(Testo preparato per l’intervento del presidente Riccardo Sorrentino al convegno Pandemia e Informazione, organizzato dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia e dall’Ordine dei medici di Milano con il patrocinio della Regione Lombardia – Milano, 22 ottobre 2022)
La pandemia è stata, dal punto di vista dell’informazione, uno degli episodi che merita di essere studiato a lungo nelle scuole di giornalismo e nei corsi di formazione continua, alla ricerca di quel “nuovo giornalismo” che io mi ostino a chiamare – copiando l’espressione dal data journalism – “giornalismo di precisione”.
Il motivo è semplice. La pandemia ha esposto, ha reso evidenti alcuni problemi strutturali del giornalismo che, nelle sempre più necessaria autoriflessione sul nostro modo di lavorare, occorre affrontare.
Che sia chiaro: credo che il giornalismo italiano abbia grandi potenzialità. I giovani sono straordinari. A volte sembriamo però come i protagonisti dell’Angelo sterminatore, di Luis Buñuel, che restano chiusi nelle sale in cui si svolge il film e non riescono a uscire, senza motivo. Siamo prigionieri di alcuni luoghi comuni, tra i quali quello secondo cui il giornalismo non si studia.
I problemi posti – o meglio: esposti – dalla pandemia sono essenzialmente due, in parte legati tra loro. Quello dell’incertezza, e dell’informazione sull’incertezza e nell’incertezza; e quello della riduzione delle asimmetrie informative tra esperti e grande pubblico.
Durante la pandemia il mondo ha affrontato, di nuovo, l’incertezza. Un’incertezza radicale, non quantificabile in una percentuale; anche perché ci trovavamo di fronte a un fenomeno evidentemente non-lineare, esponenziale per giunta.
Ogni racconto della realtà che facciamo è intriso di incertezza. Per qualcuno è la stessa realtà a essere in sé “probabilistica”, ma per il lavoro quotidiano del giornalista non è molto importante se questa incertezza sia ontologica o solo gnoseologica. Più importante è il fatto che tutti noi ci culliamo nell’illusione che questa incertezza non debba esistere. Vada esorcizzata. Capita anche ai giornalisti. Se mi permettete un ricordo personale, alla scuola di giornalismo mi insegnarono, o almeno tentarono di farlo, che occorreva “dare certezze” negli articoli; e alla mia obiezione: “cosa succede quando non ne abbiamo o non ce ne sono”, la reazione fu sostanzialmente di grande irritazione.
Era nascosta, in quegli insegnamenti oggi improponibili, un’esigenza importante, oltre all’idea sbagliata del giornalista come educatore: quella che ciascun articolo abbia una sua solidità, un suo focus – come lo chiamano le scuole anglosassoni – che sia esso la conclusione del lavoro di ricerca o la tesi che si vuole dimostrare (possibilmente dando conto anche delle possibili obiezioni). Dare solidità a un articolo non è però dare certezze. Se c’è una forma di giornalismo che occorrerebbe dimenticare, perché fuorviante, è quella del pastone, che crea questi equivoci, o almeno li alimenta.
La pandemia ha esposto in modo ineludibile il tema dell’incertezza anche perché, nelle settimane più difficili, sapevamo di non sapere. Non è una situazione del tutto normale, anche se dovrebbe esserlo. Spesso non sappiamo di non sapere, o fingiamo di non saperlo. Di fronte al coronavirus, invece, non potevamo sfuggire alla realtà dell’ignoranza. Non è stato facile. A volte abbiamo ceduto alla tentazione di divulgare un’apparente, illusoria, magari infondata certezza invece di dire, in modo corretto e veritiero: non sappiamo, neanche gli esperti sanno.
