Acos Alliance, organizzazione composta da 150 testate e associazioni, affianca i freelance che lavorano in contesti a rischio: workshop, corsi di formazione, procedure di risk assesment, colloqui individuali, advocacy su governi e grandi giornali. Per salvaguardare chi lavora per una redazione senza esserne parte
di Alice Facchini

Questo articolo è parte di Tabloid Project, il magazine multimediale dell’OgL
«La cultura della sicurezza deve permeare la professione giornalistica, la quotidianità delle redazioni, il modo in cui facciamo il nostro lavoro e ci relazioniamo con i colleghi. È una maratona, un cambiamento lento e sistemico che non si raggiunge da un giorno all’altro. Lentamente, la consapevolezza sta cambiando». Elisabet Cantenys è la direttrice esecutiva di ACOS Alliance, organizzazione composta da oltre 150 testate, associazioni giornalistiche e ong per la libertà di stampa in tutto il mondo. Una rete nata nel 2014 con un obiettivo comune: creare una nuova cultura della sicurezza nel mondo del giornalismo. «La nostra attenzione si concentra in particolare sui giornalisti freelance e locali, i più vulnerabili in una professione sempre più rischiosa».
Al giorno d’oggi, un numero crescente di giornalisti e giornaliste sono vittime di ostilità, minacce e violenza. A questi attacchi si aggiungono le rappresaglie legali, come le querele temerarie: un ambiente intimidatorio che mina alle fondamenta la libertà di stampa, un pilastro essenziale delle nostre democrazie. Come proteggersi? ACOS mette a disposizione strumenti pratici per tutelare il lavoro delle redazioni e dei giornalisti: organizza formazioni gratuite, offre un’assicurazione per giornalisti freelance e locali, e mappa le risorse presenti in tutto il mondo. Negli ultimi tre anni l’alleanza ha realizzato 44 iniziative sulla sicurezza, di cui hanno beneficiato quasi 1.600 giornalisti e redattori in tutto il mondo. «Siamo piccoli, ma abbiamo una rete grande», spiega Cantenys. «L’approccio collaborativo è fondamentale. Lavoriamo sia con i freelance sia con i direttori e i caporedattori, che prendono decisioni che impattano su tanti loro colleghi».
La nascita
La storia di ACOS Alliance ha inizio nell’estate del 2014, quando i giornalisti freelance statunitensi James Foley e Steven Sotloff vengono rapiti dallo Stato Islamico in Siria. Entrambi vengono portati nel deserto, e davanti a una telecamera decapitati: i video fanno il giro del mondo. Pochi mesi dopo, un gruppo di direttori di testate giornalistiche si riunisce a New York e a Chicago per discutere di come rispondere a queste uccisioni, e di come promuovere la sicurezza dei giornalisti freelance, molti dei quali lavorano senza una rete di protezione. Nei mesi successivi, un gruppo di rappresentanti del Frontline Freelance Register, della Reuters, dell’Associated Press, del Dart Center, del GroundTruth Project e dell’Overseas Press Club redige un documento che poi sarà alla base della ACOS Alliance: i nove Principi di sicurezza dei giornalisti freelance.

Poco dopo, con l’ulteriore sostegno di organizzazioni come il Committee to Protect Journalists, la James W. Foley Legacy Foundation, Reporters without Borders e il Rory Peck Trust, viene creata la ACOS Alliance, una rete che ha lo scopo di sostenere l’implementazione dei Principi e radicare una cultura della sicurezza nelle pratiche di lavoro quotidiane dei giornalisti.
Il documento, tradotto in sei lingue, si sviluppa attraverso nove punti per i freelance e nove per le redazioni, definendo una serie di standard di sicurezza da adottare da un lato e dall’altro. Il primo è la sicurezza come prerequisito del giornalismo svolto in modo professionale. Tra i doveri dei giornalisti indipendenti c’è il fatto di essere preparati a ogni eventualità quando ci si reca in contesti potenzialmente pericolosi, essere coperti da un’assicurazione, avere un contatto di sicurezza e un equipaggiamento adeguato. Le redazioni, d’altra parte, hanno la responsabilità morale di supportare i collaboratori impegnati in contesti pericolosi. È loro dovere fornire al freelance un trattamento adeguato – ed equiparato ai giornalisti dipendenti – in tema di formazione sulla sicurezza, digital security, primo soccorso e attrezzature. Il pagamento deve avvenire, almeno in parte, in forma preventiva, per dare la possibilità al giornalista di coprire anticipatamente alcune spese. In generale, è necessario che entrambe le parti misurino il valore di una storia e lo comparino con il rischio che si corre per realizzarla.
I Principi hanno posto le basi di una cultura della sicurezza, e sono stati sottoscritti da 160 organizzazioni firmatarie in tutto il mondo. «Firmare questo documento significa prendere pubblicamente posizione su questo tema» afferma Cantenys. «Tra le testate che hanno scelto di aderire, alcune sono già molto attente, altre invece stanno ancora facendo un percorso per migliorare, ma hanno la volontà di cambiare. E questo è il primo passo».
