Ogni inchiesta è diversa, ma quelle buone hanno quattro cose in comune

 

Costruire un’ipotesi investigativa, sottoporla a verifica, montare i vari elementi in una storia, sottoporsi a fact checking. Breve ripasso del metodo «Story-based Inquiry» scritto da chi lo conosce bene a beneficio di chi ha a cuore il giornalismo di approfondimento 

di Lorenzo Bagnoli e Giulio Rubino, co-direttori di IrpiMedia

  • È uscito il numero 3 – 2003 di Tabloid. Il titolo di copertina è Visioni. Come cambiano oggi alcuni generi giornalistici: la cronaca, l’inchiesta, il data journalism. Questo è uno degli articoli del numero, che potete sfogliare interamente a questo link

Tabloid 3 – 2023

«Fare un’inchiesta giornalistica» è un’espressione che può fare riferimento alla messa in fila di fatti allo scopo di chiarire vicende complesse (inchiesta conoscitiva), oppure alla ricostruzione di episodi e dinamiche che vengono tenuti nascosti all’opinione pubblica. Quest’ultima tipologia d’inchiesta è oggetto del giornalismo investigativo, il principale interesse di IrpiMedia. Lo scopo dell’inchiesta è sempre lo stesso: contribuire a rivelare, con i propri mezzi, qualcosa che inizialmente non era conosciuto, sia perché confuso nelle pieghe dei fatti, sia perché tenuto nascosto da una forma di potere. 

Per fare un’inchiesta, quindi, non ci sono ingredienti, né dosaggi, né preparazioni da seguire. Non si sa esattamente cosa accadrà al passaggio successivo, perché ognuna è diversa dalle altre. Esistono, però, diversi metodi per perseguire il risultato finale. 

Negli ultimi due decenni, il giornalismo investigativo è tornato in auge attraverso due direttrici, come scrive Antonio Rossano in un articolo dello European Journalism Observatory: «[Q]uella tradizionale, sviluppata all’interno delle redazioni dei giornali, affidata a strutture più o meno specializzate, incorporata nel generale processo produttivo delle notizie e, d’altro canto, un percorso specifico, verticale, definitosi nell’ambito del mondo del no profit con la nascita di organizzazioni ad hoc finalizzate specificamente, per loro costituzione, al giornalismo di inchiesta». IrpiMedia appartiene a quest’ultimo mondo e si ispira alle teorie e alle tecniche d’inchiesta nate principalmente nel contesto anglosassone. In questo articolo, racconteremo le fasi di costruzione di un’inchiesta che abbiamo definito all’interno di IrpiMedia. Questa almeno è la teoria; la pratica è spesso meno ordinata. Ma questa è un’altra storia.

La premessa: l’inchiesta è plurale e collaborativa

La nostra filosofia prevede che il lavoro di realizzazione di un’inchiesta sia collettivo. Significa, in sostanza, che ci sono più professionisti che seguono il processo di realizzazione. Insieme agli autori, c’è sempre un editor, figura di supporto che fa da sparring partner del/dei giornalista/i: allena la ricerca, consiglia nuove domande, simula i match con intervistati e bersagli dell’inchiesta. Ognuna delle fasi descritte di seguito è certificata dall’editor. Solo allora gli autori possono passare a quella successiva. 

Fase uno: concezione

L’ispirazione per un’inchiesta può nascere da una fonte, da un’esperienza vissuta, dalla lettura di libri o di articoli di altre testate, dalla fissazione che porta spesso i giornalisti a voler approfondire un filone. Identificare l’argomento però di cui si vuole parlare, però, è molto diverso dal definire quale sarà la storia che si andrà a scrivere. Per affrontare questo passaggio, a IrpiMedia applichiamo un metodo: si chiama Story-based Inquiry ed è stato teorizzato dal giornalista americano Mark Lee Hunter in un manuale che è disponibile gratuitamente in diverse lingue (non in italiano) sul sito www.storybasedinquiry.com. Il cuore di questo metodo è la costruzione di un’ipotesi investigativa: un’inchiesta giornalistica inizia a definirsi quando esiste un’ipotesi da controverificare. Notare bene, non una tesi: un’ipotesi. È questa che definisce la storia “massima”, cioè quella in cui si riescono a verificare tutti gli aspetti dell’ipotesi e quella “minima”, che rappresenta le condizioni indispensabili affinché la ricerca mantenga ancora un interesse giornalistico. 

