La Commissione Giustizia del Senato ha approvato all’unanimità una norma che prevede il carcere fino a nove anni per il giornalista che diffama a mezzo stampa un politico o un magistrato. Chi invece scrive cose sbagliate su un cittadino viene condannato a sei anni di reclusione. Il Comitato esecutivo dell’Ordine dei Giornalisti, riunitosi a Roma, osserva che da un lato si sbandiera come già realizzata (ma di fatto insabbiata) l’abolizione del carcere per la diffamazione a mezzo stampa, dall’altro, con un blitz, si inaspriscono le pene determinando una disparità di trattamento tra politici e magistrati – che vengono considerati cittadini di serie A – e tutti gli altri.
Non può essere giustificabile la motivazione secondo cui il provvedimento nasce da una presunta tutela degli amministratori pubblici da intimidazioni, violenze o minacce finalizzate a bloccarne il mandato. Anzi, in realtà si accentua il tentativo di intimidire i giornalisti limitando il diritto dei cittadini ad essere informati. Sulla vicenda sono intervenuti anche il segretario generale e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Beppe Giulietti: “Non stupisce più di tanto – commentano il segretario generale Lorusso e il presidente Giulietti – che, nel tentativo di tutelare se stessa, la classe politica abbia espresso un voto “quasi unanime” sul testo, prevedendo, tra gli altri provvedimenti, un inasprimento delle pene a carico dei giornalisti che dovessero essere giudicati colpevoli di diffamazione ai danni di magistrati o politici. Quel che stupisce è che si tenti di affermare l’esistenza di una categoria di cittadini “più uguali” degli altri». E tutto questo mentre restano in sospeso questioni cruciali per il lavoro dei giornalisti. «Ancora più grave – spiegano i vertici della Fnsi – è che il Parlamento lavori ad inasprire le sanzioni a carico dei giornalisti, mentre nessuna risposta è stata ancora data al problema delle cosiddette “querele temerarie ” né alla richiesta di cancellare il carcere per i giornalisti, strumenti divenuti armi improprie utilizzate sempre più spesso contro i cronisti, in particolare contro quelli che per svolgere il proprio dovere fanno i conti ogni giorno con le minacce e le intimidazioni della criminalità».