Carcere e giornalismo: scrivere per sconfinare

L’esperienza di Ristretti Orizzonti, il giornale scritto dalle persone detenute nel carcere di Padova: oltre le narrazioni dominanti, accorciare la distanza tra “fuori e dentro” e ridare complessità alle notizie che l’informazione “tradizionale” ha semplificato

Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti

Ristretti Orizzonti è una rivista bimestrale di 48 pagine, ogni anno escono sei numeri più un numero speciale, dedicato a un tema particolare. Il primo numero è uscito nel 1998. La redazione si trova nella Casa di reclusione di Padova ed è formata da persone detenute e volontari. Una piccola redazione esterna cura il progetto di confronto con le scuole e la News Letter quotidiana “Ristretti News”. Ornella Favero ne è la direttrice.

I “ristretti” nel linguaggio del carcere sono i detenuti: allargare gli orizzonti ristretti della galera è stato il primo obiettivo che ci siamo dati, in questa redazione di volontari e detenuti nata nella Casa di reclusione di Padova con l’idea di fare un giornale che parlasse di pene, di carcere, di reati in modo diverso da come siamo abituati a vedere sui giornali, in televisione, nei social. 

I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi: questa è la società con cui dobbiamo dialogare, fatta di uomini e donne che per lo più sono convinti di appartenere alla categoria delle persone sicuramente buone e perbene. E invece noi con il nostro giornale raccontiamo che i confini tra il bene e il male non sono così ben definiti, e che basta un niente per “sconfinare” e trovarsi dall’altra parte. La nostra sfida è proprio accorciare la distanza fasulla, illusoria tra il “mondo dentro” a quello fuori.

A Ristretti Orizzonti lo facciamo prima di tutto con il progetto Scuole e carcere. Educazione alla legalità. Un progetto in cui le persone detenute parlano poco del carcere, e molto di più di come è facile finirci dentro, di tutti quei comportamenti, quelle relazioni sbagliate, quei piccoli rischi che alla fine sfuggono al controllo e portano al reato. Perché il reato non è sempre una scelta, spesso è uno scivolamento in situazioni, che poi non si è in grado di gestire, ed è per questo che le narrazioni delle persone detenute rappresentano per i ragazzi delle scuole un modo per vedere nella realtà le conseguenze di certi comportamenti, e allenarsi così a pensarci prima, cosa che non ha saputo fare chi ha commesso reati. Il nostro progetto infatti lo chiamiamo «un allenamento a pensarci prima», ed è lì che le “narrazioni del male” diventano un dono che le persone detenute fanno alla società, mettendo a disposizioni il peggio della propria vita a dei perfetti sconosciuti perché quel racconto possa servire a prevenire altro male. Questa fiducia profonda nel potere delle narrazioni, anche le più difficili come quelle degli autori di reati particolarmente violenti, è in fondo il cuore del lavoro di Ristretti. 

Spezzare la catena del male

Quello che abbiamo capito in redazione è che bisogna evitare la trappola del vittimismo, che scatta quando chi entra in carcere da colpevole, se trattato in modo poco umano, comincia a sentirsi inevitabilmente una vittima. Proprio per uscire da questi meccanismi la scelta fondamentale di Ristretti è di occuparsi sì delle persone detenute, ma di aprire anche con le vittime dei reati un confronto profondo sul tema della assunzione di responsabilità. Agnese Moro, che ha avuto il padre ucciso negli anni della lotta armata, ha definito la nostra redazione come «la possibilità di un incontro tra persone che non dovrebbero teoricamente mai incontrarsi, e anche un luogo in cui si possono rimuovere un po’ le barriere nell’incontro con sé stessi, quindi grazie per questo lavoro che ci aiuta a non tifare per gli uni o per gli altri, ma a tifare insieme per la possibilità di farcela». Che a “tifare per la possibilità di farcela” siano vittime e autori di reato insieme è spiazzante per quella parte della società, che giustifica la sua richiesta di tanta galera dicendo di agire in nome delle vittime. Ma ci sono, per fortuna, sempre più vittime scelgono il dialogo con gli autori di reato proprio per “spezzare la catena del male”, nella piena consapevolezza che rispondere al male con altrettanto male non potrà mai generare del bene.

La pena rabbiosa e la pena riflessiva

Il paradosso del nostro giornale è che noi dobbiamo lavorare per ridare complessità alle notizie che l’informazione “tradizionale” ha brutalmente semplificato. «Marcire in galera fino all’ultimo giorno» per esempio è la ricetta oggi più facile, la nostra sfida è quella di raccontare a una società spaventata che tanto carcere serve solo a rendere peggiori le persone. 

Nel nostro Paese è invece ancora diffusa la convinzione che la pena debba fare più male possibile. E così ti trovi davanti a storie di persone entrate in galera da giovani con pene pesanti e che poi in carcere hanno vissuto rabbiosamente e si sono ulteriormente rovinate la vita, come Raffaele D., che di sé racconta: «Ho girato 12 carceri in 15 anni senza una sosta, fino a oggi, che di anni ne ho 37. E così sono diventato un fascicolo vivente». 

Quando una persona entra in carcere e viene trattata come un bambino, infantilizzata, privata della possibilità di decidere qualsiasi cosa, anche l’ora in cui farsi la doccia, il carcere fa vivere questa persona a “pane e rabbia” e la punisce con una aggiunta di pena che va ben oltre quella che dovrebbe essere davvero la condanna, cioè la privazione della libertà.  La società deve essere aiutata a capire che la pena scontata in modo rabbioso fa uscire solo persone incattivite. Al contrario, essere trattati con umanità e rispetto mette le persone di fronte alla loro responsabilità e le costringe a riflettere sulle loro scelte sbagliate. Mi viene in mente un giovane detenuto che a un incontro con gli studenti ha esordito dicendo «Grazie perché mi fate sentire colpevole». È come se quel ragazzo avesse sgombrato il campo dalla rabbia e smesso di cercare alibi per i suoi disastri, e avesse finalmente accettato di fare i conti con la sua responsabilità.

Il punto è che oggi, in carceri pesantemente sovraffollate e con personale insufficiente, sono sempre di più i detenuti che non trovano ascolto, non sono in grado di riflettere su sé stessi e non hanno risposte alla loro disperazione se non quella estrema del suicidio. Ecco, alla fine il primo e fondamentale motivo di esistere di Ristretti Orizzonti è fare di tutto perché più nessun detenuto sia trattato come un fascicolo vivente.

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