A cura di: Davide Colombo, Gaia Filocamo, Dottorandi di diritto penale, Dipartimento C. Beccaria, Università degli Studi di Milano
A seguito della commissione di un fatto di reato ed al suo accertamento, l’ordinamento giuridico prevede l’irrogazione di una pena, quale risposta sanzionatoria alla violazione di una regola di condotta racchiusa in una norma penale. La pena assolve contestualmente molteplici funzioni: retributiva (infliggere al reo un male corrispondente a quello da questi cagionato, per soddisfare il comune senso di giustizia), general-preventiva (distogliere la collettività dall’attrattiva del reato, minacciando la pena come conseguenza), special-preventiva (impedire che il reo commetta in futuro ulteriori reati). Queste funzioni, tuttavia, non si collocano tutte sullo stesso piano. Sulle altre, infatti, primeggia – in ottica special-preventiva – la funzione rieducativa delle pene, consacrata in Costituzione all’art. 27 comma 3: in base all’ideale rieducativo, il trattamento sanzionatorio punitivo deve avere quale scopo quello di favorire la risocializzazione del condannato, così che questi possa tornare a vivere tra i consociati nel rispetto della legalità.
La stessa Corte Costituzionale, a partire dalla sentenza n. 313/1990 e con orientamento costante in tutti gli anni successivi, ha chiarito che la funzione rieducativa della pena ha un ruolo primario, che non può essere sacrificato sull’altare delle altre, pur legittime, funzioni della pena. D’altra parte, nonostante nell’attuale contesto storico e sociale serpeggino paure e frustrazioni che inneggiano a istanze securitarie, non può non osservarsi come sia solo la rieducazione, espressamente votata alla prevenzione della recidiva, a garantire maggior sicurezza sociale (recuperando i condannati dal circuito criminale), rispetto a pulsioni retributive o simbolicamente general-preventive, le quali infatti restituiscono individui che, dopo aver scontato pene desocializzanti, tornati in libertà non sono più in grado di inserirsi in società nel rispetto della legalità. Da questo punto di vista, è ormai evidente che il carcere non sia uno strumento capace di favorire il recupero dei condannati. Numerosi studi, sia nazionali sia internazionali, hanno dimostrato come le pene detentive, specie se di breve durata ed eseguite in forma intra-muraria, producono tassi di recidiva assai maggiori rispetto a quello di soggetti che eseguono le pene attraverso trattamenti sanzionatori ‘alternativi’: in particolare, il tasso di recidiva di chi sconta la pena detentiva in carcere si aggira intorno al 68%, contro il 18% di recidiva di coloro che fruiscono di un’esecuzione penale esterna (sul punto, cfr. anche le recenti ricerche del CNEL secondo cui la recidiva pare calare fino al 2% per i detenuti che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale). La tensione rieducativa che deve ispirare le pene impone quindi di predisporre un sistema sanzionatorio flessibile, in grado cioè di essere adattato alle peculiarità del singolo condannato e così suscettivo di essere modellato in modo da costruire il percorso punitivo-riabilitativo più idoneo in relazione alle caratteristiche specifiche del soggetto. In questa prospettiva, l’ordinamento dispone di vari strumenti, ciascuno dei quali ha un ruolo particolare in relazione alla fase procedimentale e alle esigenze perseguite. In particolare, il “momento sanzionatorio” non è racchiuso in un singolo passaggio processuale, ma coinvolge vari stadi del procedimento, dalla fase di cognizione (fase in cui il giudice è chiamato ad accertare il fatto, qualificarlo giuridicamente e decidere sulla responsabilità penale dell’imputato) alla fase di esecuzione (quella in cui il giudice si occupa delle questioni che possono insorgere in relazione alla concreta applicazione ed esecuzione della condanna pronunciata).
Innanzitutto, prima ancora che il procedimento venga definito con una pronuncia che ravvisi o meno la responsabilità penale dell’imputato, questi può chiedere, ai sensi dell’art. 168 bis c.p., la sospensione del procedimento medesimo con messa alla prova [istituto distinto dalla sospensione condizionale della pena, su cui v. infra]. La messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta altresì l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali. La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. In caso di esito positivo della messa alla prova, il reato è estinto.
