Il giornalismo, la scienza e la retorica «scientifica»

di Riccardo Sorrentino

La scienza è democratica. Non tutti però sono cittadini di questa democrazia. Molti di noi sono come i meteci nell’antica Atene: hanno diritto ad avere un’opinione e a esprimerla, ma non hanno diritto di voto. Giusto così, del resto: è assolutamente ragionevole aspettarsi che, qualunque obiezione possa essere proposta da un appassionato o un cultore della materia nei confronti di una teoria scientifica sia già stata o sia attualmente esaminata in tutti i suoi aspetti da centinaia di scienziati.

I duri protocolli scientifici

Il lavoro scientifico è un lavoro duro e collettivo. Pubblicare un articolo che elabori una nuova teoria, un nuovo modello, o tenti di verificarne empiricamente la validità significa sottoporsi anonimamente a una peer review – la valutazione, non a caso, dei “pari” – e poi a tutta l’attività di critica, a volte molto aspra, di revisione, di riproduzione degli esperimenti. Se una teoria emerge con forza, è a causa della genialità di chi l’ha proposta e dell’immenso lavoro di tutti i suoi colleghi, che hanno provato a confutarla, ad arricchirla, a testarla.

Ci vogliono anni, a volte, per far emergere una teoria nuova. Nel 1971 Judah Folkman aveva ipotizzato che, per capire e colpire i tumori, occorresse studiarne la vascolarizzazione, idea allora del tutto eterodossa, inaudita, respinta da tutta la comunità scientifica.

Folkman ha impiegato 20 anni di duro lavoro e ricerche per convincere la comunità scientifica che quella era una strada da percorrere. Il primo medicinale che impedisce la vascolarizzazione dei tumori è stato approvato solo nel 2004, 33 anni dopo la formulazione dell’ipotesi. Per lui, che pure a un certo punto si è rivolto ai privati, alla Monsanto, per avere finanziamenti (fu il primo) e sbloccare lo stallo in cui era finito, tutto questo era assolutamente normale.. Così funziona la scienza.

Il rigetto del principio di autorità

La scienza è una democrazia in cui non vale quindi, e ovviamente, il principio di autorità. Un singolo scienziato, per quanto noto, può tranquillamente pensare che il lavoro di centinaia di colleghi sul riscaldamento climatico sia falso ma la sua opinione, sia pure informata, è… un’opinione. A meno che non segua il protocollo, le regole del gioco, le “elezioni democratiche” previste per il lavoro scientifico. Si possono fare gli esempi, a proposito del riscaldamento climatico antropico, di Antonino Zichichi, o di Carlo Rubbia, notoriamente scettici sull’argomento. Scienziati noti ma che, oltretutto, non hanno compiuto studi e ricerche specifiche sul tema e, forse, non possono essere considerati “cittadini” della democrazia degli esperti sul clima.

L’uso retorico della scienza

Questo è un punto molto importante. Perché spesso c’è un uso retorico della scienza, per quanto la cosa possa apparire contraddittoria; un uso politico, non solo in senso largo. La teoria dell’equilibrio economico generale, o l’ipotesi dei mercati efficienti sono strumenti analitici spesso fondamentali in economia. Se non altro come primo approccio, o come benchmark. Sarebbe però impossibile trarne conseguenze politiche “liberiste”: Kenneth Arrow, che ha completato la teoria dell’equilibrio economico, sviluppata lungo diversi decenni, è stato – solo per fare un esempio – molto chiaro su questo punto e lui stesso ha aperto la strada all’Economia della sanità mostrando tra l’altro l’estrema difficoltà dell’affidare quel settore al libero mercato. Il discorso diventa anche più importante per temi come il riscaldamento climatico, l’efficacia e la sicurezza dei vaccini o l’incongruenza di genere.

Il giornalismo e gli esperti

Queste considerazioni sono fondamentali per il lavoro del giornalista, che ha la necessità di intervistare e mettere a confronto esperti, opinionisti e cittadini non esperti. Perché il lavoro giornalistico rifletta accuratamente la realtà delle cose, non si possono mettere sullo stesso piano figure che hanno ruoli così diversi su argomenti che hanno una precisa e rigorosa dimensione scientifica. Un esperto di clima, che ha effettivamente svolto ricerche su dati e modelli, non può essere messo sullo stesso piano dal collega eterodosso, che cerca di far avanzare un diverso paradigma, e propone quindi una visione inevitabilmente e giustamente controversa, o dell’esperto che addirittura esprime un'”opinione informata”. Sono figure inoltre tutte differenti rispetto al politico (o allo stesso scienziato che cambi improvvisamente e surrettiziamente veste) convinto che se il riscaldamento non fosse antropico richiederebbe minori interventi – ma è davvero così o piuttosto il contrario? – e usi retoricamente la scienza, o addirittura la strutturale incertezza della scienza, per sostenere quella che è una scelta, un’azione, che ha fondamento altrove, nella sua maggiore utilità o nella sua capacità di diventare universale.

A maggior ragione non si possono mettere sullo stesso piano quelle diverse figure di scienziato e quella del politico (o del cittadino) chiamato a prendere o sostenere una decisione con quella di chi, per quanto autorevole, esprime in realtà una mera preferenza personale. La razionalità delle argomentazioni è, anche eticamente e deontologicamente, il criterio fondamentale.

L’etica della razionalità

L’uso della razionalità impone allora di azzerare, imbagliare censurare le opinioni che razionali o scientifiche non sembrano o non sono (non ancora, in alcuni casi)? No, per nulla. Sarebbe violato il principio, fondamentale nella civiltà liberaldemocratica, della libertà di manifestazione del pensiero e il diritto all’informazione. I giornalisti, che hanno il compito specifico di rispettare la verità dei fatti, hanno però il dovere di riprodurre la realtà delle cose; e nella realtà lo scienziato che “rappresenta” il lavoro svolto da centinaia di persone in diversi anni, il collega che propone una teoria alternativa, l’esperto, il politico, e chi esprime un’opinione, anche autorevole, ma personale, si muovono su piani diversi.

Il pubblico deve essere sempre informato su quale di questi piani diversi si muova il discorso. A maggior ragione se è l’interlocutore stesso – l’esperto, il politico – a cambiare piano. Il resoconto di una ricerca scientifica non può introdurre surrettiziamente, quasi in un’imboscata retorica, argomentazioni che sono eterodosse o controverse, o altre che scientifiche non sono, perché politiche, o esistenziali, per quanto autentiche possano essere. Nulla vieta di affiancare discorsi diversi, purché siano evidenti, con gli opportuni signposts, i piani differenti e le “svolte” delle argomentazioni. La costruzione del contesto – l’essenza del lavoro giornalistico – si conferma quindi fondamentale, da tutti i punti di vista.

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