Raccontare l’incertezza, informare, comunicare sull’incertezza è un tema molto delicato non solo per i giornalisti. I meteorologi hanno questo problema; ma le app specializzate hanno insegnato al pubblico a “leggere” le probabilità di un evento incerto come la pioggia. Una probabilità, peraltro, non riducibile alla frequenza, alla probabilità, insomma, del lancio dei dati, è qualcosa di più complesso. In economia, dove tutte le equazioni sono ormai stocastiche, c’è un problema analogo, e non a caso per molto tempo la Bank of England e l’associazione dei meteorologi britannica si sono incontrati una volta l’anno per discutere sul tema di come comunicare l’incertezza. Anche i giornalisti dovrebbero farlo: distinguere frequenza, probabilità e incertezza radicale; distinguere i processi lineari e quelli non lineari come le epidemie ma anche, per passare a un diverso problema, come l’inflazione, che è non-lineare anche se non è esponenziale. Occorre ricordare che la storia fa salti imprevedibili – la pandemia, ancora; la guerra; la crisi di Lehman nel 2008 – senza che questo diventi un elemento di scandalo.
Occorre anche imparare a leggere i dati: io personalmente non ho seguito la pandemia, se non dal punto di vista delle ricadute economiche. Ho seguito un corso online di data science offerto dalla Johns Hopkins University, dal dipartimento di Biostatistics: tutti gli esempi erano tratti dalla medicina. Quando ho cercato di applicare le mie conoscenze ai dati sull’epidemia, limitandomi ovviamente all’analisi esplorativa, e ho incontrato molte difficoltà. Mi era facile linearizzare le curve esponenziali, mi era molto difficile intrpretarle.
È anche vero, va detto, che in alcuni casi le nostre stesse fonti “vendono” finte certezze. Penso, per esperienza personale, alle previsioni economiche, che hanno ampi margini di incertezza ma sono diffuse con un dato singolo, preciso; o ad alcuni medici, che si sono un po’ comportati come dei guru.
Il tema dell’incertezza offre anche una difficoltà in più per chi debba raccontare la realtà e, insieme, dar conto del dibattito pubblico. Si parla molto spesso di una scienza incerta e sicuramente, su un tema come quello pandemico, in cui faceva inevitabilmente notizia anche il paper provvisorio, non ancora peer reviewed, era evidente che si procedeva a piccoli passi.
L’incertezza della scienza è però un forte argomento retorico usato dalla politica per poter rivendicare – sbagliando, a volte clamorosamente – il proprio primato sulla ricerca. Non è una novità, nella sanità: ricordiamo il caso di Bella, il metodo Stamina. Oggi, in tutto il mondo, la destra ha invocato e invoca l’incertezza della scienza per contestare prima il fenomeno stesso del riscaldamento climatico, e oggi che non è più possibile, la sua natura antropica. Questa teoria, ormai corroborata da ricerche di migliaia di studiosi indipendenti, dà fastidio per i costi che impone; nel presupposto che un riscaldamento non antropico sia meno oneroso di uno antropico. Conclusione, peraltro, molto coraggiosa, sulla quale nutro qualche dubbio.
Anche durante la pandemia si è assistito al tentativo di piegare la scienza a questa o quella opinione, o convenienza politica. Confondendo spesso la fallibilità della scienza, con l’incertezza delle sue conclusioni. La scienza non è incerta, è fallibile. Procede per tentativi ed errori – come, si potrebbe dire, tutta l’attività pratica umana – ma non si possono negarne i progressi, non sempre lineari, ma inequivocabilmente progressi. La medicina è lì a dimostrarlo.
In concreto, tutto questo si manifesta con la tendenza, non solo italiana come mostra l’esperienza negli Stati Uniti, di trasferire tutti i discorsi in polemica politica, in critica ideologica. Una tendenza che, per chi come i giornalisti deve confrontarsi con la “verità sostanziale dei fatti”, e riferirla correttamente, è un rischio – e a volte una tentazione – mortale.
Ha probabilmente inciso un lungo processo culturale, fondato su una cattiva interpretazione di quella che Paul Ricoeur ha chiamato la scuola del sospetto. Marx, Nietzsche, Freud hanno esplorato e reso evidenti i motivi per cui sosteniamo una tesi piuttosto che un’altra; questi motivi, però non dicono nulla sulla verità o sulla falsità di queste argomentazioni, nulla sulla loro solidità, sul loro rigore logico. Ha anche pesato la tendenza, nel tempo a spostare il discorso dal pensiero, e quindi dalla razionalità, al linguaggio. Ho insistito – devo dire senza trovare resistenze… – perché questo convegno fosse intitolato Informazione e pandemia e non Comunicazione e pandemia. La differenza non è semplicemente formale: nell’informazione c’è un riferimento implicito alla verità che nella comunicazione può mancare.