Nel caso in cui si celebri il processo e si addivenga a una pronuncia di condanna, il giudice applicherà una delle pene principali previste dal codice penale, essendo vincolato nella scelta a quanto previsto dalla norma incriminatrice e dai limiti minimi e massimi di pena da essa previsti. Le pene principali possono essere detentive (ergastolo, reclusione, arresto) o pecuniarie (multa, ammenda). Il giudice può inoltre applicare pene accessorie, ossia sanzioni, diverse dalle pene principali, a contenuto tendenzialmente interdittivo, applicabili solo in aggiunta a una pena principale e che di regola conseguono di diritto a una sentenza di condanna per un reato consumato o tentato (sono pene accessorie l’interdizione dai pubblici uffici, l’interdizione legale, l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, etc.). Cionondimeno, il legislatore ha preso atto del dato, ormai diffusamente noto, per cui l’ingresso in carcere per l’espiazione di pene detentive di breve durata dimostra una valenza prevalentemente negativa, con effetti criminogeni e di marginalizzazione sociale preponderanti rispetto all’efficacia rieducativa costituzionalmente prescritta. In quest’ottica, l’ordinamento dispone di un ventaglio di strumenti atti ad evitare l’ingresso in carcere del condannato (spesso per un primo reato), ove questi dimostri di non essere socialmente pericoloso e il fatto commesso non sia di particolare allarme sociale. Anzitutto, qualora l’imputato venga condannato ad una pena detentiva di regola non superiore ai due anni, il giudice può disporre la sospensione condizionale della pena (artt. 163 ss. c.p.), istituto che, al ricorrere di determinati presupposti, accorda la possibilità di sospendere l’esecuzione della pena.
Il sistema sanzionatorio nella fase di cognizione del procedimento penale: sospensione condizionale e pene sostitutive quali strumenti di lotta alla pena detentiva di breve durata
In cosa consiste la sospensione condizionale della pena?
Artt. 163 ss. c.p.
Si tratta dell’istituto del diritto penale sostanziale che consente, generalmente, al giudice della cognizione (i.e. il giudice che si pronuncia sulla condanna), ove ne ritenga sussistenti i presupposti, di sospendere l’esecuzione della pena per un periodo di tempo predeterminato (cinque anni, in caso di condanna per delitto; due anni, per le contravvenzioni), durante il quale il condannato sarà sottoposto ad una prova, eventualmente gravato dal vincolo all’espletamento di obblighi di natura patrimoniale o volti all’eliminazione delle conseguenze del reato. Se – e solo se – detto periodo di prova avrà esito fausto (per l’assenza di cause di revoca del beneficio), si produrrà l’effetto estintivo delle pene principali ed accessorie (restando, invece, intoccati gli effetti penali della condanna: ad esempio, ai fini della recidiva).
Quali sono i presupposti applicativi della sospensione della pena?
Posto che l’applicazione dell’istituto è rimessa all’esercizio della discrezionalità del giudicante – che può procedervi anche d’ufficio, in assenza di richiesta dell’imputato – è necessario sussistano requisiti di vario tipo. Anzitutto, quanto ai limiti di pena inflitta (art. 163 c.p.), deve trattarsi di reclusione o arresto non superiori ai due anni, una regola che conosce due eccezioni: per il condannato che abbia compiuto gli anni diciotto, ma non i ventuno, o gli anni settanta la pena detentiva irrogata potrà essere pari anche ad un massimo di due anni e sei mesi; per il condannato per un fatto commesso in età inferiore agli anni diciotto, la soglia di pena detentiva massima inflitta è innalzata a tre anni. Vi sono, poi, preclusioni di natura soggettiva, che limitano l’applicabilità dell’istituto sulla base di valutazioni che attengono all’eventuale condotta criminosa passatadell’imputato (art. 164, commi 2 e 4, c.p.); e, infine, altre che traggono origine da valutazioni di tipo prognostico sul futuro dello stesso, a seconda che si ritenga più o meno credibile che si asterrà dal commettere nuovi reati (art. 164, comma 1, c.p.).
