Reinventare il giornalismo, tra scuola e strada

( Intervento del presidente Riccardo Sorrentino nell’incontro con gli allievi della Scuola di giornalismo Walter Tobagi – Università di Milano, 23 febbraio 2022 )

«Non siete nessuno». Queste parole ci accolsero, il 16 novembre 1989, all’inizio del Settimo biennio dell’Ifg. In realtà l’espressione fu più colorita, e aveva un senso. L’allora presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, Franco Abruzzo, era appena uscito dall’aula, dove aveva parlato di noi come della futura élite del giornalismo lombardo e italiano, e correggere il tiro era necessario. Abruzzo avrebbe avuto ragione, nel tempo, ma il nostro lavoro quotidiano richiede un atteggiamento di semplicità, di curiosità: le continue sollecitazioni della realtà sono più importanti di quello che sappiamo già o pensiamo di sapere e di essere.

Cercherò di evitare, oggi, gli eccessi retorici, ma è vero che avete un compito importante, delicato, davanti a voi, ora che vi avviate verso le redazioni. Il lavoro che occorre fare, oggi, e che tocca a ciascuno di voi – e anche a ciascuno di noi, che abbiamo se non altro il compito di prepararlo – è quello di reinventare il giornalismo, quasi da zero; un compito che può essere svolto solo se si vince la battaglia contro i luoghi comuni che assediano questo lavoro, che hanno impedito a lungo nel nostro mondo una vera integrazione tra i saperi e la pratica, il pensiero e l’azione, si sarebbe detto un tempo. Questo è invece il momento in cui occorre pensare anche alla nostra professione., a come viene svolta.

Il motivo è semplice, e noto. Le tecnologie hanno travolto i business models, che vanno ripensati, e al tempo stesso stanno impoverendo il vero compito dei giornalisti: il gatekeeping, la decisione di quali notizie, quali informazioni siano importanti per il pubblico a cui ci rivolgiamo. Attenzione: i due fenomeni sono strettamente collegati. L’attività di gatekeeping rende il mercato dei mass media informativi molto particolare, tale da richiedere grandi cure. È un mercato in cui l’offerta di informazioni da parte nostra, incide, indirizza, plasma la domanda di informazioni da parte dei nostri pubblici. Il modello dei media finanziati dalla pubblicità ha un po’ occultato questi fatti, e la natura delle vecchie imprese editoriali, con alti costi fissi e alti margini una volta raggiunto il break even, il punto di pareggio, ha dato l’impressione che il mercato fosse strutturalmente uguale a quello dei beni di consumo, e non – per analogia e ricordando le dovute differenze – a quello dei servizi sanitari.

Il compito dei giornalisti, oggi, non è però quello di ripensare i business models quanto quello di fare un ottimo prodotto. Solo il giornalismo di qualità – recita quello che è diventato ormai un luogo comune – può farci sopravvivere. Quella “qualità” però va meglio definita. È per questo che l’Ordine dei giornalisti vuole alimentare la cultura del giornalismo di precisione, che ci può permettere di recuperare la funzione di gatekeeping, ma anche di rispondere ad altre sfide: a quella delle fake news, a quella dell’infodemia, per esempio.

“Giornalismo di precisione” è un’espressione coniata nel 1973 dal giornalista, e docente, Philip Meyer, e si riferiva solo a quello che sarebbe poi diventato il data journalism. Il data journalism è una componente importante del giornalismo di precisione, come lo intendo io, a patto che esca dall’isolamento in cui è stato rinchiuso e che lo ha fatto diventare una sorta di raffinato giornalismo grafico. La pandemia ha mostrato l’importanza dell’analisi dei dati, soprattutto in caso di fenomeni non lineari come le epidemie; ma anche il riscaldamento climatico non può essere davvero compreso se all’analisi della media delle temperature, che sale, non si affianca – come va sempre fatto – quello della loro aumentata variabilità, che spiega perché abbiamo comunque grandi caldi e grandi freddi, i quali non negano, non confutano il riscaldamento climatico. Ancora: il singolo sondaggio politico dice poco anche se sembra “fare notizia”, ma esistono tecniche – non semplici ma neanche impossibili – che permettono di analizzare più sondaggi insieme, nel loro svolgimento temporale, e individuare le tendenze.

Il giornalismo di precisione non è solo questo, però. È precisione nel linguaggio, accuratezza e completezza nella raccolta e nella redazione delle informazioni, è attenzione nella selezione delle fonti e degli “esperti” da intervistare. La pandemia ci ha insegnato l’importanza nel definire una o più relazioni d’ordine tra fonti ed esperti. Non solo per evitare di mettere uno scienziato sullo stesso piano di un personaggio pubblico notissimo, ma non competente, ma anche per evitare di confondere il clinico, che osserva solo i suoi pazienti e li cura, dal ricercatore, che fa analisi più ampie e solide, il virologo che studia il virus dall’epidemiologo che, attraverso strumenti statistici, aiuta a prevedere la diffusione di una malattia. È un giornalismo che, oltre alle informazioni, individua i concetti chiave che permettono di analizzare società complesse come le nostre.

È un giornalismo che è andato a scuola, insomma; e, allo stesso tempo, si è forgiato sulla strada, per usare i vecchi luoghi comuni. Il mio consiglio, qui, è allora quello di non fare l’errore di tanti miei colleghi, vecchi e giovani, del lontano 1989: quello di disdegnare il sapere in nome della pratica. Nel 1989 i giornalisti più anziani sorridevano – quando andava bene – all’idea di una scuola di giornalismo; anche se la Francia l’aveva introdotta nel 1899.

Io, allora, sognavo i programmi di quelle scuole di giornalismo francesi, che per un anno intero facevano studiare per esempio i bilanci comunali e i piani regolatori della città che ospitava la scuola. In modo da costruire il contesto concreto in cui inserire le informazioni raccolte facendo cronaca.

Non so se oggi quei programmi avrebbero ancora senso, ma è questa la scuola di giornalismo che ancora sogno. Attenzione però: molto dipende anche da voi, dall’uso che fate dei corsi accademici e, in futuro, delle discipline che studierete. Dall’Ifg del 1989, un biennio straordinario, sono riuscito a trarre davvero moltissimo, malgrado fosse diverso da quanto immaginassi. Oggi tocca a voi.

Buon lavoro.

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