Facciamo un esempio. Nel 2014, leggemmo quasi per caso in un report semestrale della Direzione investigativa antimafia che c’erano diverse tracce di investimenti delle mafie italiane in Africa. Non c’erano, però, specifiche sui Paesi di destinazioni del denaro sporco. Così cominciammo a cercare ovunque, tra libri, quotidiani, siti internet. Avevamo in testa un argomento, non una storia. Quasi per caso, proseguendo il censimento di investimenti italiani in Africa, spuntò fuori l’annuncio di un progetto, non ancora completato in Senegal: sponsor le Nazioni Unite, investitori due italiani, uno «ambasciatore presso le Nazioni Unite per l’arcipelago di Sao Tomè e Principe», l’altro un imprenditore che aveva lo stesso nome di un condannato per associazione mafiosa. Avevamo finalmente un’ipotesi. Storia massima: un condannato per mafia ha investito denaro di origine sconosciuta in un progetto in Senegal con la sponsorizzazione delle Nazioni Unite e il sostegno di istituzioni bancarie internazionali. Storia minima: un condannato per mafia ha coinvolto le Nazioni Unite in un tentativo di investimento in Senegal. È l’inizio del vero processo di ricerca, che si svolge interrogando le fonti, di qualunque genere, sulla base di una propria ipotesi da verificare. 

Definire un’ipotesi investigativa resta un compito più complesso di quanto non sembri. Dev’essere infatti strutturata in modo specifico e preciso, deve offrire elementi da verificare e domande precise a cui rispondere. L’ipotesi che «il governo abbia fatto questo decreto a causa della corruzione interna» non aiuta ad avviare un’inchiesta come quella che «Il gruppo lobbistico X abbia fatto pressioni e regali al ministro Y per inserire questo specifico comma all’interno del decreto, grazie al quale otterrà il vantaggio Z che cerca da tempo».

Fase due: la ricerca

Una volta che si è concepita l’inchiesta, si comincia a costruire il documento che conterrà al suo interno tutte le informazioni che ci serviranno nella fase di scrittura. Lo chiamiamo masterfile. Ogni giornalista costruisce il masterfile secondo i propri schemi mentali, ma quando è condiviso è bene provare a darsi un formato. Ad esempio, si può mantenere in cima l’ipotesi investigativa, massima e minima, che va a cambiare mano a mano che si accertano alcuni aspetti e se ne smentiscono altri. L’ipotesi è tale se si modifica nel prosieguo della ricerca. Se non varia, probabilmente c’è qualche problema nella scelta delle fonti da interrogare. Queste ultime possono essere fonti aperte come database (come i registri delle camere di commercio, i siti per il tracciamento di navi, aerei e container, catasti, gazzette ufficiali, ecc), articoli di giornali, social network e documenti ufficiali disponibili con una formale richiesta di accesso agli atti, oppure possono essere fonti chiuse, quindi persone a cui gli autori hanno un accesso privilegiato e documenti confidenziali. A noi capita spesso anche di lavorare su leak, parola inglese che significa letteralmente “fuoriuscita”, ma che in gergo giornalistico spesso identifica documenti riservati messi a disposizione ai giornalisti da fonti spesso anonime. In questo caso il problema numero uno è validare l’esistenza dei documenti e i loro contenuti.

