«I lettori sono nostri complici»

Luca Sofri, fondatore e direttore del Post, racconta come oggi il giornale digitale abbia superato 60.000 abbonamenti grazie al tono confidenziale di una chiacchierata tra persone che «fanno qualcosa insieme»
Di Francesco Gaeta

Tra i fattori che hanno portato Il Post.it a essere un caso di scuola su come si possa o si debba fare un giornale digitale vi è la capacità di costruire e manutenere una community. Per dirla con le parole del fondatore e direttore Luca Sofri l’attitudine ad alimentare «un rapporto complice con i nostri lettori». Questa complicità si traduce oggi in oltre 60.000 abbonamenti, che consentono al giornale di non dipendere interamente dalla pubblicità, di avere risorse per ingrandire la redazione (circa 25 i giornalisti assunti) e di aggiungere prodotti per i propri lettori: oltre agli articoli, podcast, libri, eventi offline. Dal 2019, anno di introduzione degli abbonamenti (quello annuale costa 80 euro), il Post ha dunque imboccato un modello di sostenibilità basato sulla membership, fatto inedito per l’Italia. Segno che la formula dell’Explanatory Journalism, delle «cose spiegate bene», è diventata un fattore distintivo che si è tradotto in valore monetario.

Quali sono state le leve per arrivare a 60mila abbonamenti? 
Ci dicono che siamo innovativi, in realtà abbiamo fatto delle cose vecchie, cioè abbiamo spiegato le cose bene. Non è una cosa così straordinaria, anzi è molto antica. Il punto è che questa cosa non c’era in giro. Abbiamo dato risposta – e anche un po’ creato e alimentato – a una domanda che non aveva risposta. 

Cosa altro ha aiutato?
Il fatto di partire da zero, piccoli e con rischi limitati. Se tu fin dall’inizio fai un giornale in un determinato modo, cioè senza occuparti troppo di chi ti legge, è ovviamente molto più difficile, dopo, indirizzarlo verso la creazione di un rapporto di “fiducia complice” con i lettori. Oggi la comunicazione della “complicità con il lettore” è stata presa in prestito anche da altre testate. C’è anche un po’ di pigrizia in questa retorica della difesa della verità dalle fake news. Noi abbiamo cominciato a lavorare su quella cosa lì da subito, con una comunità molto ridotta. Partire piccoli ci ha consentito di curare fisicamente il nostro rapporto con i lettori, rispondere e comunicare moltissimo, spiegare le cose che facevamo. Abbiamo colmato un bisogno insomma.

Cosa c’è esattamente dentro questo bisogno?
Non soltanto una domanda di un certo tipo di informazione, ma un desiderio di un qualche tipo di partecipazione in generale. Questa cosa non riguarda solo il Post. Oggi mancano luoghi di partecipazione e di appartenenza. Quelli tradizionali non ci sono più e se ne creano di altri, possono essere una trasmissione televisiva come Propaganda Live oppure eventi come il Festival di giornalismo di Internazionale. Le persone sono desiderose e gratificate di partecipare a qualcosa in cui si riconoscono. L’importante è che non si sentano soltanto dei destinatari ma appunto partecipanti a un progetto comune. È un po’ lo stesso meccanismo della gente che va allo stadio, ma con tutto il rispetto dello stadio, intorno a cose un po’ più consistenti.

Ora che siete cresciuti cosa è cambiato in questo lavoro di manutenzione della community?
Continuiamo a farlo, ma è più complesso creare una comunità su scale molto maggiori, dove le identità si sfilacciano. Guarda che non è un affare del Post, è un tema che riguarda la politica e tutte le questioni sociali: quando devi aggregare più persone diventa più difficile. Per i grossi gruppi editoriali è addirittura un rischio fare una comunicazione più verticale, rischi di perderti dei pezzi di pubblico. Oggi, dicevo, anche per noi è più difficile proprio perché abbiamo un pubblico più esteso, con profili identitari differenti e vari, e bisogna da una parte avvicinarlo ai nostri modi di fare le cose e dall’altra raggiungere persone che magari non sono così coerenti con lo zoccolo duro dei nostri lettori originari.

Una riunione di redazione al Post

È come passare da una boutique a un negozio sempre più pieno di clienti, con qualche affanno in più per chi sta nel negozio.
Sì, esatto. Tempo fa un amico giornalista di un grosso quotidiano mi chiese se questo approccio sartoriale del Post potesse essere replicato anche in un grande giornale, e io gli dissi che mi sembrava molto difficile, perché, come dicevo, per crescere bisogna diventare più industriali, e non si riesce più a mantenere quel livello su misura. Allora devi fare una scelta, puoi anche decidere di rimanere sartoriale e fare le cose in quel modo lì.

E qual è la vostra scelta?
Cerchiamo ancora di coltivare quell’approccio sartoriale ma per farlo è necessario lavorarci molto di più, perché siamo diventati molto più grandi. Però continuiamo a beneficiare del capitale accumulato quando lo abbiamo fatto molto più insistentemente e capillarmente.

