Ha lavorato al Guardian ed è stato uno dei più importanti giornalisti scientifici al mondo. Soprattutto ha scritto un piccolo “manuale” di giornalismo in 25 punti, che ancora oggi meritano una certa attenzione, per evitare errori
Di Linda Tropea

Questo articolo è parte di Tabloid Project, il magazine multimediale dell’OgL
Il giornalismo non è solo una questione di fatti, ma di come quei fatti vengono raccontati. Tim Radford lo sapeva bene, e per oltre trent’anni ha trasformato la scienza in storie vive e accessibili, parlando a milioni di lettori senza mai perdere rigore, chiarezza e umanità. Ma il suo lascito più prezioso – Radford è mortoqualche mese fa – non sta solo negli articoli che ha scritto nel periodo che ha trascorso al Guardian dal 1973 al 2005, bensì nelle sue 25 regole, un codice etico e pratico per chi voglia raccontare la realtà senza cadere nelle trappole della superficialità, dell’arroganza o della fretta.
Chi era
Timothy Robin Radford era nato il 7 ottobre 1940 a Rawene, una piccola città nella regione di Northland, in Nuova Zelanda. A soli 16 anni, iniziò a lavorare come reporter per The New Zealand Herald, uno dei principali quotidiani del paese. È stato l’inizio di una carriera che lo avrebbe portato a diventare una figura di spicco nel giornalismo scientifico internazionale.
Uno dei tratti distintivi del suo lavoro è stata la sua capacità di trasformare la scienza in narrazione, insistendo sul fatto che il primo dovere di un giornalista è scrivere per il lettore, non per impressionare colleghi o esperti. Ogni parola serve a chiarire, non a complicare, e il dubbio è un alleato, non un nemico. «L’errore classico del giornalismo è quello di sopravvalutare le conoscenze del lettore e di sottovalutare la sua intelligenza», ha spiegato in una delle sue regole. Inoltre, la ricerca della verità non può sacrificare l’accuratezza sull’altare della velocità, quindi «puntate alla verità. Se questa è sfuggente, e spesso lo è, puntate almeno alla correttezza, alla consapevolezza che c’è sempre un altro lato della storia».
Altri esempi del manuale Radford: il giornalismo è importante, ma non deve vantarsene: nulla manda più velocemente il lettore alla pagina dei cruciverba della pomposità di chi scrive (regola 4); un articolo può dire solo una cosa importante: si può aggiungere dell’altro ma senza allontanarsi troppo da quella cosa (numero 10); c’è sempre un attacco giusto per un articolo: se lo si indovina, il resto si scriverà più facilmente (numero 12); ok alle metafore, ma non più di una nella stessa frase (numero 17).
Seguendo gli insegnamenti di Radford, tanti errori si sarebbero potuti evitare. Errori dovuti alle tre principali malattie del giornalismo: fretta, superficialità, pigrizia. Alcuni esempi: la vittoria annunciata (e mai avvenuta) di Thomas Dewey contro Henry Truman alle presidenziali statunitensi del 1948; il necrologio prematuro di Bob Hope; la diffusione incontrollata delle false armi di distruzione di massa in Iraq.
Dewey non ha mai vinto su Truman
Il caso del titolo Dewey Defeats Truman, pubblicato dal Chicago Daily Tribune il 3 novembre 1948, è uno degli errori più celebri e imbarazzanti della storia del giornalismo. Nelle elezioni presidenziali statunitensi di quell’anno, il governatore di New York, Thomas E. Dewey, era considerato il favorito contro il presidente in carica Harry S. Truman. I sondaggi, i commentatori politici, e persino i primi risultati parziali sembravano indicare una vittoria schiacciante per Dewey. Ore dopo, con il conteggio dei voti completato, emerse che Truman aveva vinto con un margine chiaro: 303 voti elettorali contro i 189 di Dewey. I sondaggi dell’epoca erano metodologicamente imperfetti e sovrastimavano il supporto per Dewey, fermandosi settimane prima del voto e ignorando un tardivo spostamento dell’elettorato verso Truman. Inoltre, il Tribune doveva andare in stampa prima che i risultati finali fossero disponibili, e la redazione scelse di basarsi su proiezioni incomplete piuttosto che aspettare. Radford avrebbe insistito per aspettare i conteggi ufficiali o, se la deadline lo impediva, avrebbe scelto un titolo neutrale e un articolo che sottolineasse l’incertezza, per esempio: Elezioni presidenziali: Dewey in vantaggio, ma il conteggio continua.