Ogni volta che il masterfile si arricchisce di un’informazione nuova è buona pratica aggiungere la fonte in una nota a piè di pagina, e salvare il documento comprovante a parte. Troppe volte, infatti, informazioni disponibili (specie in rete) diventano irreperibili quando si arriva alle fasi conclusive del lavoro. Appuntare le informazioni importanti all’interno del masterfile è una prima embrionale forma di scrittura della storia che spesso facilita il processo finale e aiuta a concepire la struttura narrativa. È importante tenere pulito e preciso un masterfile: può rivelarsi anche ad anni di distanza un ottimo collettore d’informazioni. 

La ricerca si può definire completata quando un’ipotesi è pienamente verificata. Nel caso dell’investimento in odore di mafia in Senegal, l’ipotesi investigativa verificata era questa: un ex personaggio televisivo italiano divenuto ambasciatore presso le Nazioni Unite per Sao Tome e Principe per nomina diretta del presidente del Paese ha permesso a un imprenditore condannato in passato per truffa e per mafia di partecipare a un progetto di sviluppo agricolo in Senegal dal valore del 90% del Pil del Paese che due anni dopo il suo avvio non ha portato ad alcun risultato. Il gruppo dell’imprenditore condannato, di cui fanno parte altri personaggi condannati per truffa, non ha mai realizzato progetti di cooperazione internazionale. Lo stesso diplomatico ha partecipato a due raccolte fondi per combattere l’ebola in Africa occidentale sponsorizzate dalle Nazioni Unite, di cui però non si conosce né l’esito, né quanti soldi abbiano portato ai Paesi africani. È solo a questo punto che comincia la fase di scrittura.

Fase tre: scrittura

In teoria, quando si applica appieno il metodo Story based-inquiry, scrivere dovrebbe assomigliare a fare montaggio cinematografico: i contenuti dovrebbero essere già tutti (o almeno buona parte) nel masterfile. Si tratta di metterli in ordine e di costruire una narrazione che accompagni il lettore dall’inizio alla fine della vicenda. Quest’ultimo è un concetto chiave ed è il motivo per cui dentro IrpiMedia invece che “articoli” chiamiamo i contenuti “storie”.

In questa fase l’autore riacquista la sua tradizionale indipendenza e libertà, salvo una chiacchierata iniziale con l’editor, che aiuta gli autori a immaginare la struttura narrativa, il “plot” vero e proprio del lavoro, focalizzando i personaggi e i nodi narrativi principali. Visto che spesso i nostri lavori sono scritti a molte mani, abbiamo scoperto che è buona prassi che i giornalisti scelgano fra loro uno “scrittore principale”, che metta su pagina le idee di tutti. Infatti spesso mettere assieme capitoli scritti da mani diverse comporta un super-lavoro nella fase successiva.

Nella vita reale, capita che quando si mettono in fila i risultati delle proprie ricerche nascono nuove domande e nuovi dubbi a cui rispondere. È importante tenere in nota le fonti dalle quali sono attinte le informazioni, affinché sia più facile l’ultimo passaggio prima della pubblicazione: l’editing. 

Fase quattro: l’editing

Quando una bozza è conclusa, è l’editor che la prende in carico. Rilegge, appunta domande, suggerisce modifiche in base a quello che non torna, controlla che le informazioni riportate nel pezzo abbiano una nota di riferimento. Quest’ultimo passaggio in inglese si chiama fact-checking e in diverse strutture con le quali collaboriamo ha proprio un suo dipartimento a sé. Fare fact-checking significa, in pratica, verificare che ogni informazione nell’articolo provenga da una o più fonti verificate. Se ci sono passaggi particolarmente delicati, si aggiunge un controllo prettamente legale a quello giornalistico. Il nostro processo di editing e fact-checking dura in media una settimana-dieci giorni, con punte che possono arrivare fino a tre settimane per inchieste transnazionali particolarmente complesse in partnership con più giornali.

Lascia un commento

Iscriviti alla newsletter per non perdere tutti gli aggiornamenti