Diventa quindi importante, per il giornalismo, avere molto chiara la natura della scienza. La scienza pone al giornalismo un compito importante, quello della riduzione dell’asimmetria informativa, la distanza tra quello che sa – nel caso della medicina – il medico e quello che sa il paziente, effettivo o potenziale. In nessun settore l’asimmetria informativa è così ampia come nella sanità. Si potrebbe dire che nessuno di noi è davvero in grado di giudicare il proprio medico, il lavoro che ha svolto. È uno dei tanti motivi per il quale il settore economico della sanità non può essere affidato al solo mercato.
Il giornalismo ha due modalità per ridurre l’asimmetria informativa. Il primo è quello della mediazione tra l’esperto e il grande pubblico; il secondo è quello della divulgazione.
Parlerò poco della divulgazione, che pure crea un problema non del tutto irrilevante in questo contesto: quella della ipersemplicazione. Ipersemplificazione dei contenuti, dando l’impressione che alcuni modelli scientifici siano molto semplici; ipersemplificazione del lavoro scientifico, come se bastasse un po’ di speculazione, di critica astratta, per raggiungere un risultato. Possiamo essere sicuri che, qualsiasi obiezione ci venga in mente su una teoria scientifica, questa sia stata già esaminata dagli esperti o, se siamo proprio bravi, sia attualmente sotto analisi.
Una fisica tedesca ha trasformato l’illusione di poter criticare la scienza in business: ha venduto servizi di consulenza, al prezzo non irrisorio di 50 euro per una ventina di minuti – se ben ricordo – per rispondere a queste obiezioni e spiegare perché non erano valide. Nei migliori dei casi – ingegneri, in genere – ha potuto accompagnare i propri “clienti” alla pubblicazione di articoli di “compilazione”, non certo di innovazione o di rottura. Il compito della divulgazione deve essere allora quello di far capire la realtà delle cose, a cominciare dalla complessità della ricerca scientifica: l’asimmetria informativa va ridotta ma non è strutturalmente azzerabile; a meno di non avere le stesse identiche competenze dell’esperto.
Altrettanto delicata è l’attività di mediazione tra esperti e grande pubblico. La pandemia ha mostrato che lascia molto a desiderare. Se appare abbastanza chiaro – anche se a volte esigenze di spettacolo, nell’infotainment, porta a dimenticarlo – che non si può mettere sullo stesso piano un astronomo e un terrapiattista, o un astrologo, diventa molto più complicato definire i diversi piani su cui si muovono gli specialisti. Oggi sappiamo – è un esempio che ripeto spesso – che un virologo, che sa tutto di virus, ha competenze diverse da un epidemiologo, che studia statisticamente la diffusione delle malattie, e da un clinico, che “vive” la malattia negli ospedali, vicino alle persone, ma non può essere certo che il suo campione di ammalati sia rappresentativo dell’intera popolazione, o sia un cluster in qualche modo anomalo. Distinguere le diverse figure, le diverse competenze, diventa un elemento essenziale per la stessa ricostruzione della realtà delle cose.
Allo stesso modo, e qui emerge tutta la complessità della questione, non si può mettere sullo stesso piano chi, in un certo senso, “rappresenta” anni di ricerche di migliaia di scienziati, perché fa parte della città della scienza e ha svolto personalmente ricerche, con chi ha semplicemente un’opinione anche informata – per esempio un medico che quelle ricerche ha solo letto, anche in modo approfondito – o ancora chi è invece portatore di una idea eterodossa che deve ancora conquistare il consenso degli altri scienziati. Si possono fare molti esempi, ma quello dei vaccini credo che sia il più indicato. Una discussione tra un vaccinista o un antivaccinista, posti sullo stesso piano, non descrive la realtà delle cose; e così anche quella di un esperto di vaccini mRna e il medico informato che li teme e li contesta. Non è una questione di gerarchia qualitativa.
