Voci dalla redazione di Frontliner, testata che segue il conflitto con cronache dal fronte: il lavoro dei reporter, la fatica quotidiana per reggere lo stress e andare avanti
di Elena Esposto

Questo articolo è parte di Tabloid Project, il magazine multimediale dell’OgL
«Sul nostro sito non si trovano consigli sul miglior look per quest’estate, ma di sicuro sappiamo qual è l’abbigliamento più adatto per andare al fronte». Sdrammatizza Yelyzaveta Kovtun, ma poi torna subito seria. Sulla situazione dei giornalisti e delle giornaliste in Ucraina, lei lo sa bene, c’è poco da stare allegri.

Kovtun è la direttrice di Frontliner, una testata online che segue da vicino lo svolgimento della guerra russo-ucraina. «Non è facile occuparsi tutti i giorni solo di notizie di guerra. È un peso psicologico da non sottovalutare, soprattutto per i giornalisti più giovani» racconta. «Nella redazione di Frontliner la maggior parte delle persone hanno meno di 35 anni. Sono diventate adulte in un momento storico dove non c’è nessuna certezza per il futuro. Prima c’è stata la pandemia, e poi l’invasione. Non hanno mai sperimentato una quotidianità normale e scrivere tutti i giorni di guerra di certo non aiuta».
La guerra dentro
Quando pensiamo ai professionisti dell’informazione che lavorano in situazioni di conflitto armato la minaccia peggiore ci sembra quella alla vita. Proteggere la propria incolumità fisica naturalmente è una preoccupazione costante, soprattutto per chi raccoglie le notizie al fronte, e la sicurezza non viene mai sottovalutata. Ma se si chiede ai giornalisti e alle giornaliste ucraine qual è la difficoltà maggiore del loro lavoro la risposta è: il carico psicologico che la guerra impone a chi deve raccontarla.
«Il tema della salute mentale di chi si occupa di giornalismo è cruciale» afferma Oksana Brovko, cofondatrice e coordinatrice dell’International insurance fund for journalists e CEO dell’Association of Independent Regional Press Publishers of Ukraine. «C’è un enorme bisogno di supporto psicologico per operatori e operatrici dell’informazione».
Sono moltissimi i casi di depressione tra chi si relaziona quotidianamente con le vittime della violenza e i soldati esausti al fronte. «Molti mezzi d’informazione scelgono anche di seguire e raccontare i funerali dei civili. Serve per sottolineare l’enorme prezzo che stiamo pagando per questa guerra» spiega Brovko «ma per i giornalisti è molto gravoso».
Frequenti anche gli episodi di burnout. «Molti colleghi hanno perso le loro famiglie, hanno visto le loro case distrutte o loro stessi sono rimasti feriti» racconta Kovtun. «Dall’inizio della guerra a Frontliner non è stato facile trovare persone da inserire nella redazione. Molti dei reporter che non sono stati uccisi hanno scelto di abbandonare la professione perché non riuscivano a sostenerne il peso emotivo».
Una situazione ancora più gravosa per le donne che, spiega Brovko, con molti uomini al fronte, ricoprono la maggior parte degli incarichi nel mondo dell’informazione e si ritrovano sulle spalle anche tutto il peso delle responsabilità familiari. «Ogni giorno le professioniste dell’informazione ucraine si trovano ad affrontare decisioni difficili. Per esempio, cosa fare se ti trovi nel mezzo di un bombardamento? Da un lato devi pensare a raccogliere e diffondere la notizia, dall’altro pensi solo ad andare a prendere i tuoi figli a scuola e correre in un rifugio».
«Il lavoro aiuta» continua. «Quando non ti senti al sicuro da nessuna parte, avere qualcosa da fare ti dà il senso di poter tenere le cose sotto controllo. Ma spesso il risultato è che alla fine sei ancora più stanca».
Senza il diritto di stancarsi
«Chi lavora nel giornalismo in Ucraina oggi non ha mai la possibilità di prendersi una pausa» dice Kovtun. La pressione e lo sfinimento sono tali che, quando ne ha la possibilità, Frontliner manda i suoi reporter all’estero per qualche settimana. A riposare.
Stancarsi e demoralizzarsi non sono un’opzione.
«Da quando è iniziata la guerra su scala totale (la guerra non è iniziata nel 2022, ma nel 2014 con l’attacco russo al Donbass, n.d.r) in Ucraina sono spariti circa 100 mezzi di informazione» racconta Brovko. «Una perdita gravissima perché in questa situazione le informazioni sono fondamentali e possono salvare delle vite». Alle difficoltà di trovare personale e di lavorare in condizioni di violenza e incertezza si aggiungono le difficoltà economiche. Molti giornali cartacei, specialmente quelli locali, hanno perso i loro abbonati a causa delle evacuazioni delle città. Questo ha spinto direttrici e caporedattrici a “inseguire” i loro abbonati.
