Forse l’immagine più efficace è del presidente della Siae, Giulio Rapetti in arte Mogol, uno dei sostenitori più entusiasti della direttiva Ue sul copyright: «Come Siae, incassiamo contributi anche dalle parrocchie. E non vogliamo riscuotere la giusta parcella da chi fa profitti per decine di miliardi?». Naturalmente, Mogol si riferisce alla musica, ma il principio vale per l’intero universo del diritto d’autore, giornalisti compresi.
Sì, pare proprio che il bengodi, per i colossi del web, abbia i mesi contati: entro l’estate del 2021, i Paesi europei dovranno applicare le nuove regole votate a Strasburgo. Che impongono a Google & Co. di pagare per il riutilizzo degli articoli pubblicati sulle loro piattaforme online.
Meglio tardi che mai ci si è accorti che – fin qui – l’Unione europea ha regolato in modo insufficiente il potere di motori di ricerca e social network; che c’era bisogno di una normativa ad hoc per garantire un compenso ai giornalisti spolpati a costo zero su Internet; che l’influenza dei giganti tecnologici compromette la circolazione di informazioni accurate; e che sarebbe anche ora di introdurre un’equa tassazione sui ricavi da record di Zuckerberg e compagni.
Certo, non mancano gli (euro)scettici convinti che nulla cambierà. Non mancano i “benaltristi”: «Invece di pagare i giornalisti, era meglio farsi consegnare le banche dati»; o i decisamente contrari: «Così muore la democrazia digitale». La stessa, per intenderci, che ha depredato una professione, prosciugato le redazioni, ridotto al lumicino le concessionarie di pubblicità, riempito con troppa facilità i nostri smartphone, e quelli dei nostri figli, di fake news, truffatori e pornovendette. È un fatto che l’Unione ha saputo riaccendere una luce su un comparto industriale senza orizzonti, fiaccato, anzi vampirizzato dalla Rete.
E un curioso contrappasso colpisce gli editori. Sono stati loro, negli ultimi quindici anni, a favorire la crescita dei cosiddetti “over the top” tollerando/incoraggiando la pubblicazione gratuita degli articoli giornalistici sui vari siti, non comprendendo che Larry Page o Steve Chen, venditori di profili personali e di spazi adv, alla fine sarebbero diventati i loro concorrenti più irriducibili, anzi i nuovi editori del pianeta, una volta sostituite le edicole con lo scroll dei telefonini. Oggi che la stalla è chiusa, dopo che i buoi sono scappati, ecco per esempio la Fieg schierata messianicamente con la Ue…
Perché le aspettative dei publisher sono evidenti: si parla esplicitamente di “remunerazione per lo sfruttamento di contenuti caricati dagli utenti, per garantire la sostenibilità del settore dell’editoria giornalistica” e si prevede “l’introduzione di un nuovo diritto mirante a facilitare la concessione di licenze online per le pubblicazioni e per il recupero dell’investimento”.
Questo per gli editori. Ma i giornalisti? La direttiva 2019/790 votata dal Parlamento europeo è chiara: “La protezione accordata agli editori non pregiudica i diritti degli autori…”.
Ma in che modo Google e Facebook retribuiranno i giornalisti? Ogni Stato della Ue, in autonomia, sarà chiamato a definire gli strumenti più adeguati. In Italia, si può ipotizzare la creazione di un organismo istituzionale simile alla Siae di Mogol. Con la possibilità di vedersi riconosciuti anche gli arretrati. La normativa, è vero, “non incide retroattivamente su alcun atto compiuto prima della data di recepimento”, ma nulla impedisce di stabilire che anche un vecchio articolo possa essere remunerato, se fruito dopo l’entrata in vigore della legge nazionale.
Se ne parlerà il 4 luglio a Roma, alla Camera dei deputati, tra i rappresentanti dei giornalisti e del governo, nell’ultimo incontro previsto dagli Stati generali dell’informazione e dell’editoria?
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