Qual è la ragion d’essere dell’istituto?
La sospensione condizionale della pena è il più risalente e vastamente utilizzato strumento di lotta alla pena detentiva breve, la quale, come ormai noto, si caratterizza per il suo drammatico effetto criminogeno e di marginalizzazione sociale.
Come distinguere la sospensione condizionale della pena dalla sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato?
Si tratta di istituti ontologicamente differenti: il primo, infatti, interviene in un momento in cui il procedimento penale ha portato all’accertamento del fatto di reato contestato e, per quest’ultimo, ha visto irrogare una pena all’imputato. Qualora detta pena presenti i requisiti summenzionati, la stessa potrà essere sospesa e, eventualmente, si potrà giungere alla sua estinzione. Il secondo istituto, invece, comporta la sospensione del procedimento stesso, che rimane quiescente, mentre l’imputato – che avrà fatto richiesta a tal fine, sulla scorta di scelte difensive – sarà sottoposto ad un periodo di prova nelle forme del proprio programma di trattamento. L’esito positivo della prova, in tal caso, conduce all’estinzione non della pena – che non viene inflitta, poiché manca un accertamento di responsabilità penale per il fatto contestato – bensì del reato.
Nel caso in cui non disponga la sospensione condizionale della pena e questa sia contenuta entro il limite di quattro anni, in determinati casi il giudice di cognizione può sostituire la pena principale irrogata con una o più pene sostitutive, di recente valorizzate dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (c.d. Riforma Cartabia), anch’esse volte ad evitare il passaggio in carcere dell’imputato, sottoponendolo così ad un trattamento sanzionatorio maggiormente incline a favorirne la rieducazione e il reinserimento in società.
Contenuto delle diverse tipologie di pene sostitutive
Cosa sono le pene sostitutive delle pene detentive brevi?
Art. 20 bis c.p.; artt. 53 ss. l. 689/1981
Nel solco del contrasto alle pene detentive di breve durata, il legislatore della recente Riforma c.d. Cartabia, d.lgs. n. 150/2022, interviene dando nuova linfa alle “sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi”, disciplinate dalla l. n. 689/1981. Le neoriformate pene sostitutive sono di quattro tipi (art. 20 bis c.p.): la semilibertà sostitutiva; la detenzione domiciliare sostitutiva; il lavoro di pubblica utilità sostitutivo; la pena pecuniaria sostitutiva. Quando il giudice della cognizione – all’atto di pronunciare la sentenza di condanna – si determina ad infliggere una pena detentiva di durata non superiore ai quattro anni, può sostituirla con la semilibertà o la detenzione domiciliare sostitutive; quando la pena non supera i tre anni, può essere sostituita anche con il lavoro di pubblica utilità sostitutivo; quando, infine, la pena è contenuta entro il limite di un anno, il giudice potrà sostituirla altresì con la pena pecuniaria.
La semilibertà sostitutiva
Art. 55 l. 689/1981
La più gravosa del ventaglio di pene sostitutive previste dall’art. 20 bis c.p. comporta l’obbligo di trascorrere un minimo di otto ore al giorno all’interno di un istituto di pena, svolgendo – nella restante parte della giornata, trascorsa all’esterno – attività lavorativa, di studio, di formazione professionale o altra utile alla rieducazione ed al reinserimento sociale del condannato, secondo le prescrizione del programma di trattamento predisposto con l’Ufficio di esecuzione penale esterna (UEPE). Come anzidetto, il limite di pena detentiva sostituibile con la semilibertà è quattro anni e la durata di quest’ultima è pari alla pena detentiva che sarebbe stata inflitta.
La detenzione domiciliare sostitutiva
Art. 56 l. 689/1981
Il condannato a pena detentiva non superiore a quattro anni può, inoltre, acconsentire alla sostituzione della stessa con l’obbligo di permanenza nella propria abitazione o altro luogo di privata dimora, di cura, assistenza od accoglienza per non meno di dodici ore al giorno, avendo comunque riguardo alle sue comprovate esigenze familiari, di studio, lavoro, formazione professionale o salute e riservandogli un minimo di quattro ore al giorno per allontanarsi dal suddetto luogo e provvedere ad indispensabili personali necessità. Anche la durata della detenzione domiciliare corrisponde alla pena detentivasostituita.
