Formazione di qualità per giornalisti di qualità – Newsletter n° 5/2018

Formazione di qualità 
per giornalisti di qualità

Newsletter n° 5/2018 – In questo numero

  • Formazione di qualità per giornalisti di qualità di Fabio Cavalera
  • Panorama, l’agonia di una testatadi Lucia Bocchi
  • Colonna infame e diritto cogente di Marinella Rossi
  • “L’Italia che non cresce!” di Massimo Borgomaneri

 

Save the date: trittico di corsi di formazione professionale dal titolo

Dal giornalismo d’inchiesta alla narrazione.
1 / La verifica delle fonti: 14 gennaio (h. 14,30-17,30)
2 / Teoria e pratica di scrittura: storyteller e storytelling: 11 febbraio (h. 14,30-17,30)
3 / Il futuro dell’inchiesta: 13 marzo (h. 14,30-17,30)

Sede dei tre corsi: Fondazione Aem, piazza Po 3, Milano

 

Cara collega, caro collega,

l’Associazione per la formazione al giornalismo Walter Tobagi di Milano sta ri-organizzando la newsletter per illustrare l’attività sia dell’Associazione sia del Master in giornalismo che, come saprai, è gestito dall’Università Statale di Milano e dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia, in base a una convezione siglata nel 2009.

Questa newsletter, oltre che a dare informazioni di servizio, vuole essere anche uno stimolo alla riflessione su temi di attualità per la nostra categoria, un luogo d’incontro e confronto fra colleghi per analizzare lo scenario dell’editoria e del giornalismo in particolare. Proporremo quindi, di volta in volta, interventi, spunti, racconti, analisi, proposte.

Nell’adeguarci alle disposizioni contenute nel Gdpr (Regolamento Ue 2016/679), se ritieni che questa iniziativa possa essere utile al tuo aggiornamento professionale e vuoi continuare a ricevere la nostra newsletter clicca sul bottone qui sotto.

Qui, di seguito, potrai leggere un esempio del tipo di newsletter che abbiamo intenzione d’inviare. L’Awt utilizzerà i Tuoi dati esclusivamente al fine di inviare la newsletter e gli aggiornamenti relativi a nuove pubblicazioni su approfondimenti, opinioni e ricerche relative al mondo del giornalismo. Il responsabile del trattamento dei dati è Fabio Cavalera.

Ti ringrazio per l’attenzione e la collaborazione.

Formazione di qualità
per giornalisti di qualità

di Fabio Cavalera
Consigliere Ordine Giornalisti Lombardia
Presidente Associazione Walter Tobagi
 

Cara collega, caro collega

la formazione professionale è un obbligo di legge. Come Ordine dei giornalisti della Lombardia (la delega alla formazione è in capo direttamente al presidente Alessandro Galimberti) e come Associazione Walter Tobagi ci stiamo impegnando sia per organizzare corsi che vengano incontro alle esigenze della categoria sia per eliminare il superfluo (che in passato è stato eccessivo). Non è un percorso facile ma ci proviamo.
Vale la pena sottolineare che il trend delle frequenze è positivo e che nell’ultimo anno l’evasione si è fermata attorno al 12 per cento. In sostanza: al giugno 2018, su 21.624 aventi diritto ai corsi in Lombardia, esclusi dunque gli esonerati (malattia e pensione), 2468 colleghi ( di cui 2130 pubblicisti e solo 338 professionisti, tra i quali qualche nome noto) risultavano a crediti zero e di questi 883 neppure iscritti alla piattaforma Sigef.
E’ una macchia, non grandissima ma fastidiosa, che va cancellata perché ormai l’offerta di formazione si è alzata sia in termini di qualità sia in termini di quantità.
Noi vogliamo che l’aggiornamento e la formazione migliorino sempre di più, ne va del nostro futuro. Accettiamo le critiche e chiediamo suggerimenti e proposte. Ma non è giusto che ci siano colleghi tuttora “sordi”. L’Ordine Nazionale ha stabilito (8 febbraio 2018) le linee guida con le sanzioni per il mancato assolvimento. E’ bene che i pochi furbetti senza alcuna giustificazione si responsabilizzino e si mettano al passo: chi non è in regola lo spiegherà al consiglio di disciplina. Gli oltre 19 mila colleghi “formati” non possono essere presi in giro da chi continua a calpestare i doveri che abbiamo.