Anche la BBC, a volte, sbaglia
Nel 2000, la BBC si rese protagonista di un errore giornalistico tanto sconcertante quanto evitabile: l’annuncio della morte del celebre comico e conduttore televisivo britannico-statunitense Bob Hope, che all’epoca aveva 97 anni ma era ancora vivo. L’incidente avvenne quando una bozza di necrologio, preparata in anticipo come prassi comune per personaggi pubblici anziani o malati, fu accidentalmente pubblicata sul sito web della BBC. Il titolo e il testo dichiaravano che Bob Hope era morto, scatenando un’ondata di confusione tra il pubblico e i media.
In realtà, Hope era in buona salute per la sua età e sarebbe vissuto altri tre anni, fino al 27 luglio 2003, quando morì realmente all’età di 100 anni. L’errore nacque da un problema tecnico e organizzativo. La bozza fu caricata per sbaglio sul sistema online della BBC, forse a causa di una svista di un redattore o di un malfunzionamento del software di gestione dei contenuti. Soprattutto, pur di pubblicare velocemente, non ci fu un’adeguata verifica prima della pubblicazione, permettendo che il contenuto errato raggiungesse il pubblico senza filtri.
Con il suo rigore, Radford avrebbe istituito un protocollo chiaro per i necrologi, e nessuno di questi sarebbe stato pubblicato senza almeno due fonti indipendenti a confermare la morte.
Le armi che l’Iraq non aveva

L’affermazione che l’Iraq, sotto Saddam Hussein, possedesse armi di distruzione di massa (tra cui l’antrace) è uno degli errori giornalistici più gravi e influenti degli ultimi decenni. Questa narrazione, diffusasi tra il 2002 e il 2003, fu amplificata da testate prestigiose come il New York Times, il Washington Post e la BBC, contribuendo a giustificare l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati nel marzo 2003. La convinzione che l’Iraq avesse armi chimiche, biologiche o nucleari attive si basava su informazioni fornite da fonti governative, spesso anonime, e su rapporti di intelligence che si rivelarono errati o manipolati.
I media si affidarono pesantemente a dichiarazioni di funzionari americani e britannici, come il Segretario di Stato Colin Powell, che presentò prove (poi screditate) all’ONU, e a rapporti come il September Dossier del governo britannico. Molte informazioni provenivano da fonti anonime di intelligence, come il famigerato informatore “Curveball”, un disertore iracheno le cui affermazioni su laboratori mobili di armi biologiche si rivelarono false.
Nel clima post-11 settembre, i media furono spinti a sostenere la narrativa di una minaccia imminente, senza approfondire o mettere in discussione le prove. Tim Radford avrebbe mandato reporter a intervistare ispettori ONU o esperti indipendenti, invece di affidarsi solo ai briefing di Washington e Londra. Avrebbe evitato titoli definitivi, optando per articoli che sottolineassero l’incertezza e invitassero al dibattito, e frenato la fretta. L’articolo avrebbe potuto intitolarsi: Armi in Iraq: affermazioni senza prove solide. Questo non avrebbe fermato la guerra, ma avrebbe dato al pubblico una prospettiva più critica, riducendo il ruolo dei media come megafono acritico.
Nell’era dell’informazione istantanea, il giornalismo è sempre più una corsa contro il tempo. Ma se c’è una lezione che gli errori del passato ci insegnano è che la fretta ha un prezzo. Radford lo sapeva bene: la verità non teme il ritardo, ma l’approssimazione. Il giornalismo, come la scienza, non è mai una sentenza definitiva: è una sfida all’incertezza.