Il lavoro di pubblica utilità sostitutivo
Art. 56 bis l. 689/1981
Si tratta della prestazione di attività presso lo Stato, le regioni, le province, le città o i comuni svolta in favore della collettività e non retribuita. La pena detentiva può esser sostituita con il lavoro di pubblica utilità se non superiore ai tre anni; anche la durata del lavoro di pubblica utilità va di pari passo con la pena sostituita, tuttavia, ai fini del computo di quest’ultima, un giorno di lavoro consiste nella prestazione di due ore di lavoro (art. 56 bis, comma 3, l. 689/1981, come riformato dal d.lgs. n. 150/2022).
La pena pecuniaria sostitutiva
Art. 56 quater l. 689/1981
La pena detentiva non superiore ad un anno può essere altresì sostituita dal pagamento a favore dello Stato di una somma di denaro determinata in virtù del modello dei tassi giornalieri: tenendo conto delle complessive condizioni patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare, il giudice individua il valore giornaliero al quale potrà essere assoggettato – in un range tra 5 e 2.500 euro – moltiplicandolo poi per il numero di giorni di pena detentiva da espiare.
Come si svolge il procedimento di sostituzione della pena detentiva breve?
Art. 58 l. 689/1981
La sostituzione della pena detentiva breve è rimessa alla discrezionalità del giudice (art. 58 l. 689/1981, riformato dal d.lgs. 150/2022), che ne determina l’an ed il quomodo, assicurando all’imputato la forma più idonea alla rieducazione, con il minor sacrificio possibile della sua libertà personale. Ove non sussistano preclusioni soggettive all’applicabilità delle pene sostitutive (es. esito negativo di una precedente sostituzione; pericolosità sociale del condannato; condanna per reati di cui all’art. 4 bis ord. penit.), il giudice che pronuncia la condanna acquisisce l’eventuale consenso dell’imputato – condizione necessaria per le pene sostitutive diverse da quella pecuniaria – e procede ad integrare il dispositivo con la sostituzione corredata dalle relative prescrizioni, o, se ritiene di non poter decidere, sospende il processo e fissa un’apposita udienza c.d. di sentencing, sul modello anglo-americano, a non più di sessanta giorni (art. 545 bis c.p.p.).
In che rapporto si pongono le pene sostitutive rispetto alla sospensione condizionale della pena?
Art. 61 bis l. 689/1981
Volgendosi ad espandere la sfera applicativa delle pene sostitutive delle pene detentive brevi, la recente riforma è intervenuta, anzitutto, eliminando quella sovrapposizione con l’ambito di applicazione della sospensione condizionale della pena, che aveva contribuito al loro fallimento. Innalzando il limite di pena detentiva a quattro anni per la sostituzione della stessa, il legislatore ha fatto sì che alle pene sostitutivefosse riconosciuto un terreno applicativo privilegiato nei casi di condanne ricomprese fra i due e i quattro anni di pena detentiva. L’odierna disciplina ribadisce il carattere alternativo dei due istituti, sancendo l’inapplicabilità della sospensione condizionale delle pene sostitutive (art. 61 bis l. n. 689/1981), proprio per impedire l’inefficacia di queste ultime. Qualora il giudice si trovi, invece, a valutare se concedere la sospensione della pena o disporne la sostituzione – ipotesi di condanne a pene detentive non superiori ai due anni – l’alternativa si porrà tra una misura per lo più priva di profili sanzionatori ed una pena sostitutiva che può esser individuata in virtù delle esigenze rieducative del caso specifico.
Quali rapporti tra pene sostitutive delle pene detentive brevi e misure alternative alla detenzione?
Art. 67 l. 689/1981
Si tratta di due percorsi diversi, pur aventi il medesimo obiettivo di evitare l’ingresso in carcere del condannato a pena detentiva di breve durata.