Fabio Cavalera
Consigliere Ordine Giornalisti Lombardia
Presidente Associazione Walter Tobagi

Panorama, l’agonia di una testata

di Lucia Bocchi
Consigliera Ordine giornalisti Lombardia

All’inzio mensile, presto settimanale, Panorama è nato in Mondadori nel 1962. Testata storica, quindi, di attualità, politica e società, ideata in pieno sviluppo economico e improntata allo stile dei newsmagazine internazionali.
Come epilogo arriviamo alla sua vicenda attuale, svenduta dalla Mondadori a Maurizio Belpietro (che l’aveva diretta dal 2007 al 2009), direttore ed editore del quotidiano ‘La Verità’. Nome quanto mai lontano dall’headline degli esordi di Panorama ‘I fatti separati dalle opinioni’. Intento anglosassone, forse mai raggiunto, ma sicuramente abbandonato dall’acquisizione di Silvio Berlusconi dell’Arnoldo Mondadori nel 1994, che ne fece uno dei media dell’ascesa di Forza Italia.
Come esplicitamente dichiarato da Giuliano Ferrara, che la diresse tra il ’96 e il ’97, prima di fondare a sua volta ‘Il Foglio’.
Sono ancora anni in cui la carta paga, il successo di vendite di Panorama tiene. Nelle edicole, ogni settimana, si assiste al duello con il rivale L’Espresso, a colpi di copertine riuscite, copiate, mancate.
Il declino, in termini di contenuti, non è solo di Panorama ma della stampa nazionale
d’informazione in generale. Anzi giornalisti, reporter e ‘firme’ continuano a dare un certo spessore, ancorché discontinuo, al settimanale di Segrate. Poi inizia – inesorabile – il disinteresse del pubblico, non tanto per l’avanzata del web, in quei primi anni, quanto per una disaffezione generale al tenersi informati, se non con i TG somministrati ai pasti. E allora tutti gli editori, Mondadori e ‘Editoriale L’Espresso in primis, cercano di arginare le perdite con gli allegati, tanto che infine sembrava che il magazine fosse l’allegato (e non il contrario) dei film in DVD e delle serie eterne di
libri di storia dell’arte. La contromisura regge per più stagioni, poi gli italiani ne hanno gli scaffali pieni.
Allora, alla polarizzazione politica di Panorama, si aggiunge massiccia la prevaricazione del marketing. Si deve pur campare e l’andazzo è generale nella stampa italiana. Nel caso specifico del newsmagazine Mondadori, il fenomeno culmina nel 2014 quando viene ribattezzato ‘newsbranding’ ovvero da giornale diventa ‘sistema cartaceo & digitale’, tenendo sotto l’ombrello i periodici Flair,
Icon e Icon Style. Cioè diventa un brand a caccia di altri brand inserzionisti e di partner in svariate ‘iniziative editoriali’. Sempre nel 2014 parte, in senso letterale, il tour ‘Panorama d’Italia’ uno show d’intrattenimento giornalistico per tutta la penisola, per avvicinare lettori fuggitivi e imprese locali.
Nonostante gli sforzi, la readership di Panorama continua a calare a picco, la foliazione si riduce al minimo e, soprattutto, la testata, anni addietro considerata core business, viene invece indicata come il buco nero nei bilanci della Mondadori Periodici S.p.A. La contrazione della carta non basta a spiegare il tracollo. Panorama ha sofferto pure l’immobilismo dell’editore nel dargli nuova linfa (se non con rituali restyling grafici che sostanzialmente ‘spostavano’ le sezioni dei contenuti). A un
certo punto, era stato perfino importato come vice-direttore Walter Mariotti, ideatore dell’innovativo allegato IL de IlSole24Ore, ma era stato relegato in un angolino. Il gattopardismo editoriale voleva che le cose restassero com’erano. Le elezioni del 4 marzo 2018 hanno sancito la fine di Panorama, che non serve più neanche come portavoce politico. Da una redazione ipertrofica, dove si era arrivati a contare fino a 6 vice-direttori, l’attuale smilzo organico è sotto la trentina di persone (gli altri hanno abbandonato la nave in tempo), costrette a fare causa o a contrattare individualmente con l’editore Belpietro per continuare a lavorare a stipendio dimezzato o quasi. Il 31 ottobre 2018 si è perfezionata l’acquisizione di Panorama da parte di La Verità SrL per diventare l’allegato del quotidiano. Le testate storiche muoiono, è anche
naturale, e questa per ora sopravvive. L’indipendenza residua dei giornalisti di Panorama comprati ‘a peso’ pare però irrevocabilmente compromessa. Siamo in periodo di transizione, si spera che l’informazione con la I maiuscola abbia già preso altri canali indipendenti, visto che non è più possibile servirsi di editori altrettanto storici.

