«Fare inchieste è una forma di manutenzione della democrazia»

Intervista a Ferruccio De Bortoli: «La funzione del giornalismo di qualità: far capire a una società che non può vivere delle proprie paure e delle proprie ingiustizie, non può accettarle come ineluttabili e deve avere lo sguardo rivolto verso il futuro»
di Angelo Mincuzzi

Questo articolo è estratto dal numero 1 del 2024 di Tabloid, la rivista trimestrale dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia dedicato ai temi dell’informazione, dal titolo L’inchiesta, anatomia di un genere.



«Il giornalismo d’inchiesta illumina quelle parti della realtà che sono paradossalmente sempre più oscure in una società che invece è sempre più digitale, dove tutto sembra a portata di mano e tutto sembra visto. Ma in realtà non vediamo quasi più nulla e non siamo più in grado di discernere. E invece una democrazia vive proprio sulla capacità del cittadino di capire cosa è importante. Ma se il cittadino è totalmente assuefatto, se è totalmente accecato, non è più un cittadino consapevole e la democrazia muore». Democracy dies in darkness, la democrazia muore nell’oscurità, c’è scritto sotto la testata del Washington Post. Ferruccio De Bortoli non ha bisogno di nominare il quotidiano statunitense che negli anni ‘70 condusse una coraggiosa inchiesta sullo scandalo Watergate fino alle dimissioni dell’allora presidente Richard Nixon. Direttore del Corriere della Sera dal 1997 al 2003 e dal 2009 al 2015 e alla guida del Sole 24 Ore tra il 2005 e il 2009, De Bortoli – infatti – va subito al punto: «La manutenzione di un sistema democratico dovrebbe essere la funzione primaria di un giornalismo di qualità». 

Una difesa della democrazia. È questo, dunque, l’impatto che le grandi inchieste giornalistiche sortiscono?
Partiamo da Wikileaks e dai Panama Papers. Intanto, che cosa dimostrano? Che – anche con metodi discutibili di acquisizione di documenti e di informazioni – un sistema democratico ha in sé gli anticorpi che sono in grado, se c’è una stampa libera, autorevole e preparata, di mettere in discussione qualsiasi potere. E questo è un elemento di forza di una democrazia, non di debolezza.

Quando si indeboliscono le democrazie? 
Si indeboliscono quando non si fanno i conti con la storia, quando si accantonano e si mettono sotto la superficie o sotto il tappeto i problemi irrisolti. La funzione salvifica di un’informazione di qualità è quella di porre davanti alla classe dirigente e all’opinione pubblica dei propri Paesi le verità scomode, perché ci sono sempre tante ragioni per non pubblicare e per non fare qualcosa. Nella mia esperienza mi sono sempre trovato di fronte a buone ragioni per non fare e per non andare a indagare. Ma sono sempre state pessime ragioni, alla fine, perché poi se non ci si occupa di un problema importante, diventa talmente grave da essere irrisolvibile. 

Qui entrano in gioco la stampa e il giornalismo d’inchiesta?
Questi grandi fatti, pur nascendo al di fuori dall’albero tradizionale del giornalismo, alla fine hanno avuto bisogno dei grandi quotidiani, dei giornalisti professionisti, addirittura riuniti in pool. Quelle notizie sono diventate inchieste, hanno avuto credibilità e autorevolezza proprio perché sono passate attraverso un’intermediazione professionale di giornalisti di qualità e di giornali con una storia. Questo ci deve insegnare ciò che è avvenuto da Wikileaks ai Panama Papers. Alcune delle grandi cose che hanno turbato l’opinione pubblica negli ultimi anni derivano dall’attività di inchiesta giornalistica di qualità. Per fare questo, però, bisogna investire non soltanto in risorse professionali ma anche nella difesa della qualità, dell’onorabilità e della dignità dei giornalisti che sono impegnati nelle inchieste. 

In che modo?
Non li si può abbandonare al primo errore. Gli errori si commettono. Degli errori si chiede scusa ma non si può pensare poi che coloro che fanno le inchieste possano essere il bersaglio della prima forma di difesa del potere. Che è quella di dire che sono tesi precostituite, oppure che qualcuno ha avuto l’interesse a promuovere alcune inchieste per fini esclusivamente di potere. Una delle malattie di questo Paese è che la classe dirigente, ma anche per certi versi la pubblica opinione, ritengono l’informazione un male necessario. Dobbiamo superare questa barriera culturale. Dobbiamo considerare la trasparenza un valore e l’informazione una funzione pubblica di grande importanza, non un fastidio. Non dobbiamo coltivare il retropensiero che se a un certo punto non si parlasse di uno specifico argomento sarebbe più facile risolverlo. Perché questo è quello che mi hanno sempre detto: «Se tu non ne parli sarà più facile risolvere quella situazione». Al contrario: se tu ne parli, fai emergere l’importanza di quel problema, metti la classe dirigente nella condizione di poterlo affrontare, forse ancora con la possibilità di poterlo risolvere. Tutto ciò di cui non ci occupiamo, alla fine diventa un difetto genetico della nostra democrazia. E non è più risolvibile. Nella storia del nostro Paese ci sono troppi misteri, che riguardano la vita pubblica, il terrorismo, i servizi deviati. Sono misteri che rappresentano ancora uno spazio infinito per il giornalismo d’inchiesta e non soltanto per gli storici. Perché quello è un pezzo di verità che ci manca ed è come se noi andassimo in giro con gli occhi bendati perché non aver risolto dei problemi storici vuol dire non essere capaci di guardare al futuro».