Il legislatore, con la c.d. riforma Cartabia, ha potenziato l’apparato di pene sostitutive per far sì che già il giudice della cognizione possa disporre l’applicazione di un’alternativa al carcere. L’auspicio – confortato dalle prime rilevazioni statistiche – è che tale meccanismo si riveli più rapido ed efficiente rispetto a quello relativo alla concessione di misure alternative alla detenzione dallo stato di libertà, il quale, a causa della scarsità di risorse disponibili, genera sovente ritardi e inefficienze (così generando, in particolare, il noto e allarmante fenomeno dei c.d. liberi sospesi, per il quale v. infra).
Nel dettaglio circa i rapporti tra pene sostitutive e misure alternative, viene espressamente sancita dal legislatore l’inapplicabilità delle misure alternative alla detenzione al condannato in espiazione di una pena sostitutiva (art. 67 l. n. 689/1981). Tuttavia, non si tratta di un divieto insuperabile, poiché già dopo l’espiazione di almeno metà della pena sostitutiva il condannato che ne faccia apposita richiesta può vedersi riconosciuta la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, con un sacrificio della sua libertà personale significativamente minore.
A differenza delle pene sostitutive, che sono applicate dal giudice di cognizione nel momento in cui pronuncia la sentenza di condanna, le misure alternative alla detenzione(artt. 47 ss. ord. penit.) sono disposte dal tribunale di sorveglianza (artt. 677 ss. c.p.p.) dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna a pena detentiva. Di regola, l’ammissione a tali misure è possibile quando la pena (ancora) da scontare è inferiore a quattro anni. Tra le principali misure alternative si annoverano l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare e la semilibertà.
Il sistema sanzionatorio nella fase di esecuzione: le misure alternative alla pena detentiva
Cosa si intende per misure alternative alla detenzione?
Artt. 47 ss. ord. penit.
In caso di condanna a pena detentiva, a determinate condizioni, il tribunale di sorveglianza può disporre che la pena venga eseguita con particolari modalità, designate dalla legge come misure alternative alla detenzione (artt. 47 ss. ord. penit.). Lo scopo di tali misure è quello di adempiere alla funzione rieducativa della pena assicurando un graduale reinserimento del condannato nella società.
La loro applicazione è demandata alla magistratura di sorveglianza, ossia quella parte dell’ordinamento giudiziario che vigila sull’esecuzione della pena.
L’accesso alle misure alternative alla detenzione dipende dall’ammontare di pena detentiva da scontare e, in generale, è precluso quando la pena ancora da scontare è superiore a 4 anni o se si tratta di condanna per reati ostativi.
Cos’è la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena?
Art. 656 c.p.p.
Quando il Pubblico Ministero, una volta passata in giudicato la sentenza di condanna a pena detentiva, ne ordina l’esecuzione, se la pena da espiare – anche residua – non supera i quattro anni, ai sensi dell’art. 656 co. 5 c.p.p. lo stesso Pubblico ministero sospende l’ordine e avvisa il condannato che entro 30 giorni può presentare istanza volta alla concessione di misure alternative alla detenzione. Questo meccanismo consente, nell’ottica di evitare il contagio criminogeno con il carcere e di favorire il percorso rieducativo, di non dover passare dal carcere per accedere alle misure alternative. La competenza a decidere sulla richiesta di misura alternativa spetta al tribunale di sorveglianza.
. Chi sono i liberi sospesi?
Art. 656 c.p.p.
L’espressione “liberi sospesi” evoca il fenomeno patologico che, a causa delle lungaggini e dei ritardi dovuti alla scarsità di risorse (umane e non) dei Tribunali di sorveglianza, investe individui lasciati per lunghi periodi, spesso anche anni, in attesa di conoscere l’esito della propria richiesta di ammissione a una misura alternativa. Tale situazione ha evidenti risvolti negativi, in quanto, da un lato, inibisce la possibilità di progettare con serenità il proprio futuro e, dall’altro lato, qualora la richiesta non venisse accolta, l’esecuzione della pena detentiva ordinata a distanza di anni dalla condanna ha effetti dirompente per l’esistenza di una persona che ormai è andata avanti con la sua vita.