Da lettore complice vedo due elementi che rendono il Post sartoriale. Un approccio “da conversazione” tra amici all’aperitivo, confidenziale. E un meccanismo che chiamerei da “cucina a vista”: i lettori sono informati anche sul modo in cui si arriva a informarli. 
Una cosa che aggiungerei è questa: noi abbiamo sempre fatto il Post immaginando che i nostri lettori fossero simili a noi che lo facevamo. Un fattore importantissimo per riuscirci è stato scegliere bene le persone che hanno fatto e fanno il Post, non solo per bravura e qualità, ma anche per la sintonia intorno a questo modo di fare le cose, a questa idea di complicità, di cose spiegate bene. Faccio il mio stesso avvocato del diavolo: questa scelta è anche un rischio, significa limitare la diversità all’interno della redazione. E poi è anche vero che le persone a cui ti rivolgi – soprattutto quando cresci – sono in parte diverse sotto moltissimi aspetti, e devi saperlo se ti interessa raggiungere pubblici ulteriori. 

C’è stato un momento in cui avete verificato questa “diversità” del pubblico?
Si, è stato durante la pandemia. In quel periodo la chiarezza, l’accuratezza e l’affidabilità, che erano i tratti distintivi del nostro modo di lavorare, sono diventate una questione di vita di morte. Per quelle caratteristiche il Post è diventato importante e conosciuto da una comunità molto più ampia di persone che volevano capire, essere rassicurate o comunque essere informate in una maniera meno convulsa e meno contraddittoria di quella delle altre testate. Erano persone estranee alle nostre comunicazioni, ai nostri modi di fare le cose: la mia impressione è che i quotidiani siano fatti con l’approccio che i lettori siano persone diverse da noi, e questo sottintende un po’ di paternalismo, ma anche un giusto tentativo di essere universali e distanti.  Questo perché i quotidiani hanno bacini di lettori tali per cui è inevitabile pensare che non siano uguali a te che scrivi. Oggi non lo pensiamo neanche noi, ma continuiamo a fare informazione come se lo fosse. E questo approccio meno distante arriva alle persone.

Proprio a ridosso della pandemia, nel 2019, c’è un momento in cui questa comunità si conta: partono gli abbonamenti: oggi sono oltre 60.000. Ti aspettavi un esito come questo o temevi qualcosa di diverso?
Ci avevamo ragionato e lavorato da tempo, dunque eravamo abbastanza rassicurati sulla disponibilità dei nostri lettori a partecipare al sostegno economico delle cose che facevamo. I principali timori erano sul funzionamento tecnologico della piattaforma che è stato complicato soprattutto per le risorse che avevamo. Poi le cose sono andate molto meglio delle aspettative.

Ma è corretto poi parlare di abbonamenti? La gran parte dei contenuti è infatti disponibile anche a chi non è abbonato
Sono due gli incentivi a sostenere il Post che abbiamo comunicato fin dall’inizio. Il primo: partecipare a un progetto di informazione che le persone ritengono di qualità. Il secondo: riservare alcuni contenuti e servizi solo a chi si abbona. Inizialmente erano vedere il Post senza pubblicità, poter commentare gli articoli, ricevere la nostra newsletter quotidiana, che aveva già una certa discreta popolarità. Si sono aggiunte nel tempo altre newsletter, dei podcast e delle condizioni di privilegio rispetto agli eventi. Nei fatti, per molto tempo, il primo fattore è stato prevalente: le persone si sono abbonate al Post per sostenere il Post. Quello che ha un po’ cambiato è stata Morning, la rassegna stampa del vicedirettore Francesco Costa: c’è oggi una quota rilevante di persone che si abbonano per ascoltare Morning

Francesco Costa, vicedirettore del Post e autore della rassegna stampa Morning

Ci sono dei modelli a cui ti sei ispirato per questo modello di membership?
Non mi risulta che in Italia ci sia qualcuno che abbia fatto una cosa del genere. E all’estero l’unico esempio importante è stato il Guardian, che però incentiva molto il contributo una tantum anche in misure diverse e più libere. A noi da più garanzie la formula semplificata dei due tipi di abbonamento, mensile e annuale. Aggiungo che, siccome la nostra priorità è che i nostri contenuti raggiungano più persone possibile, non abbiamo mai messo in conto un paywall per limitare l’accesso.


Per quanto riguarda invece il tono confidenziale e complice con i lettori c’è qualche testata anche internazionale a cui vi siete ispirati?
Anche in questo caso la risposta è no. Il modello da cui abbiamo più ereditato questo approccio è uno dei mondi da cui venivo io, quello dei blog che hanno avviato la costruzione su scale più piccole di un rapporto molto personale con i lettori. I blog, che oggi vengono trattati come una cosa del passato, in realtà hanno lasciato lì tutto quello che è oggi Internet, innanzitutto il modello di timeline che è quello dei social network di oggi, cioè l’idea di leggere e scorrere una serie di post in successione senza particolari altri formati di impaginazione. E l’altra cosa di cui si è tornato a parlare moltissimo negli ultimi anni per via di certi podcast è la costruzione di un rapporto molto frequente e personale con certi singoli autori. Io credo di averla ripresa da quella esperienza lì questa idea. Il primo annuncio che stava nascendo il Post è stato sul mio blog, circa 13 anni fa. L’approccio di cui stai parlando – «facciamo una cosa insieme» – era già cominciato prima del Post, e proprio quel giorno lì.

