Riprendersi l’agenda per fare vera cronaca

Sono sempre meno quelli che pagano per avere informazione di qualità, ma c’è qualcosa che abbiamo fatto noi cronisti (insieme agli editori) per meritarlo. Su tutto, rincorrere l’agenda dei social.
di Luca Rinaldi, coordinatore di Dossier (MilanoToday)

Il 34% degli italiani evita “attivamente” di leggere news (nel 2017 era il 28%). Nell’ultimo anno solo il 12% degli italiani ha pagato per leggere news online, in forma di un abbonamento, una membership, il pagamento per un singolo pezzo o una donazione. La fiducia complessiva nelle notizie è inchiodata al 34%, tra i tassi più bassi d’Europa. In ultimo, quelli che si informano attraverso i social sono il doppio di quelli che scelgono la carta stampata e superiori a quanti si rivolgono alla televisione.

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Sono i numeri dell’ultimo rapporto del Reuters Institute, da cui emerge il quadro di una editoria giornalistica tanto in difficoltà quanto in ritardo. Molte delle domande che gli editori si pongono oggi, su tutti come remunerare il giornalismo, arrivano con circa un decennio di ritardo. La rincorsa a un modello completamente gratuito e basato quasi esclusivamente sulla pubblicità, e dunque sulla massa dei click, presenta oggi il conto. Un conto che porta a interrogarci sul senso della cronaca oggi: la fiducia è l’ingrediente principale per modelli di business efficaci e se i media non sono in grado di guadagnarsela il fallimento è dietro l’angolo. L’unico modo per aumentare questo fattore è produrre cronache meritevoli di fiducia, che siano cronaca nera, bianca, giudiziaria o economica.


La cronaca come asset 

Di certo, infatti, la cronaca rimane uno dei principali driver dell’informazione online, non solo in termini di traffico ma anche di sottoscrizioni a pagamento. Una cronaca dei fatti attenta e rigorosa porta giovamento al giornale nella sua interezza, in termini di credibilità e in termini economici. Ma come può la cronaca essere meritevole di fiducia se è costantemente alla rincorsa di un’agenda dettata dai social network? E se dagli stessi social mutua meccanismi e procedure, dando vita a una rappresentazione della realtà puntiforme, cioè non più in grado di inquadrare un fatto e spiegarlo?

Tornare a dettare l’agenda deve essere per i giornali e per i cronisti inviati sul campo una priorità per rinsaldare il rapporto con i lettori. Rincorrere tempi e modi di ciò che nasce (e velocemente muore) sui social network non può essere né un modello di credibilità né un modello di business per chi vuole continuare a fare cronaca: si può diventare una fabbrica di contenuti, ma non chiamatelo giornalismo.

Certo, oggi i social sono anche un aiuto: spesso gli occhi degli smartphone arrivano prima di noi dove la storia sta accadendo, nelle vie, nei quartieri e nelle piazze, ma il racconto del cronista non può limitarsi a riportare ciò che viene rimbalzato online. Il sale della cronaca rimane l’esserci e soprattutto esserci con cognizione. Arrivare prima oggi non è necessariamente un valore quanto invece lo è arrivarci bene. Ed è proprio l’arrivare bene su un fatto che infonde fiducia al lettore che si accorge di essere di fronte a una cronaca documentata, che esprime un valore aggiunto e che è utile e documentata.

Le nuove generazioni di lettori chiedono al giornalismo di costruire intorno ai fatti contesto e senso. È un bisogno che va senz’altro soddisfatto. Ma se è così, la cronaca – intesa come categoria giornalistica – non può più essere solo sulle spalle del cronista sul campo, ma deve vivere del lavoro di squadra di chi attorno a lui lavora sui dati, i documenti, i contesti. Comprendere questa organizzazione del lavoro è oggi una necessità sia per i giornalisti, da quelli che lavorano sul campo a chi è chiamato invece in redazione, sia per gli editori, i quali mai come oggi dovrebbero comprendere che il fattore umano è determinante nei successi di un giornale e di un qualsiasi progetto editoriale.

Un patto di sistema 
Serve dunque una consonanza strategica tra giornalisti e editori. Non basta il senso di responsabilità dei giornalisti se non c’è la maturità da parte delle aziende di comprendere il valore prodotto dal lavoro giornalistico che chiamiamo cronaca. È proprio la cronaca la materia prima da cui deriva tutto il resto. Immaginiamo di fare un giornale senza conoscere i fatti: niente inchieste, niente commenti, niente possibilità di mettere i puntini in correlazione tra loro. 
Occorre dunque una presa di coscienza che la cronaca oggi non può più essere solo la registrazione dei fatti come vengono riferiti dalle fonti più vicine, ma appunto la costruzione di un contesto di senso dei fatti stessi. Lo sforzo per migliorare questo servizio ai lettori non può che essere chiesto all’intero ecosistema dell’informazione. 

In grande sintesi occorre riconoscere la centralità della cronaca (sia dal punto di vista informativo, sia economico) come elemento costitutivo del giornale, e ciò è possibile se con un grande sforzo di sistema questa viene valorizzata, curata, avvicinata ai lettori e ai loro interessi. Tutto questo imponendo anche temi e fatti che talvolta a prima vista, come si dice spesso nelle redazioni “non tirano”, ma che nella costruzione di senso all’interno di una comunità sono poi destinati a diventare un patrimonio continuamente spendibile presso i lettori stessi.

Scrivere per il futuro 

Può sembrare paradossale che la cronaca, storia dell’istante, possa essere valorizzata con una visione di lungo periodo. Ma oggi evitare di farsi travolgere da un flusso che trasforma tutto in contenuti da fagocitare all’istante è una di quelle vie strette che occorre percorrere per ricostruire credibilità. È una sfida complicata, ma la sola assunzione di responsabilità del singolo cronista non è più sufficiente se un intero sistema non coglie i segnali lanciati dalla comunità di lettori e utenti.

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