Cosa si intende per liberazione anticipata?
Art. 54 ord. penit.
La liberazione anticipata è un istituto giuridico di natura premiale che consente una detrazione, dall’ammontare di pena ancora da eseguire, pari a 45 giorni per ogni singolo semestre di pena scontata da persona detenuta che abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione.
Cos’è e cosa comporta l’affidamento in prova al servizio sociale?
Art. 47 ord. penit.
L’affidamento in prova al servizio sociale è una misura alternativa alla detenzione che comporta che il condannato venga sottoposto ad un periodo di prova di durata pari a quella della pena detentiva ancora da scontare. Durante tale periodo il soggetto soggiace a una serie di obblighi e divieti e nel contempo è affidato, fuori dall’istituto penitenziario, al servizio sociale (inquadrato negli Uffici locali di esecuzione penale esterna: UEPE), con funzioni di controllo e di aiuto nei confronti del condannato.
Cos’è e cosa comporta la detenzione domiciliare?
Art. 47 ter ord. penit.
La detenzione domiciliare è una misura alternativa alla detenzione che comporta l’espiazione della pena ancora da scontare presso la propria abitazione o in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, con sottoposizione ad una serie di obblighi o divieti.
Cos’è e cosa comporta la semilibertà?
Art. 48 ord. penit.
La semilibertà è una misura alternativa alla detenzione che prevede la facoltà di uscire dall’istituto di detenzione per il tempo strettamente necessario a partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale, con sottoposizione ad una serie di obblighi e divieti.
L’accesso alle misure alternative alla detenzione può avvenire in due modi. In primo luogo, può essere disposto nel corso dell’esecuzione della pena detentiva, in modo da consentire al condannato di intraprendere – prima di uscire dal carcere – un percorso di progressiva risocializzazione e reintroduzione nella società civile, di talché, alla fine della pena, questi possa con più facilità reinserirsi nella comunità nel rispetto della legalità. In secondo luogo, le misure alternative alla detenzione possono essere concesse prima ancora che la pena inizi ad essere eseguita, in modo da evitare il passaggio in carcere al condannato per reati di minore gravità, preservandolo dall’ambiente desocializzante e criminogeno della prigione; a tal fine, l’art. 656 co. 5 c.p.p. prevede un meccanismo di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena, durante il quale il condannato può presentare richiesta di ammissione a una misura alternativa.
Cosa si intende per reato ostativo?
Art. 4 bis ord. penit.
Con l’espressione “reati ostativi” si suole indicare il novero di delitti, previsto dall’art. 4 bis ord. penit., alla cui condanna la legge fa derivare alcune limitazioni all’accesso a determinati benefici penitenziari, tra cui l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione.
L’art. 4 bis prevede discipline differenziate a seconda della tipologia dei reati ostativi. In particolare, per quanto riguarda i reati di criminalità organizzata, la disciplina prevede oggi che i benefici e le misure alternative (permessi-premio, liberazione condizionale, etc.) possono essere concessi solo in caso di collaborazione con la giustizia o nelle ipotesi in cui tale collaborazione sia impossibile o irrilevante. Alla base del regime
dell’ergastolo ostativo vi è una presunzione di pericolosità del condannato “non collaborante”, che è fondata, a sua volta, su di una presunzione di persistenza dei collegamenti del detenuto con l’associazione di appartenenza anche dopo l’ingresso in carcere: una presunzione destinata a cadere nel caso di collaborazione con la giustizia, essendo questa una condotta che il legislatore ha ritenuto idonea a dimostrare la rottura del vincolo tra il detenuto e l’associazione criminale di appartenenza. A seguito di censure mosse dalla Corte EDU e dalla Corte Costituzionale, il legislatore ha parzialmente modificato la disciplina dell’art. 4 bis (con il d.l. 162/2022), rendendo oggi possibile la concessione dei benefici e delle misure alternative anche in assenza di collaborazione con la giustizia, ma solo in presenza di requisiti molto stringenti e assai difficili da dimostrare: oltre all’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria, è necessario allegare elementi specifici, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, nonché il pericolo di un loro ripristino.
