In un mondo sommerso di immagini, il reportage di inchiesta deve non solo proporre contenuti originali ma selezionare temi e fonti a beneficio di chi guarda. Per chi racconta, questo si traduce nel chiarire i criteri delle proprie scelte e nel lasciarsi giudicare dallo spettatore. Come qui spiega un’autrice
di Silvia Lazzaris

Ho iniziato dalla carta stampata e dalla radio. Poi mi sono ritrovata a fare reportage video perché volevo vedere da vicino gli argomenti che trattavo e sentivo il bisogno di dedicare più tempo allo studio. Mi sembrava l’unico modo in cui avrei potuto fare giornalismo per la mia generazione, nella quale ho sempre percepito una diffidenza nei confronti del giornalismo tradizionale. Negli anni ci siamo sentiti preda, più che beneficiari, di un certo giornalismo clickbait. E quella diffidenza oggi è esacerbata dall’onnipresenza di dati e informazioni che consentono di supportare ogni genere di tesi. Nell’audiovisivo ho trovato le risorse e lo spazio – difficili da ottenere dalla carta e dalla radio a meno che non ci si occupi di esteri – per poter dedicare il giusto tempo all’approfondimento.



«Yatapita» è un documentario prodotto da Will Media insieme ad Action Aid e ai fondi europei del progetto Food Wave. Si trova sulla pagina Youtube di Will Media. La regia è di Olga Galati, le immagini di Olga Galati e Nicolò Gasperi
Negli ultimi anni ho tentato di scoprire e disegnare la rete delle interazioni tra scienza e potere, tra le nostre società e gli ecosistemi naturali di cui fanno parte. Ho raccontato il cibo dal punto di vista politico, sociale, ambientale ed economico in una docuserie che si chiama What We Eat e si trova sul canale Youtube di Will Media. I fondi dell’Unione Europea ci hanno consentito di fare una cartografia del sistema alimentare globale e delle sue storture: dalla deforestazione dell’Amazzonia brasiliana alle contraddizioni del porto di Rotterdam, dalla baraccopoli di braccianti a Borgo Mezzanone ai deserti alimentari della California, dagli ulivi colpiti dalla Xylella a una nave che insegue i bracconieri della pesca illegale in mezzo al Mar Mediterraneo. Per il mio ultimo lavoro, Yatapita, sono stata in Tanzania. Lì ho documentato il fenomeno dell’ingiustizia climatica e le richieste di una nuova generazione che pretende compensazioni dalla comunità internazionale: non più come aiuto volontario ma come un proprio diritto.
Anche il documentarista è sotto la lente
Sono sicura che qualcuno non sarebbe d’accordo sull’uso della parola “documentario” per i miei lavori. Si tratta di reportage in cui io sono presente come guida e proxy per chi guarda. I puristi del genere di realtà preferirebbero che l’autore sparisse, che il film desse l’impressione di prendere forma da solo. Eppure credo che oggi il pubblico senta più forte la necessità di scrutinare anche l’autore attraverso l’obiettivo. Per poter contestualizzare la realtà catturata dalle telecamere, serve capire come ragiona chi le accende e direziona. In fondo oggi tutti hanno la possibilità di documentare qualcosa di vero. Non serve più una forte professionalità per tirare fuori un contenuto di importanza giornalistica. Per quello basta un cellulare e infatti siamo sommersi di fonti. Ed è vero anche il contrario: oggi tutti hanno la possibilità di fabbricare qualcosa di falso che però sembra vero. Così il documentarista può assumere un nuovo ruolo. Non è più necessariamente pioniere di contenuti originali ma setaccio dei temi e delle fonti, costruttore di contesto.
Forse anche per questa esigenza negli ultimi anni c’è stata un’espansione della forma, dello stile e dei generi del documentario. Queste novità di linguaggio sono state adottate con entusiasmo per affrontare temi ambientali. Sono forse i temi più importanti del nostro tempo, ma non sono mai la notizia più importante di ogni giorno. Così serve un continuo sforzo di ricerca per trovare narrazioni fresche ed efficaci che riportino questi temi in alto sulla lista delle priorità della nostra società.
Uno spartiacque, ora già datato ma al tempo piuttosto nuovo, è stato il documentario Before The Flood. È uscito nel 2016 e documenta un Leonardo di Caprio che gira il mondo per capirne di più sul cambiamento climatico. Da allora le piattaforme di streaming (dalla generalista Netflix alla tematica Waterbear) hanno incentivato forme simili, che mescolano l’inchiesta con il giornalismo esplicativo e con la cultura pop. Youtube invece, che non pone alcuna barriera all’ingresso né per chi produce né per chi guarda, ha garantito libertà e accessibilità ed è diventato un vasto contenitore di lavoro indipendente e approcci non convenzionali.