Colonna infame e diritto cogente

di Marinella Rossi
Comitato indirizzo Master in giornalismo Walter Tobagi

Partiamo da là dove, tra via Della Vetra de’ Cittadini e Corso di Porta Ticinese, la casa del povero barbiere Giangiacomo Mora non c’è più.
Partiamo da Alessandro Manzoni, quando ne “La colonna infame” ci racconta l’incredibile processo con molteplici torture, intentato sulla credenza degli untori della peste, ma in realtà no, intentato senza ragionevolezza alcuna e solo ad affermare l’arbitrio totale di un potere senza controllo. Così Manzoni ci parlava dello “sdegno e il ribrezzo… contro passioni che non si posson bandire, come falsi sistemi, né abolire, come cattive istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne’ loro effetti, e detestarle”. E’ cronaca giudiziaria del 1630, e già da allora, cercando fra Manzoni e Pietro Verri, scopriamo che la tortura, pur utilizzata secondo regole date dal diritto romano – regole travalicate da quei giudici da colonna infame – già cadeva in un cono d’ombra, tra imbarazzi e sottintesi, formalmente non rivendicata.
Il divieto di tortura e di trattamenti disumani degradanti è oramai incluso in una norma di “ius cogens”, il cosiddetto diritto cogente, dunque inderogabile. E pur essendo, tortura e trattamenti inumani, categorie da differenziare, sono entrambe aggregabili concettualmente in una finalità: l’annullamento dell’individuo da parte di un potere più o meno legittimo.
Parrebbe piuttosto ovvio: l’uso della tortura, per ottenere informazioni (tortura giudiziaria), o il maltrattamento per umiliare chi è sottoposto al controllo della forza pubblica che si pone in posizione di supremazia e abuso, è illegittimo oltre che indegno. Eppure finora tali comportamenti, difficilmente inquadrabili in generiche fattispecie di reato, non rientravano in una categoria semplice, descritta e sanzionata dal codice penale: non avevano il nome crudo e concreto di un reato. Tortura. Ci sono voluti 33 anni da quando le indicazioni contenute nella Convenzione di New York del 1984, ratificate da noi nel 1988 (ma già presenti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo -1948 – e nell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), venissero recepite concretamente anche dall’Italia. E ci sono voluti anche quattro anni di lavori di commissione e verifiche parlamentari perché una legge, fortemente modificata rispetto a chi l’aveva elaborata (il senatore Luigi Manconi, Pd, si rifiutò di votare il nuovo testo) avesse sorte più fortunata di altre (la riforma penitenziaria e l’introduzione della giustizia riparativa rimaste al palo o sovvertite dal cambio di governo e in forza delle prudenti incertezze del precedente governo che le aveva promosse e le avrebbe potute licenziare). Così il 14 luglio 2017, la legge numero 110, parla di tortura e la sanziona, introducendo due articoli nel codice penale, il 613 bis e il 613 ter: dai 4 ai 10 anni di carcere, che salgono a un massimo di 12 se a commettere il fatto è un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei suoi doveri. Legge che, dovuto passo avanti, pur lascia spazio a dubbi interpretativi, là dove si richiede, per la commissione del reato, che questo sia commesso “mediante più condotte” – reiterato, dunque.
Come altri, anche questo sforzo normativo ci è imposto dalle procedure di infrazione avviate dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo per le condotte tenute dalle forze dell’ordine durante il G8 di Genova del 2001, qualificate come tortura, per cui siamo stati invitati a dotarci “di strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura o altri maltrattamenti impedendo loro di beneficiare di misure in
contraddizione con la giurisprudenza della Corte”.
Se mai ci fossimo ritenuti un’isola felice rispetto a quanto accadeva in America o in Iraq negli anni del post 11 Settembre (Guantanamo, Abu Ghraib), la scuola Diaz e la caserma Bolzaneto ci hanno riportato a una realtà spesso ipocritamente sottostimata. Nel male, si potrà dire che il G8 ha acceso l’attenzione su uso e abuso della forza nell’ambito di arresti, fermi, trattenimenti anche legali. Solo accennando a vecchi casi, mai abbastanza sondati, di “tortura giudiziaria” su brigatisti rossi (coinvolti nel sequestro del generale americano Dozier), o più recentemente al caso dell’imam radicale Abu Omar, vittima di extraordinary rendition per mano della Cia e col favore dell’allora Sismi, risultano oltraggiose e inspiegabili, e manco nella logica di malintese ragioni di sicurezza nazionale o contrasto al terrorismo, le morti atroci, per pestaggio e successive indifferenza e incuria, di giovani o uomini sottoposti al controllo delle forze dell’ordine, quali Cucchi, Aldrovandi, Uva, Gugliotta. A quelle morti persino prive di “ragion di Stato”, se non la prepotenza dello Stato – morti occultate, manipolate, inquinate da connivenze indicibili -, danno dovuta risonanza familiari sbigottiti e un’informazione sana, vigile, generalmente non incline a chiudere gli occhi. In questo senso, i 613 bis e ter, pur con mancanze e prudenze, sono il passo dovuto “a render meno potenti e meno funesti” quei “falsi sistemi” e “cattive istituzioni”, quell’“arbitrio” che, direbbe Manzoni, “non si deve intendere libero e assoluto, ma legato dal diritto e dall’equità”.