Le azioni
Per dare corso ai nove Principi, ACOS Alliance organizza diverse iniziative di formazione, per i freelance ma anche per le redazioni. Tra queste ci sono i webinar online, i workshop in presenza, e svariate risorse disponibili gratuitamente sul sito. È stata inoltre creata la piattaforma Editor Safety Hub, che si indirizza ai direttori e ai caporedattori e mette a disposizione percorsi di formazione gratuiti ed esercitazioni pratiche. A questi si aggiungono le Safety clinics, colloqui individuali di un’ora con un esperto di sicurezza, per discutere di un caso o di un tema specifico.
Sul sito vengono anche messe a disposizione due assicurazioni di viaggio per i giornalisti locali o freelance, che beneficiano di uno sconto. «Siamo un’alleanza e puntiamo molto sulla rete e sul trasferimento di conoscenze» spiega Cantenys. «Ogni anno il Safety Mapping Project fa una mappatura delle iniziative che sono state organizzate, per individuare le nuove tendenze e le possibili opportunità. Poi c’è il nostro meeting di coordinamento annuale, una due giorni in cui discutiamo delle soluzioni che abbiamo implementato e delle strategie per il futuro».
Un’altra azione fondamentale è quella di advocacy sui governi e sugli editori, per sensibilizzare sull’importanza della cultura della sicurezza nel giornalismo. «Troppo spesso la produzione della storia è separata dalla questione della sicurezza, come se fossero due sfere diverse. Non è così: ogni scelta che facciamo, a livello giornalistico, ha un impatto sulla nostra sicurezza, dalla location alla selezione delle persone da intervistare».
Una consapevolezza che cresce
Oggi si sta andando sempre più verso un approccio olistico alla sicurezza, che intersechi tutte le sfere, da quella fisica a quella digitale, legale e psicologica. «Ognuno di questi aspetti è interconnesso con l’altro e non si può considerare a sé stante», continua Cantenys. «Una metafora che uso spesso è quella di un tessuto fatto di tanti fili, intrecciati l’uno con l’altro: se togli un filo il tessuto si indebolisce ma resta unito, se ne togli un altro rischia di sfaldarsi, se ne togli un altro ancora si disfa del tutto».
Il dibattito pubblico sulla sicurezza si è molto evoluto e, anche nel settore dei media, molte redazioni si sono progressivamente dotate di protocolli per la tutela dei lavoratori. «Lo spartiacque è stata la pandemia: prima la sicurezza era relegata a un settore di nicchia, che toccava solo i corrispondenti di guerra. Con l’arrivo del Covid, improvvisamente, tutti hanno dovuto preoccuparsi di questo aspetto, e darsi delle regole. È stato un seme, che con il tempo ha iniziato a germogliare. Nessuno oggi può ignorare la questione: quando accettiamo un incarico, in automatico ci troviamo a chiederci se riusciremo a svolgerlo in una modalità sicura».
Uno dei capisaldi della sicurezza, nel giornalismo e non solo, è il risk assesment, una procedura per individuare eventuali rischi e definire le azioni per mitigarli. «Fino a quindici anni fa ne parlavano solo gli esperti di sicurezza, oggi invece il concetto di risk assesment è diventato di dominio comune» afferma Cantenys. «Ancora oggi, però, si fa fatica a ideare dei risk assesment efficaci, e implementarli nella routine del giornalista. È la sfida del futuro. Ogni giornalista e ogni redazione devono adattare queste procedure in base al tipo di lavoro che fanno».
Anche per quanto riguarda la sicurezza digitale c’è molta più consapevolezza: la maggior parte dei giornalisti ormai conoscono i rischi legati alle molestie e alla violenza online, che può minare la libertà di stampa e la salute psicologica, oltre che generare paura per la propria incolumità fisica. «La violenza digitale è un problema enorme» dice Cantenys. «Il lato positivo è che adesso ci sono molte risorse e informazioni online: guide, manuali, corsi, piattaforme, strumenti… Le soluzioni esistono e sono accessibili, oggi più che mai».
Un’altra minaccia per giornaliste e giornalisti è quella delle querele. Ad essere esposti sono soprattutto i freelance, che non sempre hanno alle spalle una redazione che li tuteli dal punto di vista legale. «Purtroppo ancora oggi non ci sono assicurazioni che coprano anche l’aspetto legale della professione giornalistica» racconta Cantenys. «È un tema ancora irrisolto, che ha un grande impatto sulle scelte che fanno i reporter, e a volte conduce all’autocensura».
Infine, ultima ma non ultima, c’è la questione psicologica, una sfera che interseca tutte le altre. «Anche in questo caso la consapevolezza è maggiore, e oggi si parla molto di burnout, di trauma, di cura» spiega Cantenys. «Resta però ancora tanto da fare per costruire le nostre strategie di resilienza. La psicoterapia può essere una strada, ma non è l’unica. Creare un clima di ascolto in redazione, o avviare gruppi di auto-mutuo aiuto, è già un passo molto importante».
Si tratta di un cambiamento che – sottolinea Cantenys più volte – non ha bisogno di un grande investimento economico. «Safety is not a metter of money» ripete, la sicurezza non è una questione di soldi. «Anche le testate più piccole e meno finanziate possono comunque mettere in piedi iniziative molto valide» conclude. «La cosa più importante è darsi dei protocolli, e i protocolli costano poco. È il punto di vista che fa davvero la differenza: cambiare punto di vista non costa nulla».