Una delle leve di questo «fare le cose insieme» è la vostra newsletter quotidiana. È una rassegna dei pezzi pubblicati, ma anche un pezzo in sé, come una chiacchierata tra amici, infarcita di aneddoti. Com’è nata l’idea e come la si alimenta oggi? 
È stata un’idea mia, quel tono di cui parli è una cosa più caratteriale che tecnica o commerciale. E se pensi che ormai quella newsletter arriva a circa 30.000 persone abbonate è diventata anche sproporzionata: ci sono persone magari appena abbonate al Post che si trovano dall’oggi al domani a ricevere una newsletter che dà per inteso una serie di cose a cui inevitabilmente sono estranee. La cosa che cerchiamo di fare, e viene in maniera spontanea, è di essere comunque accoglienti, di evitare l’effetto biblioteca. All’inizio ti senti fuori posto. Noi cerchiamo di fare in modo che quando entri in biblioteca tu abbia l’impressione che non ci sia tutto questo silenzio, che tu ti possa prendere da bere. Non è una cosa di tecnica, è venuta da sé. Oggi la newsletter è fatta da un gruppo di persone che è entrato in quelle scarpe lì o è arrivato con quella misura di scarpe lì. 

Poco fa parlavi di Morning che è diventato in qualche modo un prodotto di culto, è anche un luogo di commento da parte dei lettori, quindi anche un modo per tastare il polso su ciò che fate… 
Sì è uno strumento per Morning ma più in generale per il Post. Francesco condivide spesso quei feedback e quelle testimonianze e quei racconti con chi fa il Post. È un modo per raccogliere delle ulteriori informazioni, per avere appunto delle tracce di cose che stanno succedendo che magari sono fuori dai nostri radar, quindi assolutamente sì.

Un altro luogo per ascoltare i lettori sono i social. 
Sì certo, anche se abbiamo gestito con molta autonomia questo rapporto. Nel senso che non ci siamo mai affidati straordinariamente ai social network e questo ci ha limitato su certe cose. Altre testate digitali hanno fatto grandi investimenti sui social con eccellenti risultati dal punto di vista della presenza e della visibilità, ma sono poi rimasti molto condizionati dai volubili criteri degli algoritmi. Anche semplicemente per mancanza di risorse, noi non siamo mai stati straordinariamente reattivi rispetto alle ultime tendenze. Quando per esempio Facebook ha deciso di promuovere video noi siamo stati lenti e quando abbiamo davvero cominciato a metterci la testa (con molta cautela) il trend era già superato. Noi semplicemente abbiamo usato e usiamo ancora i social network per essere in comunicazione, diciamo con altre persone e altri pubblici, facendolo sempre in maniera coerente con lo stile del Post. Tendiamo a mantenere lo stesso tipo di approccio e di linguaggio.

A proposito di pubblico riusciamo a dare una stratigrafia della community del Post?
Dicevamo prima che immaginiamo i lettori del Post un po’ come noi. Essendo la nostra redazione, direttore a parte, composta da trentenni con qualcuno che si avvicina ai 40, questo crea una maggiore continuità con un pubblico di quell’età. Un fattore che ha contribuito è stato sicuramente l’investimento sullo spiegare le cose bene e metterle in un contesto. Noi l’abbiamo fatto come scelta universale, ma certamente a beneficiarne sono state le persone più giovani, che avevano bisogno di informazioni e contesti per capire le cose che succedono e vengono raccontate dagli altri dandole per scontate. Quindi abbiamo dei lettori giovani, molto più al Nord e molto più nelle grandi città. 

Cosa pensate di fare per uscire da questo perimetro?
Affidarsi a eventuali redazioni o collaborazioni esterne per un progetto che ha una sua coerenza come il nostro non è facile. Ecco, qui sta una differenza con altre testate nazionali: il Post è un progetto con una grandissima coerenza interna, mentre altre testate, che pure hanno una loro identità, di fatto sono raccoglitori di modi di raccontare le cose e di contenuti di autori diversi, con modi e approcci molto diversi e distinti tra di loro. Questo significa da un lato una maggiore varietà, dall’altro una minore coerenza. Per noi la coerenza ha molto funzionato. La devi coltivare e mantenere, ma è complicato e anche se vuoi limitante. Ci sono cose che si possono fare, e che anche a noi sembrano buone e interessanti, ma non sono in sintonia con le cose come le facciamo noi.

2 commenti su “«I lettori sono nostri complici»”

  1. Interessante.
    Ma spiazzante leggere un’intervista a Luca Sofri con errori ortografici e grammaticali!
    Da abbonata de il.Post, è uno dei motivi per cui lo apprezzo.

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