“L’Italia che non cresce!”

di Massimo Borgomaneri
Comitato indirizzo Master in giornalismo Walter Tobagi

E’ un coro tonante quello dei vertici dell’Ue, dell’Istat, del FMI, della Grande Finanza e persino di Mario Draghi, nostro nume tutelare alla Bce. Ed è questa l’accusa che si rinfacciano con veemenza le forze politiche nostrane peraltro da decenni corresponsabili di questa situazione.
Nessuno però mai che obietti: «Ma come potrebbe mai crescere l’Italia?» Perché per svilupparsi, un paese dovrà anche avere i conti a posto, uno Stato efficiente e non troppo costoso e un apparato produttivo competitivo, ma soprattutto deve avere un sistema economico-sociale vitale e articolato, che formi e dia opportunità ai giovani e ai meritevoli, che dia sicurezza agli anziani e che promuova il lavoro come prima ricchezza nazionale. Vedi l’articolo 1 della Costituzione. E invece, a partire dal ’97 (data di ingresso del «pacchetto Treu» che ha sdoganato il precariato) il lavoro è stato puntualmente smembrato e spappolato, insieme ai suoi diritti e al potere d’acquisto dei salari, fino a ridurlo a qualcosa di sempre più vicino alla schiavitù. I passaggi li conosciamo bene: la truffa dell’euro del 2002, cambiato a 1936 lire e svalutato in pochi mesi a poco più di 1000 effettive, le 46 forme contrattuali della legge Biagi (gran parte non praticate), le picconate allo Statuto dei Lavoratori, da destra e soprattutto da sinistra; i voucher o buoni lavoro (tolti a parole, rimessi nei fatti). E per i giovani? Gli stage a 500 euro al mese di «rimborso spese» (prima erano 300) reso prolungabile da 6 a 12 mesi. Neanche per formare un astronauta… Un giovane laureato può però oggi trovare dei bei contrattini a 1000 euro rinnovabili di mese in mese a patto che lavori enne ore al giorno e possibilmente anche la domenica… Contratti di ingresso? No, sfruttamento legalizzato, chiamiamolo col suo nome. Del resto
l’apprendistato ha fatto capolino anche nel contratto giornalistico che pure prevede da sempre il praticantato e scusate se è poco. Insomma, decenni di cultura
individualistica neoliberista e ferocemente antisindacale hanno prodotto questi risultati. Ma loro, i sindacati, sono stati come minimo subalterni (quando non conniventi) all’andazzo che ha menato allo sfacelo che oggi è sotto gli occhi di tutti. I rinnovi contrattuali sono diventati una chimera: 10 anni di attesa per il pubblico impiego, altrettanto per spettacolo e teatri, due rinnovi in 18 anni per quello dei giornalisti. E quest’ultima realtà la viviamo sulla nostra pelle. Da decenni si va avanti con veri o falsi stati di crisi, (possibili per concessioni di governo), licenziamenti «paravento», incentivi
