto al tempo ancora piuttosto raro e fantascientifico: il telefono. Un giorno Chapin si era assopito nella sua stanza e proprio da quel telefono gli era capitato di ricevere la notizia che William McKinley, l’allora Presidente degli Stati Uniti, era stato assassinato. In quel momento, a suo dire, Chapin aveva avuto un’epifania su come l’uso del telefono avrebbe rivoluzionato la sua redazione. Avrebbe tracciato uno schema a scacchiera sulla mappa di New York, avrebbe assegnato un reporter a ogni area delimitata sulla mappa, dando a ciascuno la responsabilità di battere quei tre o quattro isolati alla ricerca di storie e notizie e riempiendo le loro tasche di spiccioli perché potessero telefonare in redazione. Sulla scrivania degli scrittori più bravi invece avrebbe messo un telefono per creare un canale diretto tra le persone che meglio sapevano stare sul campo e quelle che meglio sapevano rendere una storia in un linguaggio che avrebbe attirato il pubblico. Non solo l’idea funzionò molto bene per l’Evening World, ma nel tempo tutti gli altri giornali la fecero propria. C’è un prima e un dopo Chapin. Prima, un business immaturo, di parte, dipendente dai partiti politici. Dopo, un settore con un suo modello di sostenibilità economica, perché i giornalisti scrivevano di notizie che le persone volevano effettivamente leggere e quindi comprare. In un secolo è già cambiato tutto e avere un beat non significa più frequentare le stesse strade – più che altro gli stessi angoli della rete. Il beat non è un luogo designato, è competenza.

Ma quando penso al beat giornalistico penso anche a un altro significato della parola, in inglese si dice I’m beat per dire che si è esausti, e yes I’m beat di parlare sempre delle stesse cose. Sono laureata in giornalismo scientifico, per anni ho parlato dell’impatto di scienza e tecnologia sulle nostre società prima di iniziare, quasi per caso, a dedicarmi ad alcuni approfondimenti e inchieste sul sistema alimentare. Quando alcuni lavori sul cibo hanno iniziato a intercettare un pubblico più ampio, ho iniziato a essere identificata con quel tema, sia all’interno che all’esterno della redazione. Sia chiaro: amo parlare di sistema alimentare, credo sia una lente straordinaria per raccontare gli ingranaggi del mondo. Ma ho dovuto faticare per uscire da quel perimetro, ampliando il mio raggio di copertura prima al clima e all’ambiente, poi alla sanità. Ho dovuto insistere e continuo a insistere per far capire che la mia competenza non è la materia, ma il metodo: non sono un’esperta di cibo né un’esperta di clima. Certo di monocolture ho scritto parecchio e so che un ecosistema malfunzionante si ammala facilmente. Ecco io temo che con la specializzazione mi si ammali il pensiero, e credo che la malattia più pericolosa sia il pregiudizio. Ma questo è il mio punto di vista personale, la mia opinione, e come sempre l’opinionismo può essere banale e fuori fuoco. 

Quindi ho pensato fosse interessante capire come vedono la specializzazione i direttori delle principali testate italiane. Quanto organizzano il proprio lavoro intorno al beat reporting? Quali criteri usano per assegnare beat specifici? Quanta mobilità c’è sui temi all’interno delle redazioni? Quali misure adottano per garantire una freschezza di visione? Al beat ci pensano? Li preoccupa mai? Ho scritto a quasi tutti. Sono riuscita a intervistare Andrea Malaguti, direttore della Stampa, Daniele Bellasio, vice-direttore del Sole 24 Ore, Luca Sofri, direttore del Post, e Francesco Zaffarano, direttore di Will Media – non una testata registrata, ma credo valesse la pena inserirla in questo ragionamento.

Bellasio dice che al Sole i giornalisti hanno specializzazioni molto verticali, e che in ogni caso secondo lui «almeno una specializzazione ci vuole, un ambito in cui esercitare la propria creatività, capacità di analisi e di studio». La Stampa di Malaguti ha «un’impostazione abbastanza tradizionale e preferisce ancora avere persone focalizzate soprattutto su determinate aree». Anche per Zaffarano, che dirige un nuovo media, «servono competenze specifiche per rispondere a una continua e incrementale complessità dei temi di cui parliamo». Sofri è d’accordo sul fatto che certe competenze si formino inevitabilmente, e che «naturalmente non si arriva mai a occuparsi di cose su cui la propria incompetenza rischia di creare guai», ma che al Post si è nati con la versatilità implicita. «La cosa su cui abbiamo investito molto è la consapevolezza dell’ignoranza, e di conseguenza una straordinaria attenzione e prudenza».

