Carcere e sistemi alternativi:
storie umane, spazi negati e leggi virtuali
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Di cosa parliamo quando parliamo di pena. Ci aiutino l’etimologia e il greco. E’ la poinè, con il suo doppio binario semantico: il prezzo da pagare per un delitto, e il riscatto ottenuto dal pagamento di quel prezzo. Castigo e premio. Punizione e riabilitazione. E di cosa parliamo quando parliamo di “certezza della pena”, scansando l’ambiguità a cavallo tra semplificazioni e interpretazioni soggettive (labili nella loro portata ma indistruttibili nella catena del passaparola comunicativo). Parlando di certezza della pena dovremmo dire (art.25 comma 2, Costituzione) della pena fissata dalla legge prima del fatto commesso, e scontata secondo i termini e le condizioni che la legge prevede. Niente di eversivo, sempre non si voglia ritenere eversiva la Costituzione. Eppure l’equivoco nasce dall’opinione sottesa,per cui istituti previsti dalla legge – misure alternative al carcere, pene alternative alla detenzione – minino la certezza della pena, siano un regalo indebito al criminale; quando sono, essi stessi, pena che, dopo una sentenza definitiva e non più impugnabile, dovrebbe orientarsi a un ricollocamento dell’uomo nella società,sempre fatto salvo il diritto dei cittadini alla sicurezza.
In tempi così confusi sotto il profilo normativo e politico, sottoposti alla pressione di forze contraddittorie o contrapposte, esigenze di sicurezza presunte e fragilità sociali concrete, il giornalista indossa il fardello di un’informazione ad alto rischio sul carcere, e su chi a vario titolo è privato della libertà, condizionando ineluttabilmente l’opinione pubblica, solo con una svista, uno scivolamento su un termine, un’approssimazione errata rispetto agli istituti (complessi) stabiliti dall’ordinamento penale e penitenziario.
Il linguaggio “del” e “sul” carcere: di questo vorremmo parlare, con l’aiuto di docenti universitari, di magistrati e del garante nazionale delle persone detenute. Una legge di riforma penitenziaria, la 103/2017, era stata licenziata dopo faticosa gestazione nel tentativo di uniformarsi alle indicazioni giunte da svariate sentenze di condanna da parte dell’Europa,che ordinava all’Italia di rimodellare l’intero sistema sanzionatorio penale secondo principi di umanità della pena. Ma la legge, pronta al varo, il 2 agosto ha subito la drastica revisione del nuovo Consiglio dei ministri, formatosi dopo le elezioni del 4 marzo. Questa riscrittura cancella le misure che facilitavano l’accesso a sistemi alternativi alla detenzione e che eliminavano gli automatismi (come quelli previsti dai cosiddetti reati ostativi), preclusivi alla concessione di forme attenuate di pena e di riabilitazione e reinserimento nel tessuto sociale. Sintesi brutale: la revisione punta a mediare tra il miglioramento della qualità della vita nelle carceri e la certezza della pena – con tutti gli scivolamenti percettivi e soggettivi sul tema, che siano del politico, della collettività, del giornalista.
E al giornalista non resta che raccontare, al meglio. Nel 1948, Piero Calamandrei, chiedendo al Ministro di Grazia e Giustizia Grassi una commissione d’inchiesta che conducesse visite non annunciate: “Bisogna vederle, le carceri, bisogna esserci stati per rendersene conto. Vedere! Questo è il punto essenziale”. Per ora a ben vedere, dopo la censura dell’Italia in sede europea con la sentenza Torregiani sulla restrizione fisica degli spazi di detenzione, equiparabile a forme di tortura o trattamenti degradanti, è ripartita la lenta crescita della popolazione carceraria verso un nuovo sovraffollamento (su 191 istituti penitenziari con capienza di 50.619 posti, a fine aprile 2018 si era già a 58.285 detenuti). Potrebbe così suonare beffardo il parametro virtuale,stabilito da una circolare ministeriale del 1988, per cui a un detenuto spetterebbero nove metri quadrati, se è solo, più cinque altri per ogni ulteriore compagno di cella. Ma la certezza – che nulla ha a che vedere con la certezza della pena essendo questa semmai una pena aggiuntiva – è che ogni detenuto dispone, al massimo, di tre metri. C’è giustizia, nell’esecuzione di una condanna giusta, in tre metri di visuale e di respiro? Facile ma irresistibile rispondere con Dostoevskji: “Non conoscono pietà, conoscono solo la giustizia: per questo sono ingiusti”. Lasciando allora amministrare ed eseguire giustizia a chi ne ha l’onere, noi possiamo e dobbiamo trovare, nella professionalità e nella pietas, il sentiero giusto di un racconto vero e profondo, che mai dimentica la vittima di un reato, né identifica l’uomo con il suo crimine.
Marinella Rossi
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