Il giornalismo è ancora un affare tra maschi

 Molestie e battute sessiste, ma anche gender pay gap, carriere più faticose, diritto alla maternità negato. Molti gli ostacoli che devono affrontare le donne giornaliste: alcuni dati e quelche nuovo strumento
di Alice Facchini

Sara, 44 anni, per un periodo ha collaborato con un noto quotidiano nazionale. Era contenta del lavoro, fino a che non si è trovata in una situazione molto scomoda: il caporedattore le affidava degli articoli, e poi voleva che si incontrassero a pranzo o a cena per discuterne. «Faceva apprezzamenti fisici e mi parlava di sesso: diceva che era andato a letto con la stagista 25enne, quando lei si è sottratta al gioco è stata mandata via – racconta–. Con me si presentava come il povero uomo maturo rifiutato dalla ragazza: “Berlusconi aveva tutte queste donne attorno, pensi che noi non vorremmo? Anche a me piace la f..a”».

Non era la prima volta che Sara, giornalista freelance, riceveva avances in un contesto di lavoro. Aveva vissuto situazioni simili anche in giornali più piccoli, e conosceva le dinamiche. Così ha deciso di allontanarsi e ha smesso di andare a mangiare con lui. Il risultato è stato che i suoi articoli venivano tagliati, e così i compensi. Alla fine Sara ha scelto di interrompere la collaborazione: avrebbe anche voluto denunciare l’accaduto, ma la pressione che aveva subìto era molto difficile da dimostrare.

Il problema
Molestie, battute sessiste, commenti inappropriati, ma anche gender pay gap, carriere più faticose, svilimento delle capacità personali, diritto alla maternità negato: sono ancora molti gli ostacoli che devono affrontare le donne giornaliste. Già nel 1995, con la IV Conferenza mondiale sulle donne di Pechino, l’Onu ha incluso i media fra i dodici settori decisivi per il miglioramento della condizione femminile. Eppure le discriminazioni legate al genere sono ancora radicate in un contesto come quello dei media. L’Italia non fa eccezione, e infatti il Media Pluralism Monitor 2023 ha assegnato al nostro paese il massimo livello di rischio per quanto riguarda la parità di genere nei media.

«Considerando tutti i livelli dirigenziali, le donne rappresentano ancora meno di un terzo dei giornalisti in posizioni decisionali», si legge nel documento conclusivo della prima fase di consultazione pubblica di Agcom sul sistema dell’informazione. Sono ancora soprattutto gli uomini a ricoprire ruoli di leadership e a prendere decisioni, e anche a livello di stipendio le donne giornaliste guadagnano meno dei loro colleghi uomini. Questo vale sia per le dipendenti che per le libere professioniste, come emerge dai dati 2021 dell’ente previdenziale dei giornalisti Inpgi: il gender pay gap – ossia il divario di genere nella retribuzione – è del 15% tra le partite Iva, percentuale che cresce al 18% tra chi ha un contratto. La retribuzione media dei giornalisti contrattualizzati è di 64.770 euro l’anno per gli uomini contro i 53.078 euro per le donne.

Il problema non riguarda solo le condizioni di lavoro. Nel mondo del giornalismo esistono ancora temi considerati “femminili”, come la moda, la cucina o il costume, e altri ritenuti più “maschili”, come l’economia, la cronaca giudiziaria e lo sport. La questione emerge chiaramente nelle testimonianze raccolte dall’indagine Come ti sentirealizzata da IrpiMedia per approfondire lo stato della salute mentale dei giornalisti freelance in Italia. Luisa: «Mi è capitato di non essere presa in considerazione per alcuni lavori solamente in base al genere. Lavoro nell’ambito calcistico, che è un mondo fatto da uomini e per uomini: questo è un grandissimo ostacolo per le donne nel settore». Giulia: «Una volta mi sono sentita dire: “Non mi faccio intervistare da lei perché non è competente, vorrei un collega uomo”». Monica: «I miei superiori si permettevano di insinuare che durante le trasferte avessi rapporti sessuali con i collaboratori». I nomi delle giornaliste sono di fantasia, come gli altri che appaiono in questo articolo, per tutelare il loro anonimato.