La specializzazione porta una conoscenza profonda e una rubrica fitta di contatti utili. Però a volte serve tutto il contrario: freschezza e voci nuove fuori dall’eco. Bellasio fa un esempio chiaro: «Se sei un giornalista specializzato nella giudiziaria magari puoi finire per essere un po’ troppo vicino alla Procura della Repubblica». Secondo lui però non si tratta del rischio più grosso, che invece identifica nella «perdita di contatto con un linguaggio comprensibile preferito dal lettore». Per la stessa ragione Sofri dice «un po’ per scherzo, un po’ minacciosamente» che nessuno dovrebbe mai scrivere cose di cui è appassionato perché il bias è molto rischioso. «Forse me lo racconto come alibi della mia ignoranza, ma se domani vado a Reykjavîk e non ci non sono mai stato in vita mia posso mettermi nei panni di quelli che mi stanno leggendo più di chi ci è già stato cinquanta volte». Malaguti dice che per ovviare a questi problemi sente affinità con la pratica anglosassone per cui «le persone vengono tenute due o tre anni a occuparsi di una cosa e poi cambiano perché sennò c’è una forma di atrofizzazione che non è utile». Zaffarano non è d’accordo: «Se tu mi dici che ti sei stufata di occuparti di cibo – ho lavorato molto per Will Media e  Zaffarano mi conosce molto bene, ndr – va bene, ma non mi sembra utile l’idea che io ogni tanto debba fare il cambio della guardia perché così tutti sanno occuparsi di tutto».

Una cosa comune a cui tengono sia il Post che Will Media è l’idea che non esista una proprietà degli argomenti – se non verso l’esterno, almeno all’interno della redazione. «Non ci sono aree esclusivamente presidiate da qualcuno», dice Sofri. Zaffarano parla del “check”, il momento in cui nel pomeriggio la redazione quasi al completo guarda i video e i post pronti per essere pubblicati. «Non è che se tu scrivi di esteri, allora quello che pubblichiamo di economia non ti interessa. Tutti sono incoraggiati a dire la loro, intervenire, partecipare e migliorare il contenuto. Spessissimo ci sono contenuti che vengono rimandati indietro e rielaborati».

Nessuno dei miei intervistati è convinto che in Italia ci sia una formazione adeguata a sostenere specializzazioni per come ne stiamo parlando. Bellasio dice che «potrebbero nascere nuove professionalità legate ai vari strumenti della multimedialità, ma l’errore che rischiamo di fare ancora è di essere troppo legati al concetto tradizionale di testo». Secondo Zaffarano ci sono vuoti formativi: «i percorsi di master non sono sufficienti a rispondere alle esigenze di oggi, sia in termini di tematiche che di competenze tecniche di formato». Sofri ripete più volte di inventarsi altro. «La cosa che trovo deludente è che il nostro sistema produce ragazzi neolaureati che si propongono sulla base di schemi, competenze e attitudini terribilmente novecenteschi: mi piace molto scrivere, vorrei molto scrivere. Ma è la cosa meno competitiva e meno interessante, in questo momento, che tu sappia scrivere». Per Malaguti la contemporaneità ha bisogno «da un lato di velocità, dall’altro di flessibilità: la nostra attenzione è breve perché siamo dentro la cosiddetta grande accelerazione», per cui quello che ci sembra decisivo oggi probabilmente tra un paio d’anni non lo sarà per niente. «Questo presuppone la necessità di creare professionisti flessibili che abbiano soprattutto la capacità di ragionare sui cambiamenti e non tanto sullo specifico». In generale ho notato che sono tutti molto meno preoccupati di me sul rischio del pensiero di branco e della perdita di prospettiva che può portare una specializzazione longeva. In effetti è possibile che alle costrizioni del beat pensino molto più i reporter che i direttori. Ad ogni modo mi sembra sia emerso che regole troppo ferree non ce ne sono, e questo mi piace. Domani propongo un pezzo sulla violenza di genere.

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