Se risulti deontologicamente scorretto l’uso del termine «passionale» riferito a episodi di violenza di genere
Decisione del Consiglio di Disciplina Territoriale della Lombardia, del. marzo 2023, proc. 39/22, Pres. Benati, Rel. Della Sala
L’art. 5 bis del Testo Unico dei doveri del giornalista e, segnatamente, la sua lett. a) nella parte in cui si invita il giornalista ad evitare stereotipi di genere e/o la sua lett. b) nella parte in cui si invita a non usare espressioni che ‘sminuiscano la gravità del fatto commesso’ è norma che non può essere interpretata in base alla sensibilità soggettiva dell’esponente o del giudicante ma, ai fini di poterne considerare una sufficiente tipizzazione e, quindi, un adeguato rispetto dei canoni di legalità, deve trovare un qualche riscontro di carattere oggettivo o rappresentare una lesione sufficientemente netta da essere colta dall’interprete come espressione di un comune sentire generale.
In via esemplificativa e in tema di violenza di genere, si può affermare che la lesione è individuabile allorquando ci si riferisca ad un comportamento ‘imprudente’ o ‘provocatorio’ da parte della vittima o ci si spinga a ‘giustificare’ l’atto aggressivo in termini di inopportuna empatia con l’aggressore.
Il riferirsi ad un movente di tipo ‘passionale’ non riveste in nessun modo queste caratteristiche o, in ogni caso, non integra in alcun modo un atteggiamento che il lettore medio assocerebbe ad un atteggiamento empatico del giornalista o ad una giustificazione della condotta posta in essere dall’aggressore.
La locuzione ‘per motivi passionali’, oltre che di ordinario e non controverso utilizzo da parte della gente comune, è anche (e in termini tecnico-giuridici) una locuzione accettabile in caso di delitti di questo tipo. Basti pensare che il codice penale ne contempla (peraltro con accezione non positiva) in modo esplicito la sussistenza (v. art. 90 c.p.).