Giustizia e media, un caso di scuola

 
In che modo noi giornalisti siamo in grado di raccontare la cronaca nera? Quali le distorsioni rispetto ai fatti? Quali implicazioni deontologiche? Analisi del delitto di Novi Ligure (2001), ripercorso da uno dei periti del processo. Per comprendere cosa è possibile oggi evitare alla luce di quanto abbiamo fatto. E appreso
di Adolfo Ceretti, Professore di Criminologia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, consulente forense


Con questo articolo diamo avvio alla rubrica «
Giustizia mediatica», dedicata all’analisi di casi di cronaca – cold case – e al modo in cui i media li hanno raccontati. L’obiettivo è verificare meccanismi ed eventuali distorsioni della narrazione. Il caso qui raccontato è oggetto di un corso di formazione – organizzato dall’Ordine giornalisti della Lombardia e tenuto dal professore Adolfo Ceretti – che si svolgerà il 16 ottobre a Milano. Altri corsi analoghi sono in programmazione nei prossimi mesi



La sera del 21 febbraio 2001, intorno alle 21.15, in seguito alla segnalazione di un furto, i carabinieri di Novi Ligure, una cittadina piemontese, accertavano all’interno di una villetta monofamiliare, situata in un quartiere residenziale, la presenza di due persone prive di vita, poi identificate in madre e figlio, entrambe residenti nell’abitazione del luogo di intervento. Dai primi accertamenti si appurava che sul corpo di entrambe le vittime erano state inferte circa quarantacinque lesioni da arma da taglio. A poca distanza dalla casa si trovava la figlia e sorella delle vittime, la quale nell’immediatezza dei fatti raccontava di essere scampata miracolosamente alla furia omicida di due individui che, nel corso di un tentativo di furto avevano aggredito e ucciso la madre e il fratello, e tentato di uccidere anche lei.

La ricostruzione della ragazza appariva subito molto contraddittoria rispetto a quanto faceva trasparire la scena del delitto. Al fine di comprendere meglio cosa fosse avvenuto, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Alessandria autorizzava, dunque, delle intercettazioni ambientali, con l’ausilio di riprese video. Sia dal contenuto delle immagini che dall’ascolto delle conversazioni si ebbe modo di accertare il diretto e inequivocabile coinvolgimento, in ordine al fatto criminoso, di Erika, sedicenne figlia e sorella delle vittime e del suo fidanzato diciassettenne, Omar.

Il GIP del Tribunale per i Minorenni di Torino mi nominò perito in quel procedimento, insieme al Prof. Gustavo Pietropolli Charmet e alla Dott.ssa Alessandra Simonetto.

I primi sguardi sul delitto

La drammaticità di quel duplice omicidio quanto mai efferato, la sua criminodinamica, il suo forte impatto comunicativo hanno turbato le sensibilità e la coscienza collettiva, violato i confini che proteggono il senso di alcune fondamentali relazioni giuridiche, sociali, etiche, sollevato domande tutt’altro che retoriche sulla dimensione identitaria e securitaria della nostra società, ricollocato al centro del dibattito politico-istituzionale il tema della pena nei confronti dei minorenni, riattualizzando il problema della risocializzazione “possibile” e, ancora, della condanna e del perdono, del bene e del male.

La mia sensazione, all’epoca, era quella di essere chiamato a svolgere il ruolo di perito sostando sui bordi di un precipizio: «Nessuno dei vecchi rudimentali grimaldelli che funzioni: non un genitore manesco, non una violenza da vendicare, non una famiglia disintegrata, non emarginazioni periferiche o egoismi alto borghesi» commentava nell’imminenza del fatto un serio giornalista – Fabrizio Ravelli, di Repubblica. Riflessioni alle quali non fecero eco i titoli e i contenuti di altri articoli pubblicati su quotidiani e settimanali, che cavalcavano, invece, il senso comune più diffuso: L’abisso dei ragazzi per beneA sangue freddo: la vita sciagurata di Omar e Erika, sono due tra gli innumerevoli titoli con cui quotidiani e settimanali avevano definito il caso.

Ma facciamo un piccolo passo indietro.

Subito dopo la consumazione dei delitti Erika De Nardo, a suo dire sopravvissuta miracolosamente alla strage, aveva reso una testimonianza dettagliata davanti all’autorità giudiziaria, disegnando dettagliatamente l’identikit di due extracomunitari da lei anticipatamente identificati quali possibili perfetti “capri espiatori”. I due signori albanesi residenti nella cittadina piemontese, accusati di essersi introdotti in casa per compiere una rapina, poi degenerata e sfociata nel duplice omicidio furono immediatamente identificati e uno di loro fermato ma, poi, immediatamente rilasciato, non appena fu riscontrata la veridicità del suo alibi. Nei due giorni che anticiparono l’accusa nei confronti dei due adolescenti si svolsero a Novi alcune fiaccolate contro i migranti, e molti politici soffiarono sul fuoco. I giornali parlarono molto frettolosamente, nei titoli, di una banda di slavi, sobillando l’opinione pubblica verso cliché dello straniero socialmente pericoloso.