all’esodo, contratti di solidarietà, co.co.co. farlocchi, partite Iva, ritenute d’acconto. E la fantasia datoriale non pone limiti al peggio per liberarsi o evitare – come la peste – di stipulare i nostri contratti, anche a termine, anche i più depotenziati e nonostante gli sgravi
retributivi offerti. Vi sono decine di redazioni senza neanche un qualunque contratto Fnsi e il 65% dei giornalisti oggi risulta free lance e coi propri guadagni in genere non tira a fine mese. Un disastro? Di più. I motivi? Forse una fra le due parti sociali (editori e sindacato) ha smesso di fare la propria, di parte. E’ un’ipotesi. E qui torniamo alla crescita. Se il presidente Usa Roosevelt, fra le misure per uscire dalla Grande Depressione del 1929, adottò quella di rifondare, potenziare e «incattivire» i sindacati qualcosa vorrà pur dire: solo ridare potere contrattuale e valore al lavoro ridà fiato all’economia di un paese. I profitti fatti sparire all’estero o nascosti negli artifici contabili non arricchiscono che i soliti 4 furbacchioni e un paese di alta manifattura come l’Italia non può far concorrenza a Turchia o Serbia. Il compito di un Ordine come il nostro – discusso e attaccato come e più di sempre – è lavorare sulla formazione, la qualità e il decoro di chi svolge la professione. Compito di un sindacato deve essere non solo difendere e ampliare i posti di lavoro, ma anche elevarne il potere d’acquisto attraverso la stipula, l’applicazione e il miglioramento dei contratti, a costo di una dura conflittualità. Se no a cosa serve?

Newsletter dell’Associazione Walter Tobagi per la formazione al giornalismo / Università Statale di Milano
Ordine dei giornalisti della Lombardia
Presidente AWT: Fabio Cavalera, Tesoriere/Consigliere rappresentante Alg: Rosi Brandi Presidente OgL/Consigliere: Alessandro Galimberti. Consiglieri: Lucia Bocchi, Francesco Ordine, Rossella Verga, Gegia Celotti, Roberto Di Sanzo, Ilaria Li Vigni, Francesco Camporese Consigliere rappresentante Cnog: Giorgio Gandola
Consigliere rappresentante Fieg: Edoardo Zucca Consigliere rappresentante Fnsi: Marina Cosi Consigliere ex allievo Ifg:Carlo Ercole Gariboldi Consigliere ex allieva Ifg: Daniela Stigliano. Revisori dei conti: Maria Ancilla Fumagalli, Carlotta Scozzari, Simone Filippetti Componenti Comitato di indirizzo: Maria Elena Barnabi, Massimo Borgomaneri, Marco Foroni, Rosanna Massarenti, Anna Migliorati, Giancarlo Perego, Marinella Rossi, Gaia Scacciavillani. Direttore della Scuola di giornalismo Walter Tobagi – Università Statale di Milano: Venanzio Postiglione Vice direttore: Claudio Lindner.

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