Le inchieste vivono da un po’ di tempo un momento di difficoltà, che è un po’ lo specchio anche della fase di sofferenza della stampa italiana. È così?
Intanto è chiaro che se fai delle inchieste, specialmente nell’ambito economico, urti delle sensibilità e attacchi di fatto delle situazioni di potere. Ed essendo i giornali in difficoltà dal punto di vista economico con una barriera tra la redazione e la pubblicità molto sottile, se non in qualche caso del tutto inesistente, è chiaro che forse c’è un po’ di timore.  Se chi fa informazione non ha i conti a posto e vede assottigliarsi i propri ricavi, a questo punto forse si muove con una certa cautela. Tuttavia penso che anche l’investitore pubblicitario non abbia alcun interesse a investire in un giornale che è addomesticabile. Ha l’interesse a investire in un giornale di cui è provata la credibilità, l’autorevolezza. Perché sennò di fatto svaluta il proprio messaggio pubblicitario. Penso che i giornali non dovrebbero accettare il ricatto del ritiro della pubblicità. Dopo di che dobbiamo porci il problema se la manutenzione della nostra democrazia rappresentativa non sia messa in dubbio dal fatto che esistono sempre più parti della nostra società che per convenienza, per paura, per pigrizia, non andiamo ad indagare. 

Per esempio?
Perché ci stiamo deindustrializzando? Perché abbiamo perso i grandi gruppi imprenditoriali? Perché il più grande gruppo industriale del Paese se n’è andato – e questo riferimento va alla Fiat – senza che ci sia stata una discussione? Negli altri Paesi ci sarebbe stato un dibattito ampio. Qui non se ne è minimamente parlato. Perché continuiamo ad accettare di avere un’evasione fiscale così estesa? L’abbiamo accettato, perché il nero è considerato sostanzialmente una via di sopravvivenza. Poi possiamo andare nell’ambito sanitario a vedere il rapporto tra pubblico e privato. Ce ne sarebbero tantissimi di spunti.

Che però spesso non vengono colti dai giornali.
Dobbiamo anche far sì che crescano delle professionalità, che ci siano delle direzioni che incoraggino giornalisti a fare delle inchieste scomode e non che ne abbiano timore. Se penso alla Rai, la tv pubblica dovrebbe essere orgogliosa di avere una trasmissione come Report. Non dovrebbe dare la sensazione di non poterla gestire. Se un tuo prodotto è di qualità, tu che sei l’editore, devi esserne fiero e non dire: «Facciamo questo prodotto di successo, però tutto sommato questo prodotto non va». È chiaro che in questo modo tu non incoraggi un giornalismo d’inchiesta. Lo sopporti. Dopodiché, per carità, ci sono gli errori, ci sono anche le strumentalità. Il giornalismo d’inchiesta ha avuto però pagine memorabili di grande coraggio in cui le persone hanno persino perso la loro vita. Certo che, se invece il giornalismo è qualcosa di comodo, allora è una variabile della comunicazione pubblico-privata e di potere. Ma ha un’altra funzione. Il giornalismo d’inchiesta tiene viva l’anima del giornalismo come missione civile. Sentiamo dire da destra a sinistra che tutto sommato il giornalismo d’inchiesta se non c’è non è una perdita. Questa è una semplificazione della realtà. Però la semplificazione porta al semplicismo e poi dal semplicismo all’anticamera della dittatura.

Quali sono state le inchieste che hanno avuto un impatto maggiore sulla vita civile del nostro Paese?
Diciamo tutta la stagione dei diritti, dal divorzio all’aborto, alla legge 180, alla sanità. E poi tutto il tema dei diritti del lavoro, ma potremmo fare una lista infinita. Insomma, prendiamo tutti i diritti soggettivi che sono tutelati dalla prima parte della nostra Costituzione, li mettiamo sulla colonna di sinistra e sulla colonna di destra possiamo collocare le grandi inchieste e le grandi opinioni scritte da giornalisti di qualità che hanno rivolto l’opinione pubblica verso il futuro. Perché questa è la funzione del giornalismo di qualità: far capire a una società che non può vivere delle proprie paure, dei propri difetti, delle proprie ingiustizie, non può accettarle come qualcosa di ineluttabile ma deve avere lo sguardo rivolto verso il futuro. Invece noi pensiamo che la miopia comoda di un Paese in declino demografico possa essere preferibile alla sveglia che arriva da un’inchiesta per sua natura scomoda. E le inchieste sono utili se sono scomode e se interrompono il flusso della quotidianità più comoda e a volte più passiva.

È giusto porsi il dilemma dell’impatto che un’inchiesta giornalistica potrà avere sull’opinione pubblica, sulla società o sulla politica, nel momento in cui si comincia a scriverla?
È chiaro che il rischio delle inchieste è che possano favorire qualcuno. A volte finiscono persino per danneggiare ingiustamente qualcuno. Quando tu parli di un’impresa puoi mettere anche in pericolo il posto di lavoro di persone del tutto innocenti rispetto alle vicende di cui si parla. È chiaro che possono esserci delle conseguenze negative. Io però mi porrei sempre questa domanda: «Ma se io non pubblico niente, le conseguenze sono più negative o più positive?». Io penso che se non pubblico niente, sempre che si tratti di qualcosa di reale, le conseguenze sono molto più negative di quanto non possano essere negativi gli effetti di una buona inchiesta. Perché quando i riflettori si spengono, la patologia di un sistema trova più vigore. Le forze negative hanno più spazio e possono operare in maniera indisturbata. 

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