Primo maggio: abbiamo di che festeggiare?

di Ester Castano

consigliera dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia con deleghe su Giovani, nuovi giornalismi e pari opportunità.

Primo maggio, festa delle lavoratrici e dei lavoratori. E sarebbe bello definirsi tali, in Italia, nel 2020 terzo Paese Ue per tasso di disoccupazione e primo per giovani tra i 20 e i 34 anni che non studiano, non hanno e non cercano impiego. «Ti pago in visibilità», «sei giovane, devi farti le ossa», «un contratto? C’è crisi»: quante volte è stato detto? Troppe. Una litania sempre uguale a se stessa.

L’Italia è il Paese degli stage non retribuiti, del lavoro sommerso e del precariato, piaga della professione giornalistica. Viviamo immersi in un mix micidiale di alta concorrenza tra colleghi e scarsa attenzione alle tutele di chi lavora. Di narrazione miope sui giovani viziati e sull’etica del sacrificio la comunicazione mainstream è colma: forse la rivoluzione, oltre a paghe dignitose e contratti consoni, sta nel non concepire il lavoro come unico strumento di autorappresentazione. Liberiamoci dal senso di colpa e oppressione nel tirarci indietro a condizioni inumane, paghe indecenti, redazioni tossiche. Liberiamo anche il tempo libero, indispensabile per il benessere psicofisico dell’individuo (è difficile, lo so bene).

Il lavoro non è un favore concesso, né un premio. Ripartiamo dalle definizioni? Chi lavora non riceve un regalo dal benevolo imprenditore ma è la lavoratrice o il lavoratore a offrire al datore di lavoro tempo e competenze in cambio di reddito. Il lavoro è un patto tra due figure: la parte che accetta un impiego decide di cedere energie per generare profitto all’altra. Vale anche per la gavetta, che può significare svolgere per un tempo limitato mansioni più noiose al fine di imparare il mestiere. Se non pagata è sfruttamento.

Una radicale riforma della professione giornalistica, delle sue norme e dei suoi istituti, è necessaria: anche questo viene detto da troppo tempo. Il contesto sociale è cambiato, la categoria è genericamente rimasta indietro e il gap con le nuove generazioni rischia di diventare senza ritorno. Ci perdiamo tutte e tutti, la qualità dell’informazione in primis. E i nostri diritti, che in un contesto di lavoro precario e discontinuo non possono prescindere ed essere slegati dall’introduzione di forme di reddito universale. Forme che in Italia non esistono.

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