A volte le discriminazioni sfociano nelle molestie e nella violenza: ad alcune donne vengono fatte avances e ricatti a sfondo sessuale per ottenere un posto o per fare carriera. Secondo un’indagine condotta dalla Fnsi su un campione di più di mille giornaliste, l’85% dichiara di aver subito molestie nel corso della propria vita lavorativa. Tra le forme più diffuse ci sono le battute e gli sguardi che provocano disagio, denunciati da più dell’80% delle intervistate. Il 44% dichiara di avere ricevuto insulti e offese in quanto donna e il 42% di essersi sentita svalutata nel lavoro in quanto donna. Il 19% afferma di essere stata sottoposta a richieste di prestazioni sessuali mentre cercava lavoro e il 14% per progredire nella carriera.


Gli impatti 

Le molestie e le discriminazioni hanno anche un impatto sulla salute mentale delle giornaliste. I dati raccolti dall’indagine Come ti senti sono preoccupanti: più di una giornalista su due ritiene che le discriminazioni legate al genere siano un rischio per il proprio benessere psicologico. Anche perché la maggior parte delle donne quando subisce molestie non riesce a reagire: sta in silenzio, sorride, fa finta di non aver capito. «Spesso le molestie vengono normalizzate dalle donne stesse, che non le riconoscono e dunque non le segnalano», commenta la psicoterapeuta Annalisa Valsasina, direttrice scientifica di Fondazione Libellula, che ha lanciato uno sportello di ascolto e orientamento alle lavoratrici su episodi di discriminazione, molestia o violenza. «Siamo ancora abituate al commento allusivo o alla battutina: sono situazioni accettate socialmente, tanto che quando rispondi o reagisci ti viene spesso affibbiata l’etichetta della rompiscatole o dell’esagerata». 

Quando poi manca il sostegno di colleghi e colleghe, ci si trova ad affrontare queste situazioni in solitudine: molte giornaliste freelance non hanno nessuno con cui confrontarsi sull’accaduto o su come reagire. «L’isolamento peggiora il senso di inadeguatezza, perché manca un punto di vista esterno – continua Valsasina -. La donna finisce per chiedersi: “Ma sono io che ho provocato? Avrò dato qualche segnale?”». Il mondo del giornalismo non ha ancora avuto il suo #metoo, e oggi molte giornaliste fanno fatica a raccontare quello che avviene nelle stanze chiuse delle redazioni. Dopo la pubblicazione dell’indagine di Fnsi sulle molestie sul lavoro è nato all’interno del sindacato uno sportello ad hoc

Successivamente, è stato anche fondato il collettivo Espulse. La stampa è dei maschi, che si rivolge alle giornaliste e fotogiornaliste assunte e alle freelance nei diversi tipi di media e negli uffici stampa, con l’obiettivo di indagare il problema delle molestie e degli abusi di potere. Attraverso un questionario anonimo vengono raccolte testimonianze: «Nel mondo del giornalismo questo tema è ancora un tabù – scrivono dal collettivo –. Eppure molestie, ricatti, abusi e discriminazioni sessuali non soltanto rappresentano un danno contro le singole giornaliste, ma anche uno strumento utilizzato dagli uomini per mantenere lo status quo nelle redazioni e tenere le donne – soprattutto quelle che non si adeguano al sistema dominante – lontane dai posti di comando».

All’origine

Il problema è in primis culturale: tra le idee ancora diffuse c’è quella per cui non si può dare la colpa della molestia all’uomo, perché per sua natura è un predatore con un istinto sessuale impetuoso e irreprimibile. Nel libro Stupro. Storia della violenza sessuale dal 1860 ad oggi Joanna Bourke ricostruisce le origini di questa concezione, e racconta come, al contrario, le donne sono spesso rappresentate come le vere responsabili della violenza che subiscono, perché «in fondo gli piace», perché il loro “no” in verità sottende un “sì”, perché sanno di avere «a loro completa disposizione la reputazione di qualunque uomo abbiano occasione di incontrare». 