«Fanno decine di chilometri in macchina, nonostante il pericolo delle bombe, per consegnare i giornali». Un segno tangibile di quanto i giornalisti e le giornaliste ucraine credano nell’importanza dell’informazione. «Nonostante tutte le difficoltà che affrontiamo ogni giorno, dall’inizio della guerra la qualità e la professionalità del nostro giornalismo è aumentata moltissimo» afferma Brovko. E con gli occhi lucidi di commozione aggiunge: «La verità, la dignità e la responsabilità sono diventati i pilastri del giornalismo ucraino».
Il punto, infatti, non è fare informazione per aumentare il pubblico o per diventare famosi, ma raccontare le storie con empatia e rispetto. «Scrivere di guerra richiede attenzione non solo per la propria incolumità, fisica e psicologica, ma anche per quella delle persone di cui si dà notizia» afferma Andriy Dubchak, fondatore e caporedattore di Frontliner. «Spesso ci si trova a dover decidere se pubblicare o meno una notizia o una foto e ogni caso è a sé, non ci sono regole fisse. Dobbiamo sempre chiederci quali obiettivi vogliamo raggiungere. Stiamo documentando la realtà o solo cavalcando un hype momentaneo?».
Per Brovko è anche importante tener conto della sensibilità del pubblico. «Non va mai dimenticato che certi contenuti potrebbero traumatizzare chi legge o ascolta. Bisogna sempre pensare all’impatto che una notizia può avere». Impatti non solo etici e psicologici, ma anche militari perché se l’informazione è potere lo è in modo particolare durante i conflitti.
Tutti i giornalisti che lavorano in Ucraina sono tenuti a rispettare le regole e le restrizioni previste dalla legge marziale che vige nel Paese. «Ogni informazione va sempre verificata prima della pubblicazione con il proprio direttore o caporedattore» spiega Dubchak «e se necessario anche con i vertici militari». C’è poi il rischio della manipolazione delle notizie da parte del nemico. «Capita che le mie foto vengano fatte circolare sui canali russi con altre descrizioni, per sostenere la loro propaganda» commenta Dubchak, rassegnato. Come dire: anche questo fa parte del gioco.
Lotta alla disinformazione
Siamo abituati ad un mondo dove le notizie vengono date in tempo reale e in cui la tempestività è fondamentale per non perdere il pubblico. In tempo di guerra però, più della velocità conta l’accuratezza. «Oggi in Ucraina circa il 90% della popolazione si informa su internet, e in particolare sui gruppi di Telegram, che forniscono notizie rapide ma spesso anche false» dice Brovko. «È molto difficile sapere chi c’è dietro questi canali. Alcuni sono vere e proprie fonti di disinformazione gestite dai russi. Ogni giorno veicolano centinaia di notizie ed è impossibile per i mezzi di informazione ufficiali verificarle tutte».
Una delle strategie per contrastare il fenomeno è cercare di far prendere coscienza alle persone del valore dell’informazione verificata e di qualità. «Cerchiamo di spiegare come valutare le fonti da cui arrivano le notizie e che l’accuratezza è più importante della rapidità». Un’altra battaglia; questa volta sul campo della cultura e della consapevolezza.
Impegno per il futuro
Solo a sentirlo raccontare l’impegno dei giornalisti e delle giornaliste ucraine appare improbo. Ma se c’è una cosa su cui non hanno dubbi è che farlo è necessario. E non solo per il presente. «Come Frontliner una delle nostre preoccupazioni è come mettere al sicuro il materiale che produciamo. Gli articoli, le foto, i video. Vorremmo che, quando la guerra sarà finita, possano diventare strumenti per far capire al mondo che cosa è davvero successo» dice Kovtun. «Ciò che ci spinge ad andare avanti» continua «è la speranza che il futuro sia possibile. Che l’Ucraina ci sarà ancora, che avremo ancora la nostra terra, la nostra cultura e la nostra lingua. In questo senso è fondamentale la collaborazione con testate e media stranieri che Frontliner persegue attivamente.
«La speranza che abbiamo è quella di sopravvivere» dice Brovko. «La cooperazione con gli altri Paesi ci fa sentire meno soli. Insieme siamo più forti». «Quello che vogliamo dire al mondo» conclude Kovtun «è che l’Ucraina esiste ancora, che è ancora in guerra e che ha bisogno di tutta l’attenzione possibile».