«What We Eat» è una docuserie in sei episodi prodotta da Will Media e FoodUnfolded con fondi dell’Unione Europea. Si trova sulla pagina Youtube di Will Media. La regia è di Arturo Vicario, le immagini di Arturo Vicario e Federico Vaccarono
Il documentario a tesi
Ma insieme ai benefici di questi nuovi modelli di distribuzione sono arrivati anche effetti collaterali indesiderati. La differenza tra giornalismo e attivismo ha iniziato a evaporare. Ha preso forma un filone di documentari molto popolari che trattano problemi ambientali e si somigliano per una ragione: il centro attorno a cui gravita l’attività dei loro produttori e autori non è la materia né il metodo, ma il messaggio. Anzi, in questi lavori materia e metodo sono funzionali al messaggio. In produzioni come Seaspiracy, Cowspiracy e What The Health, il messaggio è: dobbiamo diventare vegani. Sono narrazioni chirurgiche, che per la loro semplicità riescono a creare una grande spinta di mobilitazione nel pubblico ma generano solo l’illusione di una comprensione profonda del tema. In questi casi il documentario fallisce nel creare uno spazio per il dibattito e non lascia al suo pubblico la possibilità di formulare conclusioni indipendenti. Presenta invece il suo punto di vista facendosi depositario di una verità incontestabile e genera una sorta di scetticismo dogmatico che può essere direzionato verso qualsiasi fonte tranne il documentario stesso.
Il tema della sostenibilità
Questo fenomeno è intrecciato a un modello di business basato sull’attenzione del pubblico: piattaforme come Netflix o Youtube sono estremamente competitive, e questa competizione intensa per l’attenzione spinge chi fa e commissiona documentari a enfatizzare aspetti sensazionali o controversi delle storie trattate, rischiando di compromettere la completezza e l’obiettività dell’informazione che presentano. E qui si arriva alla questione della sostenibilità economica, forse la sfida più importante per il mondo dei documentari. Alcune piattaforme di streaming offrono opportunità di finanziamento attraverso accordi di licenza, ma con vincoli e condizioni. È anche sempre più diffusa la pratica del cosiddetto “branded content”, ovvero collaborazioni dirette con aziende che finanziano la produzione di documentari in cambio di esposizione del marchio o di un coinvolgimento più diretto nel contenuto. Il problema è che il marchio viene spesso integrato nel tessuto stesso del documentario, attraverso la sponsorizzazione di una particolare narrativa. Se non è gestito con attenzione, un finanziamento di questo tipo può fare perdere credibilità e fiducia nel metodo.
Ma è anche vero che grazie alla rete esistono sempre più mezzi alternativi per produrre documentari. Si fa sempre più ricorso a strumenti come il finanziamento partecipativo (crowdfunding) su Kickstarter o piattaforme simili. Questi modelli, insieme ai fondi per il giornalismo da parte dell’Unione Europea e di diverse fondazioni filantropiche, possono ancora garantire indipendenza editoriale. Se si trovano finanziamenti di questo tipo, Youtube diventa un alleato perché consente a chi fa documentari di trovare un pubblico senza dover passare attraverso i tradizionali gatekeeper dei media, come le reti televisive o i distributori cinematografici. Festival internazionali e piattaforme come Vimeo poi consentono di incontrare i distributori tradizionali alla fine del processo quando il lavoro è fatto e confezionato. Il meraviglioso documentario Terra Contesa di Alex Pritz, che racconta la deforestazione in Amazzonia in contemporanea dal lato degli invasori e da quello degli indigeni che vivono nella foresta, ha ricevuto diversi finanziamenti filantropici per poter essere realizzato in modo indipendente. Gli autori lo hanno prima presentato al Sundance Festival e lì, solo a editing chiuso, National Geographic lo ha comprato.
Ma non dobbiamo andare lontano per trovare esempi di distribuzione alternativa. In Italia, nessun attore tradizionale voleva distribuire il documentario sul caporalato One Day One Day di Olmo Parenti e del collettivo A Thing By. Pareva troppo pesante per quello che cerca il pubblico italiano, dicevano i distributori. Così A Thing By, insieme a Will Media che ne è diventato distributore alternativo, ha pensato di trasformarlo in un film “vietato agli adulti”. Il documentario sarebbe stato mostrato solo nelle scuole che decidevano di iscriversi per la proiezione. Dopo un tour di un mese in giro per più di 500 scuole in Italia e proiettando il documentario davanti a circa 7000 studenti, Will Media ha pubblicato il video online. Non è dietro paywall, ma è possibile fare una donazione spontanea, che a sua volta serve per finanziare una scuola di italiano per le vittime del caporalato in Puglia.
Nonostante le difficoltà, con uno sforzo di immaginazione possiamo trovare molti più modi per intercettare un pubblico con i nostri documentari. Ma in un contesto così frammentato e competitivo, se si vuole fare qualcosa di valore, non basta più essere autori e filmmaker. Bisogna rimboccarsi le maniche ed essere anche imprenditori, narratori di sé stessi, scrittori di risposte a bandi istituzionali, gestori di risorse finanziarie limitate. Per questo credo che l’abilità nel bilanciare la creatività artistica e l’indipendenza giornalistica con una visione imprenditoriale sarà un elemento chiave per riuscire a realizzare lavori di cui andare orgogliosi nel mondo dei documentari indipendenti.