Nel nostro Paese il giornalismo è stato tradizionalmente considerato un genere letterario. Se invece è ricerca, estrazione ed elaborazione di informazioni il giornalismo è data journalism. Oppure non è
Di Riccardo Sorrentino, presidente dell’Ogl
Ha più di cinquant’anni, ma è ancora un bambino. Il data journalism non è una novità: era il 1973 quando Philip Meyer, giornalista e docente di giornalismo, pubblicò la prima edizione del suo Precision Journalism che, malgrado il titolo, apriva le porte dei giornali ai dati, sempre più diffusi e sempre più facili da gestire, anche quando il personal computer era ancora di là da venire.
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I successi della nuova forma di giornalismo non sono mancati. Il risultato migliore resta forse ancora la scoperta, effettuata dopo l’elaborazione di dati molti granulari, delle spese allegre dei deputati inglesi, frutto del lavoro dei giornalisti del Guardian: era la prova – non certo l’unica, anzi – che nei dati potevano nascondersi anche le notizie e che l’analisi dei numeri non forniva solo materiale per le news analyses, gli approfondimenti, gli “articoli di appoggio”. Altre tecnologie – esempi sono i sensori e i droni – promettevano, associati al data journalism, anche di più: l’”estrazione” dalla realtà di dati nuovi, non ancora a disposizione. Il sensor journalism, il drone journalism sono una realtà nei paesi più aperti alle innovazioni (gli Stati Uniti…).
Le ragioni di un ritardo
L’Italia – e dispiace aggiungere: tipicamente – è rimasta un po’ indietro. All’estero le redazioni aprivano già anni fa le porte a nuove figure professionali come gli statistici, i programmatori e gli ingegneri, che come il giornalista e al fianco del giornalista elaboravano informazioni. I nostri giornali hanno reagito più lentamente, anche se oggi non mancano colleghi molto competenti che si occupano di dati, della loro analisi e della loro presentazione grafica. Pesa un po’, nel nostro paese, l’idea che il giornalismo sia più un genere letterario che un lavoro di ricerca. Non era difficile, qualche tempo fa, sentire noti giornalisti opporsi alla “dittatura dei dati”, espressione di una chiusura non certo sana verso un’importante fonte di informazioni, in ogni caso meno “biased”, distorta e parziale di qualunque “virgolettato” di cui, giustamente, andiamo alla ricerca. La centralità, nel lavoro statistico – o di data science, come si chiama oggi – della data visualisation, che è disciplina scientifica e non artistica, ha inoltre creato qualche difficoltà tra quei giornalisti che vedono nella scrittura o nell’immagine, ma non nella grafica, il cuore della loro attività.
Il risultato è che le potenzialità del data journalism non sono state colte. Con il rischio di chiuderlo in un ghetto, magari ricco e lussuoso, ma isolato: non è una forma di segregazionismo tra gli ambiti del giornalismo, ciò di cui abbiamo bisogno. Se si è faticosamente fatta strada l’idea che un giornale importante, con un’intensa presenza online, debba avere una redazione dati, è meno evidente il fatto che qualunque giornalista – e non solo, per esempio, i giornalisti economici – deve saper maneggiare i dati, e in maniera non banale. Si pensi al riscaldamento climatico, tema ormai quotidiano: i vecchi manuali, i vecchi corsi di data journalism che, anche all’estero, non andavano oltre la descrizione dei concetti statistici di media e di mediana, diventano obsoleti. Perché nulla si può capire del fenomeno del global warning se non si comprendono e si sanno utilizzare concetti come quelli della varianza e della deviazione standard, ma anche i test statistici che permettono di capire come i dati a disposizione rappresentano davvero un mondo nuovo, e non la riproposizione di eventi estremi già presenti nel passato. Analogamente, la pandemia ci ha posti drammaticamente di fronte alle difficoltà dei fenomeni esponenziali, non lineari, e all’incertezza che li accompagna. Per restare nel campo della sanità, la sola comprensione di un dato solo apparentemente semplice e molto utile come quello della probabilità di essere ammalati dopo un esito positivo di un esame, richiede competenze non banali.
Non c’è in linea di principio un settore della nostra attività che non possa trarre giovamento da ampie competenze nell’analisi dei dati. Se il giornalismo deve diventare soprattutto un lavoro di “traduzione culturale” tra mondi ad alte competenze e il pubblico, se il giornalista deve dotarsi – come ripete giustamente il giornalista esperto di nuovi media Luca de Biase – di un’epistemologia, per quanto minimalista, della notizia, il data journalism diventa una componente importante delle competenze di base di quella storiografia del presente che è il nostro lavoro.
Contesti e differenze
Pesa sulla diffusione del data journalism anche la relativa disattenzione di tutto il mondo europeo, e di quello italiano in particolare, ai dati e alla raccolta e alla diffusione dei dati. Il data journalism nasce negli Stati Uniti (e trova terreno fertile in Gran Bretagna) non solo perché le redazioni condividono la passione per le innovazioni che rende vivo quel Paese. C’è anche il riconoscimento della centralità della raccolta dei dati. Chi si occupa di giornalismo economico ha sicuramente avuto modo di confrontare la quantità di dati a disposizione degli analisti negli Stati Uniti e nell’area euro, per esempio. Non solo: l’ossessione per la privacy dei paesi europei e le regole di trasparenza condizionata imposte dal diritto amministrativo, rende molto più difficile ottenere dati. Il lavoro del data journalist è obiettivamente più difficile nel vecchio continente.