Forse non accadrà mai, ma in un giornalismo ideale – e qui di un giornalismo ideale inevitabilmente parliamo – occorrerebbe chiedere agli esperti il loro indice bibliometrico, l’h-index. Mi rendo conto che, in Italia, è ancora un po’ un’eresia, e so benissimo che questi indici, come tutti gli indici, hanno i loro limiti, ma sono convinto che di Einstein, lo scienziato che ha trasformato la fisica ma che avrebbe avuto a lungo un h-index molto basso, ce ne siano pochi, in giro. Ricordiamo che questi indici sono comunque uno strumento utile per avere una prima idea, almeno, dell’impatto di un esperto sui suoi colleghi e, insieme all’elenco delle pubblicazioni che quell’indice contribuisce a calcolare, in che campo è davvero esperto.
Un altro pericolo che va evitato è quello dello slittamento del discorso dal contesto strettamente scientifico a quello politico. Ho già accennato dell’uso politico della scienza: c’è un uso retorico dei modelli scientifici, la tentazione di farsi forza della scienza per sostenere questa o quella politica, ma è compito anche del giornalista tenere i discorsi distinti: da un lato l’analisi della realtà, dall’altro la deliberazione sul da farsi, con i suoi costi e i suoi rischi da gestire. Due mondi diversi.
Emergono allora in tutta la loro forza due esigenze profonde per il giornalismo. La prima è quella di una sempre maggiore formazione, solida, rigorosa, non superficiale, che permetta di ricostruire con accuratezza – un concetto centrale, nella pratica del giornalismo – la realtà che ci circonda. Voglio insistere su questo punto, non si tratta di una gerarchia di valore tra gli esperti o tra le loro opinioni, ma di differenze della realtà del lavoro di questi esperti. La realtà che descriviamo non è fatta solo di cose ma anche di discorsi e l’ordine del discorso è multidimensionale, i diversi piani si intersecano, e in esso la verità e potere hanno un rapporto che sarebbe semplicistico definire dialettico. Il giornalista deve essere libero non solo dai condizionamenti dei potenti, che siano politici, istituzioni o aziende; ma anche da quella che potrebbe essere chiamata la banalità del falso, del fake, in cui è facile cadere, se non altro per pigrizia. Tra gli “imbecilli” dei social network – per usare un’espressione, secondo me fuorviante e da respingere, di Umberto Eco – ho visto docenti universitari di valore, incapaci di trasferire alla vita quotidiana quegli stessi prudenti strumenti di verifica e di critica logica che usano sapientemente nei loro studi.
La seconda esigenza è quella di trasformare tutto questo in protocolli concreti, pratici. Il lavoro del giornalista è maledettamente rapido, ha bisogno di procedure che semplifichino il lavoro quotidiano. Trovare un esperto da “quotare” – come ormai si dice con un brutto anglicismo – o da intervistare è compito spesso difficile. È certo però che alcuni vecchi protocolli – bastano due citazioni di persone diverse, cerca un’opinione a favore e un’opinione contro, sentiamo un uomo o una donna della strada, oppure un vip – sono sicuramente superati, inadeguati. Lo sviluppo di un tema scientifico, come può essere la pandemia, va inoltre costruito strategicamente, nel tempo, e non può esaurirsi in un solo articolo, né in una successione un po’ casuale di articoli.
A questo punto emerge un ultimo problema, che riguarda l’organizzazione del lavoro giornalistico. Occorrono sempre più giornalisti e redazioni specializzate che siano in grado di seguire bene i grandi fenomeni. Occorrono redazioni grandi per poter leggere l’attuale realtà; ma la realtà economica dei giornali non riesce più a sostenere né redazioni grandi né, entro certi limiti, le specializzazioni. Il giornalismo finanziato dalla pubblicità non regge più. Occorre tornare a dare all’informazione un valore economico, e pagarlo. Questo però è inevitabilmente un altro discorso, ancora aperto, ancora molto incerto.