Perché un’inchiesta non finisce al momento della pubblicazione. La serie #LeManiSullaRipartenza realizzata da Irpi Media sul PNRR – e di cui parliamo nel nuovo numero di Tabloid – è stata finanziata da una campagna di advocay di The Good Lobby: l’indagine e la pubblicazione è durata due anni. Ecco quali parametri sono stati adottati per valutarne gli impatti al momento della progettazione e anche dopo
di Francesco Gaeta
Francesco.Gaeta@odg.mi.it
Il 30 giugno di tre anni fa, mentre nell’aula di Montecitorio si discuteva del PNRR, qualcuno in piazza distribuiva uno strano giornale di carta. Si chiamava Senno di poi e raccontava il destino del Recovery Fund visto dal 2042. «Dovevamo ripartire e rilanciare, invece siamo rimasti impantanati nella palude dei conflitti di interessi e delle lobby opache» si leggeva sulla prima pagina. Era un giornale distopico, arrivava cioè da un futuro immaginario. A distribuirlo erano gli attivisti di The Good Lobby (TGL).
Fondata nel 2015, TGL è una organizzazione che intende «dare voce ai progetti della società civile», influenzando le decisioni pubbliche con iniziative di advocacy. «Siamo promotori di mobilitazione» spiega Martina Turola, Head of Communication dell’organizzazione. The good lobby (TGL) progetta e gestisce campagne di opinione pubblica volte ad assicurare trasparenza alle decisioni politiche sui temi chiave della cittadinanza. In quest’opera di pressione sui decisori pubblici, TGL non produce solo giornali distopici per far parlare di sè, ma collabora anche con testate giornalistiche per parlare di cose rilevanti.
A fine 2021 ha infatti finanziato la serie di inchieste di Irpi Media #Lemanisullaripartenza, dedicata al PNRR e a cui abbiamo dedicato un articolo di Tabloid qui. In un paio di mesi sono stati raccolti 17.000 € attraverso due canali: una donazione da parte dell’azienda Patagonia, sensibile ai temi ambientali e alle voci di spesa del PNRR su questo tema, e una campagna di crowdfunding tra i simpatizzanti dell’organizzazione. Con 927 donatori sono stati raccolti 7.500 euro sul totale. La cosa ha reso possibile il lavoro di due giornaliste che per un anno si sono dedicate a documentare i conflitti di interesse che condizionano l’uso dei fondi e a fare luce sulle attività di lobbing dei soggetti coinvolti nel Piano. Secondo Laura Ghisellini, content manager e digital fundraiser di TGL, «l’obiettivo dell’operazione era non solo informare ma anche sensibilizzare, coinvolgere, attivare».
L’idea che una associazione che fa lobbying finanzi un progetto giornalistico pone alcuni temi a nostro avviso di rilievo. Il primo è come garantire un allineamento degli obiettivi tra chi intende mobilitare – cioè appunto vuole «sensibilizzare, coinvolgere, attivare» – e chi ha per mestiere quello di informare, cioè mettere sul tavolo gli elementi di un problema senza avere tesi ma ipotesi da sottoporre a verifica. Detto in altri termini: a quali condizioni può esistere un “giornalismo ingaggiato (e per questo finanziato) su una buona causa” che in questo ingaggio mantenga autonomia su modi, tempi e obiettivi dell’inchiesta?
Secondo quanto spiegano Turola e Ghisellini non c’è che conoscersi, fidarsi del metodo di ciascuno, garantirsi reciproca autonomia e rispettare tempi e modi del lavoro altrui. «Dal nostro punto di vista è stata una scommessa nuova, rilevante e necessaria. A noi ha permesso di acquisire dati e competenze che non avremmo avuto le forze e il metodo per portare avanti da soli. Non era tutto qui, ovviamente: il nostro obiettivo era soprattutto alzare la sensibilità collettiva sul tema del lobbying e del conflitto di interessi, che in un Piano da 191 miliardi hanno un enorme impatto per la collettività».
Nonostante i tentativi di regolamentare i rapporti tra i portatori di interessi e i decisori pubblici, l’Italia è ancora sprovvista di una normativa organica sull’attività di lobbying. «Serve una regolamentazione per rendere più trasparenti i processi decisionali, e per allargare la platea degli stakeholder in grado di offrire al decisore pubblico dati, informazioni, punti di vista che lo aiutino a valutare l’impatto potenziale delle sue scelte». Questo permetterebbe di «rendere più conoscibili i processi decisionali, e aumentare la fiducia nei confronti delle istituzioni».
Una lacuna normativa esiste anche sul tema del conflitto di interessi tra decisori pubblici e mondo dell’impresa. Gli eletti e i nominati dovrebbero dichiarare gli interessi privati potenzialmente in conflitto con la loro attività pubblica. E andrebbero «introdotte misure per frenare il fenomeno delle porte girevoli (revolving doors) in politica, prescrivendo un periodo di raffreddamento (cooling off) di almeno due anni prima che si possa effettuare il “salto” dal settore pubblico a quello privato».
Come misurare l’impatto
Per The Good Lobby era importante rendere conto ai propri finanziatori dell’impatto raggiunto dall’inchiesta. Occorreva chiarire in origine gli obiettivi e monitorarne gli esiti. È un tema che si pone sempre in occasioni di partnership come questa. Nel 2022, il Center for Comparative Media School of Communication and Media della Montclair State University ha censito 155 collaborazioni intersettoriali tra giornalisti e organizzazioni della società civile. Undici di queste coinvolgono organizzazioni non profit e organizzazioni giornalistiche (testate, collettivi di giornalisti) basate in Italia e focalizzate sull’Italia stessa. Sulla scia di queste esperienze, The Good Lobby ha dunque messo a punto un modello per tracciare l’impatto della serie #Lemanisullaripartenza.
La matrice di impatto ha inquadrato i potenziali effetti – positivi e negativi – sul pubblico (es. numero di pagine viste e commenti); sulle organizzazioni coinvolte nella collaborazione (effetti dell’inchiesta per chi la realizza); sul mondo della politica (eventuali audizioni o interpellanze scaturite dall’inchiesta); sulle organizzazioni esterne alla collaborazione (convegnistica, richieste di consulenza). «Sapevamo in partenza – spiegano Turola e Ghisellini – che non sarebbe stato possibile assegnare ad ognuna di queste voci un dato quantitativo. Ma una valutazione qualitativa, a serie conclusa, è possibile farla. In sintesi: abbiamo dato fastidio e abbiamo avuto sostegno sul nostro lavoro per varare nuove norme sul lobbying e sul conflitto di interesse. Siamo stati anche auditi in Parlamento».
La difficoltà è stata semmai conquistare nuovo pubblico, uno degli obiettivi che ci si era prefissati. «Poche testate hanno ripreso l’inchiesta di IrpiMedia, perché ha prevalso il vizio tutto italiano di non dare conto del lavoro di un concorrente».
Ci sono molte lezioni da capitalizzare da questo esperimento per eventuali nuove iniziative.
«Noi dovremo imparare a usare meglio la comunicazione in termini di advocacy per fare nascere microcampagne efficaci su singoli aspetti di un tema. Sarà importante anche incentivare segnalazioni dal basso che diano input all’inchiesta: è un punto delicato perché le segnalazioni vanno gestite e selezionate. C’è poi un secondo versante di miglioramento. «L’inchiesta è un genere faticoso: bisognerebbe fare un lavoro di traduzione di questi contenuti per renderli alla portata di un lettore medio. Adottare cioè un tono cioè più coinvolgente, lavorare sull’aspetto narrativo per esempio con minivideo per raccontare l’inchiesta scritta».