Se nel ventilatore del web metti rifiuti,
spari spazzatura
Negli ultimi anni con il passaggio al digitale si è diffusa l’idea che le sfide alla qualità del giornalismo arrivino soprattutto dalle grandi piattaforme e dal proliferare della possibilità di comunicare, grazie all’abbattimento delle barriere di accesso, che consentono a chiunque di pubblicare testi e video in modo semplice e rapido, attraverso la connessione permanente. Un fenomeno, del resto, che non riguarda solo i semplici cittadini ma anche il potere, in grado – con gli stessi strumenti – di disintermediare il giornalismo e rivolgersi direttamente agli elettori.
Ma le notizie fasulle, la disinformazione, la propaganda, le teorie cospirazionistiche, la ricerca di capri espiatori, in realtà esistono da tempo. I Protocolli dei Savi di Sion fu scritto nel 1903, ben prima della rete e della televisione. E nel ‘900 l’Italia e altri paesi europei hanno sperimentato autocrazie e dittature senza bisogno del web. Anzi, se proprio vogliamo trovare una correlazione, la censura della rete è spesso misura della limitazione della libertà di espressione di un paese.
Quali sono dunque le differenze rispetto al passato? I problemi che stiamo sperimentando sono legati alla scala (volume), e alla velocità (viralità) con tutto ciò si verifica. I meccanismi automatici di diffusione (bot) e gli incentivi economici alla diffusione di notizie distorte o di particolari morbosi (clickbaiting) sono ulteriori aggravanti.
Per questo la sfida per la qualità delle notizie, la capacità di chiamare il potere a rispondere delle proprie responsabilità, di ricostruire il contesto, di condividere una base minima comune di racconto della realtà, sono più importanti che mai. Ma la questione principale, più che la proliferazione dei blogger, delle opinioni sui social, o dell’attività para-pubblicitaria dei cosiddetti influencer, rimane la qualità di quel che noi giornalisti facciamo.
Alcune delle notizie più tossiche, delle distorsioni della realtà, a ben vedere non sono diffuse da semplici cittadini, ma da media tradizionali o da figure politiche e istituzionali per orchestrare campagne che fanno leva sulla paura dell’opinione pubblica o mirano a screditare gli avversari.
Anche nell’età delle piattaforme vale un semplice principio: se nel ventilatore metti rifiuti, ne uscirà spazzatura, sparata in tutte le direzioni e a gran velocità. Un meccanismo perfetto per creare polarizzazione, odio, paura. La paura fa vendere bene, non da oggi. Anche e soprattutto sul mercato della politica.
Questo è stato l’anno in cui, anche in Italia, la maggioranza dei cittadini, impaurita e isolata, ha premiato la politica che ha divorziato dai fatti. La tecnologia, i telefonini, non hanno creato tutto questo. Ma riverberando i veleni ne hanno ampliato la tossicità, rendendo più rapide le reazioni hanno tolto spazio alla riflessione. Non dobbiamo dimenticare tuttavia che una buona parte di tutto ciò è creato da noi giornalisti. Due esempi tratti della cronaca. Settembre 2017. Accade uno stupro a Rimini, gli stupratori sono neri. Libero pubblica i verbali, macelleria giornalistica. Il Corriere della Sera ritiene opportuno realizzare addirittura una sorta di graphic novelsull’accaduto. Scriverà Annalena Benini sul Foglio: “Tutti i particolari che adesso vengono rivelati allo scopo di intrattenere o di aumentare l’indignazione, è pornografia, è l’uso pornografico dei verbali della polizia. Per mostrare la cattiveria del branco, e la brutalità non solo del suo capo, si stanno calpestando le vittime. I giornali dovrebbero interpretare i fatti invece di lasciarsi camminare sopra dai fatti. E non lasciare che venga calpestato all’infinito chi è già stato infinitamente calpestato”.
Ancora. Un giovane ammazza la ex fidanzata in Puglia. La trasmissione “Chi l’ha visto” della Rai manda in onda una clip in cui si annuncia ai genitori del presunto assassino il ritrovamento del cadavere della ragazza e l’avvenuta confessione del figlio. Eppure il Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica prevede, all’articolo 8, che “salva l’essenzialità dell’informazione, il giornalista non fornisce notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona”.
Quante volte un fatto raccontato in questo modo e slegato dal suo contesto contribuisce a creare una lettura, un’idea che diventa senso comune?
Per converso il digitale abilita nuove straordinarie possibilità di racconto giornalistico. Dà una voce a chi non la avrebbe, come Daphne Caruana Galizia, la giornalista maltese uccisa lo scorso ottobre per le denunce contenute nel suo blog, oppure permette al giornalismo di inchiesta tradizionalmente solo scritto di trasformarsi in audio e video, e di raggiungere un pubblico assai più ampio di quanto non avvenisse in precedenza.
Non è più il contenitore a definire il giornalismo, ma solo la qualità del contenuto, il suo rispondere alle regole della professione. Dovunque e da chiunque sia pubblicato. Questo non fa che rendere più importante la responsabilità con la quale dovremmo fare il nostro lavoro. E la nostra capacità, mai tanto necessaria, di inserire i fatti in un contesto, di illuminare non solo i dettagli ma anche il disegno complessivo. Un particolare, un’immagine, può svelare la realtà, ma la ricostruzione che ne deriva può non essere vera, perché manca di quel che è accaduto prima e di quel che verrà dopo. Il contesto appunto.
Parafrasando Forrest Gump, mai come nel 21esimo secolo, “Giornalista è chi giornalismo fa”.
Massimo Russo
Responsabile area digitale Gruppo Espresso
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