La perizia

E allora, quando l’albanese è solo un fantasma, quando la causa del delitto non è a portata di mano perché sfugge al senso comune, quando, come scriveva all’epoca Pietro Barcellona (Novi Ligure. Nel deserto della politica), «ogni relazione interpersonale e ogni relazione di gruppo sono sottoposte a una specie di bombardamento di messaggi e d’informazioni che esaltano la libertà assoluta (nel senso dell’assenza di ogni genere di vincolo), che dichiarano diritti senza doveri, pretese senza responsabilità», ebbene, allo scienziato non rimane che lottare per tentare strenuamente di restituire una parvenza di significato all’accaduto. L’unica strada, per non arrendersi, è quella di ri-appropriarsi dei propri strumenti di lavoro. 

Nel nostro caso abbiamo provato a coinvolgere i due adolescenti protagonisti del fatto con una tecnica di colloquio empatico, indagando i contesti familiari allargati, i contesti scolastici, sociali, della detenzione, proponendo un modello di elaborazione dei dati legato ai criteri di sviluppo, relazionali, aperti alla dimensione affettiva e simbolica.

Questa prospettiva metodologica è stata sostenuta dalla convinzione che nei due protagonisti della vicenda le “difese”, e quindi l’azione criminale, sono scattate nei confronti dei forti sentimenti suscitati dalla loro unione. Per questi motivi ci siamo particolarmente concentrati, nella nostra ricostruzione, della loro storia d’amore e nel processo che ha trasformato il dispositivo d’amore in un’arma per uccidere. Detto altrimenti, Erika e Omar hanno sicuramente costruito una coppia che funzionava come una monade isolata autoreferenziale, onnipotente e onnivora, fatalmente esposta a perdere il contatto con la realtà. Una coppia destinata, per potersi salvare, a esportare il conflitto, la distruzione e la morte all’esterno, individuando un nemico su cui far convergere l’odio e la paura. Combattere il nemico, individuato soprattutto nella madre di Erika, significava, nel dispositivo mentale di coppia da loro creato, garantire loro lunga vita, divenuti ormai una lugubre divinità capace di chiedere sacrifici umani pur di garantirsi la sopravvivenza illusoria del loro legame.

È su questo sofisticato livello di analisi intrapsichica e interpersonale che i periti hanno lavorato.

L’oracolo televisivo

A partire da queste premesse desidero porre una domanda che non può lasciar adito a fraintendimenti: per quale ragione, nulla o ben poco di quanto è stato scritto dai periti sulle cause dell’omicidio è stato “fatto proprio” dall’opinione pubblica?

In breve, concentrandoci ora soprattutto sul ruolo assunto dalla televisione, la risposta potrebbe essere che in TV si preferisce continuare a macinare i soliti clichés, e ripetere pedissequamente che sono determinati claims quali la crisi dei valori, l’incomunicabilità, l’istinto omicida, la mancanza di autorevolezza, l’influsso dei media, l’influsso del gruppo, la noia, l’educazione inadeguata, a essere stati il declic del gesto omicida. E infatti i mass-media hanno pubblicato, trasmesso e consumato il notiziabile, l’abnorme, soprattutto all’interno dei talk show serali.
Ma va registrato un altro scarto.

Accogliendo una tesi avanzata da vari mass-mediologi e sociologi propongo anche qui la suggestione di conferire alla TV – quando si parla di crimini e di giustizia – una sorta di funzione oracolare: la tesi è che il pubblico, del tutto estraneo alla effettiva realtà giuridica, accoglie alla stregua di verità rivelata tutto ciò che viene enunciato attraverso i veicoli consacrati nella TV. In sintesi, dobbiamo distinguere la razionalità dell’argomentare – messa in atto da parte di magistrati e periti –, dalla persuasione – messa in atto da parte della TV –, che anziché conformarsi sulla ricostruzione dei fatti e delle loro relazioni, accade come in una dimensione magica. Ma questi vincoli non preoccupano la televisione, che agisce, invece, secondo una sua sintassi temporale, costruita con tutti i caratteri dell’immediatezza.

Ciò significa che a differenza del registro giuridico/processuale – spazializzato nel passato, su un passato normativo e fattuale che è oggetto di giudizio – quello dei mass-media risponde a un’autorità di fatto, da intendersi come la potestà di mettere in scena la realtà. La loro pretesa è addirittura quella di contendere alla giustizia la capacità di incarnare il luogo di visibilità della democrazia.

Prendendo il via da questa dissertazione, Antoine Garapon (I custodi dei diritti. Giustizia e democrazia, Milano 1997) giunge addirittura a sostenere che la pretesa dei mass-media è di incarnare un nuovo spazio pubblico, più moderno dello Stato. Ecco perché il ricorso selvaggio alle rivelazioni oracolari da parte dei claim marker accredita l’idea che in democrazia l’opinione degli esperti (in questo caso i criminologi da salotto televisivo) chiamati a rivelare le loro verità in televisione sia addirittura più autorevole delle argomentazioni del giudice. Far decidere ai claim marker televisivi il futuro di un condannato alimenta perversamente l’illusione che il compimento di una democrazia avviene nell’emancipazione dalle istituzioni che l’hanno costituita. Ma una democrazia d’opinione, regolata solo dal mercato è una democrazia senza simbolico, senza istanza sovrastante, insomma senza autorità reperibile e operante e governare senza istituzioni è una vera e propria distopia.

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