Un altro tipo di pericoli si incontrano quando si sceglie di lavorare sul campo, dove i rischi da affrontare sono diversi per gli uomini e per le donne. Le giornaliste devono far fronte alla possibilità di trovarsi di fronte ad atteggiamenti insistenti, aggressioni, fino ad arrivare alla minaccia dello stupro, che è una delle paure ataviche peggiori per le donne, utilizzato da centinaia di anni come arma di guerra e come strumento di pulizia etnica. «Dopo aver consegnato un articolo da fare sul campo dopo la mezzanotte, sono rimasta sola in strada in piena notte subendo catcalling – racconta Sandra –. Non avevo alcun modo di tornare a casa, i mezzi pubblici erano chiusi. Ho avuto paura». Soprattutto di notte, nelle donne scatta un meccanismo di allarme primordiale: nel buio è più difficile individuare eventuali pericoli e chiedere aiuto.


Carichi familiari 

Ma le donne devono fare anche i conti con un altro genere di difficoltà, legata al carico di lavoro di cura che spesso le investe di più rispetto agli uomini. Nel nostro Paese, l’organizzazione della casa e della famiglia è ancora a carico per lo più delle donne. Le redazioni non sempre tengono in considerazione queste differenze, e raramente accettano che una donna abbia una minor disponibilità mentale e di tempo. In alcuni casi c’è una stigmatizzazione di scelte personali come la decisione di avere un figlio, considerando la maternità come incompatibile con una professione dove è richiesto di stare costantemente “sulla notizia” e avere sempre la valigia pronta. 

È quello che è accaduto a Paola, che lavora per la Rai come falsa partita Iva, e che ha scoperto di essere incinta quando era appena iniziato il lockdown per il Covid-19. «Quando la mia ginecologa me l’ha detto il mio primo pensiero è stato: “E adesso come faccio con il lavoro?”». Pochi giorni dopo, la sua caporedattrice le ha chiesto di realizzare un servizio sul campo. Lei non se la sentiva e ha provato a inventarsi una scusa, ma la caporedattrice insisteva. Così ha deciso di dire la verità. La risposta è stata un pugno nello stomaco: «Avevo capito che sei incinta, questo è un problema». 

Da quel momento, per Paola è cominciato un incubo. «Il produttore mi ha detto: “Tu non sei una dipendente. Se non sei produttiva, sei inadempiente rispetto al contratto, e quindi non vieni più pagata”». Pur avendo il certificato di gravidanza a rischio, quindi, Paola ha dovuto continuare a lavorare e a girare i servizi sul campo. In pieno lockdown, si muoveva tra le strade deserte, a incontrare persone e a fare interviste. Per proteggersi, non usciva mai senza la doppia mascherina e i guanti in lattice. I suoi colleghi sapevano cosa stava succedendo, ma nessuno l’ha sostenuta: «Altro che solidarietà in redazione». 

Sostegni

Negli anni sono nati diversi gruppi che per supportare le giornaliste donne. L’associazione GiULia, acronimo di GIornaliste Unite LIbere Autonome, dal 2011 si batte perché le giornaliste abbiano pari opportunità nei luoghi di lavoro, con l’obiettivo di modificare lo squilibrio informativo sulle donne anche utilizzando un linguaggio privo di stereotipi e declinato al femminile. Dal 2016 GiULia giornaliste organizza il Forum of Mediterranean Women Journalists, e nel 2017 ha contribuito alla redazione del Manifesto di Venezia, per il rispetto e la parità di genere nell’informazione. Nel 2023 è nato anche l’Osservatorio indipendente sui media contro la violenza nel linguaggio sulle donne, all’interno dell’Università La Sapienza. 

«Ci siamo messe insieme perché all’interno dei giornali le donne non hanno voce», conclude Silvia Garambois, giornalista e presidente di GiULiA. Dopo una miriade di corsi di formazione e di incontri, le cose stanno cambiando, ma ancora nei nostri giornali si trovano tante espressioni sessiste: ecco perché è necessario continuare a farci sentire».

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