Il giornalismo scientifico fa i conti con la banalizzazione dei social e la rincorsa all’effetto emotivo. Per essere riconosciuti i giornalisti scientifici devono saper avviare discussioni che si allarghino alla politica, all’economia, alla vita delle persone. Con accuratezza
di Gianluca Dotti
I dati assoluti, di per sé, non parrebbero nemmeno troppo allarmanti: secondo il terzo Rapporto Ital Communications-Censis, dei 47 milioni di italiani che si informano quotidianamente, l’83% utilizza il web e il 74% i media tradizionali, e sono poco più di 3 milioni le persone che hanno deciso di non cercare più informazioni puntuali su ciò che accade quotidianamente. A preoccupare in termini del cosiddetto fenomeno della news avoidance, mettendo in luce anche un nuovo modo di intendere il giornalismo, è un’altra evidenza statistica: una buona della metà degli italiani è convinta che, a causa di un percepito disordine informativo che caratterizza il panorama attuale dei media, sia legittimo utilizzare fonti informali. Fonti che, per propria natura, molto spesso sono prive di controlli, favorendo di conseguenza la diffusione di disinformazione, di banalizzazioni o fake news.
Altri articoli su questi temi su Tabloid n 3/2023 sfogliabile qui
Che a livello comunicativo qualcosa non stia andando a dovere emerge anche dal fatto che oltre un terzo delle persone (il 34,7%) sia convinta che ci sia un allarmismo eccessivo sul cambiamento climatico. Questo perché anche le fonti ufficiali vengono messe in dubbio, spesso utilizzando prove inconsistenti o dati non chiari, creando un dibattito poco utile e che non riflette affatto le evidenze raccolte dalla comunità scientifica.
Il nuovo modo di informarsi
I giovani, soprattutto quelli appartenenti alla Gen Z, sono fruitori sempre più occasionali di quella informazione classica composta da lunghi articoli di giornale. Che sia virtuoso o meno, preferiscono informarsi attraverso testi brevi o – meglio ancora – piccoli video con frasi a effetto e dal grande impatto emotivo. Insomma, i contenuti tipici di social network quali TikTok o Instagram, dove troppo spesso prevalgono le sparate e gli slogan rispetto alla comunicazione corretta ed efficace, che riporta la complessità delle questioni.
Uno studio di NewsGuard, realtà che si occupa di monitorare la disinformazione in rete, ha stimato che su TikTok un contenuto ogni cinque contenga informazioni errate. Questa tendenza si è evidenziata in tutti gli ambiti, da quelli scientifici come i vaccini fino alle elezioni politiche, tanto da condizionare la credibilità anche delle notizie vere e certificate.
Se da un lato i social media non sono certo nati per favorire la comunicazione scientifica, oggi una parte non piccola del Paese li considera l’unico modo per restare aggiornati in maniera rapida su ciò che accade nel mondo, oltre che per conoscere le novità scientifiche e intercettare le notizie del proprio ambito di studi o professionale. Prediligendo peraltro gli aggiornamenti di pancia rispetto a quelli meno immediati e dalle conseguenze ancora incerte all’atto pratico, quali spesso sono i nuovi risultati scientifici che emergono dai laboratori di ricerca.
Il giornalista scientifico
A tutto ciò si unisce, parlando di scienza, una questione di riconoscibilità (e di riconoscimento) della professione del giornalista specializzato. In termini puramente teorici, il cosiddetto giornalista scientifico ci si aspetterebbe abbia un ruolo centrale nel panorama informativo proprio nel momento in cui i temi di scienza finiscono al centro del dibattito pubblico e sono protagonisti dell’attualità. Tuttavia, in moltissimi casi (non in tutti, per fortuna) anziché rivolgersi ai giornalisti scientifici e avvalersi della loro professionalità, si preferisce invece affidarsi ad altri. Fino ad arrivare al paradosso: nell’occasione in cui il giornalista scientifico potrebbe e dovrebbe fare valere la propria specifica competenza, si tende al contrario a farli sparire del tutto dalla scena, o a relegarli a una posizione marginale. Questo trend è emerso chiaramente in occasione della pandemia di Covid-19: il tema è stato affidato per molti mesi (inclusi quelli oggettivamente più bui dell’emergenza sanitaria) alle grandi firme, agli editorialisti e ai giornalisti specializzati nella cronaca, che si occupano dei temi del momento a prescindere dalla materia in questione. Gli interlocutori dei giornalisti, intervistati od ospiti, erano invece gli esperti, tipicamente scienziati e professori (o medici, nel caso specifico della pandemia) con una fortissima competenza specialistica ma non sempre una altrettanto forte abitudine comunicativa, il cui risultato è stato soprattutto nel 2020 l’avere fatto passare al grande pubblico l’impressione di una comunità scientifica frammentata, rissosa e litigiosa, anche più di quanto effettivamente sia.
Strade e percorsi possibili
Definire quali strategie potrebbero essere messe in atto, da parte della comunità dei giornalisti scientifici stessi, non è semplice e non può che essere il risultato di un processo condiviso. Da un lato ognuno individualmente può fare la propria parte attraverso le redazioni con cui lavora, combattendo – per così dire – per la propria causa personale e di categoria. Gli spazi editoriali per raccontare nel dettaglio le novità scientifiche esistono e rimangono essenziali per cogliere nuove opportunità e garantire una informazione di qualità. Ma il compito del giornalista scientifico si auspica sia ben più articolato e debba essere anzitutto quello di coinvolgere persone anche al di fuori di queste nicchie.
Se la strada da seguire non può e deve essere quella della banalizzazione e spettacolarizzazione a tutti i costi dei contenuti, lo spazio più adeguato in cui il giornalista scientifico può ragionevolmente dare un valore aggiunto è quello dell’apertura di discussioni che a partire da tematiche di tipo scientifico si allargano alla società, all’economia e alla vita di tutti i giorni delle persone. Con autorevolezza e capacità divulgativa. Non è certo un’ipotesi innovativa, dato che una visione di questo genere ha ormai qualche decennio di storia alle spalle, ma è difficile affermare che a ora sia effettivamente concretizzata.
Potrebbe allora essere proprio questo un possibile antidoto alla disaffezione delle persone rispetto alla pratica dell’informarsi in generale e all’informarsi su temi scientifici in particolare. Una terza via rispetto alla polarizzazione dei dibattiti e alla riduzione quasi imbarazzante delle grandi tematiche che coinvolgono la scienza alla forma di pillole video e caroselli social da fruire in un battito di ciglia. Un modo per andare incontro al pubblico, senza scegliere la via facile dell’emotività.