Cosa si intende per ergastolo ostativo?
Con l’espressione “ergastolo ostativo” si fa riferimento al particolare regime dell’ergastolo che si applica a coloro che sono stati condannati alla pena perpetua per taluno dei reati “ostativi” di cui all’art. 4 bis ord. penit. e sono quindi sottoposti alla rigorosa disciplina ivi prevista, con riferimento all’accesso alle misure alternative e ai benefici penitenziari (vd. FAQ precedente). Il rigoroso meccanismo di preclusione ai benefici penitenziari di cui all’art. 4 bis genera conseguenze particolarmente gravose per gli ergastolani, poiché nei confronti di costoro la mancanza di collaborazione chiude per sempre le porte del carcere, facendo venir meno qualsiasi chance di recuperare la libertà (fatto salvo le rare ipotesi di concessione dei benefici ora possibile per effetto del d.l. 162/2022, su cui pure vedi la FAQ precedente).
Cosa si intende per liberazione condizionale? Art. 176 c.p.
La liberazione condizionale è uno strumento giuridico di natura premiale che consente al condannato a pena detentiva, il quale abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il ravvedimento, di tornare, dopo aver scontato un determinato minimo di pena, in libertà, benché sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata. La liberazione condizionale si applica anche agli ergastolani, che possano beneficiarne dopo aver scontato almeno ventisei anni di pena.
Cosa si intende per “regime ex art. 41 bis” (c.d. “carcere-duro”)?
Art. 41 bis ord. penit.
Con l’espressione – di origine giornalistica – “carcere-duro” si intende lo speciale regime detentivo previsto dall’art. 41 bis co. 2 ord. penit., che si applica a detenuti per reati di cui all’art. 4 bis o.p., per i quali si è accertata l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. Tale provvedimento, applicato dal Ministro della giustizia, prevede per i detenuti che vi sono sottoposti restrizioni particolarmente rigorose, volte ad impedire le comunicazioni tra gli stessi e l’organizzazione criminale di appartenenza. Tali restrizioni consistono nella drastica riduzione nel numero e nella durata dei colloqui con i familiari (un’ora al mese)(di regola, invece, i detenuti possono svolgere fino a sei colloqui al mese, ciascuno della durata di un’ora), che possono svolgersi solo attraverso un vetro separatore a tutta altezza, tale da impedire qualsiasi contatto fisico; nella riduzione delle telefonate; nella limitazione della corrispondenza, che viene tutta vistata, così come della possibilità di ricevere pacchi dall’esterno; nella riduzione delle ore d’aria (massimo due al giorno); nella riduzione dei gruppi dei detenuti con cui è possibile interagire all’interno dell’istituto.
Che differenza c’è tra l’art. 4 bis e l’art. 41 bis?
L’art. 4 bis e l’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario regolano due istituti diversi: l’art. 4 bis prevede una disciplina di rigore nell’accesso ai benefici e alle misure alternative al carcere, nei confronti di una categoria di condannati, di cui la legge presume la pericolosità in base al titolo di reato commesso.
L’art. 41 bis è un provvedimento individuale che si applica a detenuti per reati di cui all’art. 4 bis, qualora si accerti l’attualità dei collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza, e che consiste in un regime detentivo di particolare rigore, finalizzato ad impedire le comunicazioni tra gli stessi detenuti e con l’esterno.
Cos’è e di cosa si occupa il tribunale di sorveglianza?
Artt. 677 ss. c.p.p.
Il magistrato e il tribunale di sorveglianza sono gli organi giurisdizionali, rispettivamente monocratico e collegiale, che compongono la magistratura di sorveglianza, ossia quella parte dell’ordinamento giudiziario che vigila sull’esecuzione della pena.
In particolare, la magistratura di sorveglianza si occupa delle richieste di misure alternative alla detenzione presentate da condannati a pena detentiva (già detenuti o in stato di libertà), nonché su questioni attinenti alla liberazione condizionale e al rinvio dell’esecuzione delle pene detentive.