(Intervento del presidente Riccardo Sorrentino al Webinar Diritto all’informazione e libertà di espressione nel panorama dei diritti umani, organizzato dall’Ordine degli avvocati di Milano – 26 ottobre 2022)
La libertà di informazione e la cosmopolis contemporanea… Ho scelto un titolo pretenzioso, per questo mio intervento. Responsabilità tutta mia, non certo degli organizzatori, che ringrazio per l’invito. È un titolo che va spiegato, anche a costo di avvicinarmi solo lentamente all’argomento della libertà di informazione.
Cosmopolis è un concetto a me molto caro. Nasce dal mondo stoico, che attraversa l’intera cultura europea come un sottile filo, quasi invisibile, e passando ovviamente per Kant, giunge fino a noi. Evoca innanzitutto altre due idee.
Cosmopolis evoca il mondo intero, evitando le opposte retoriche sulla globalizzazione. È il cosmos greco, ordinato e tragico al tempo stesso, come si sta manifestando in queste settimane.
Evoca anche la città, la poleis: un luogo la cui qualità è quella di far convivere persone con caratteristiche profondamente diverse. Ricordiamo che Clistene rivoluzionò Atene, facendone una democrazia, mescolando le tribù e imponendo esplicite regole di convivenza: una costituzione, non la prima, ma una delle più importanti dell’antichità.
Oggi assistiamo invece – se non altro nel linguaggio – a un allontanamento da questa idea, a favore dell’idea di comunità, richiamata continuamente, non sempre in modo coerente con la realtà che si vuole descrivere. Comunità è un gruppo di persone non necessariamente piccolo, ma piuttosto omogeneo, tenuto insieme da una tradizione, da un’identità. Ho sentito un politico importante, e illuminato, parlare di Milano come di una comunità da omogeneizzare. Le politiche che dovrebbero realizzare questa omogeneizzazione sono ampiamente condivisibili – si parlava, in quel caso, di case popolari – ma è emblematico l’uso di questa parola. Milano non è una comunità, è stata definita una Città-mondo di categoria A, non paragonabile a New York, ma comunque una delle grandi città avanzate del mondo: innovativa, moderna, diversificata. Non credo che comunità sia il concetto più adatto per descriverla e per disegnarne le politiche.
L’idea della comunità è diventata centrale in diverse dottrine politiche. Esiste un comunitarismo a destra e uno a sinistra; esiste un comunitarismo repubblicano [e forse il repubblicanesimo italiano, mazziniano e nazionalista, ne è l’espressione più pregnante]. Persino il liberalismo ha civettato con l’idea: se Friedrich Hayek da una parte ha lanciato un monito sui rischi di trasferire a un’intera società le caratteristiche e gli obiettivi per così dire politici di una comunità piccola, dall’altra ha adottato l’idea di tradizione. L’idea dello scontro delle civiltà, oggi ancora molto diffusa, non è altro che la trasposizione di una logica comunitaria al mondo delle relazioni internazionali. Oggi – a destra, a sinistra, al centro – persino il nazionalismo, che per certi versi fa della nazione una enorme comunità, torna in auge sotto le mentite spoglie del sovranismo, sia pure a volte europeo.
La questione della comunità è rilevante, per la libertà di informazione, per i suoi legami con il tema dell’identità. Un’identità che è un insieme di elementi “simbolici” che tengono unità la comunità stessa; e non sono necessariamente veri. Nell’era delle fake news, anzi, possono essere falsi, ma allo stesso tempo creduti con grande forza. Posso portare come esempio l’importanza che ha – per tener insieme la comunità dei seguaci di Trump – la fede nelle frodi elettorali a danno dell’ex presidente, che non è stato possibile dimostrare in alcun modo. È una fake news che definisce fake news tutti i tentativi di confutare quell’idea. E se negli Stati Uniti del primo emendamento non è certo vietato contestare l’esistenza di brogli, in molti altri paesi simili costrutti simbolici non possono essere negati se non a costo di una repressione anche violenta.
Oltrepassare la comunità è un salto culturale: da una cultura testuale, basata sulle tradizioni, si passa a una cultura grammaticale, fondata sulle regole.
Val la pena di ricordare che, in quella che è la sempre più frequente ricostruzione dell’identità europea, delle fonti della cultura occidentale, si dimentica l’aspetto fondamentale: la sua modernità è figlia delle guerre di religione, e dell’orrore per le guerre di religione. Orrore che è stato esorcizzato superando l’idea della comunità, in quel caso religiosa, in molti sensi diversi: costruendo lo Stato superiore a qualunque comunità; dando centralità agli individui, non tanto perché erano i protagonisti, ma perché sono gli attori più deboli della vita sociale; e sviluppando ulteriormente il diritto: ecco il lungo cammino dai diritti naturali, naturali in quanto razionali e universali – è lo stoicismo che ritorna – verso l’idea dei diritti dell’uomo e della donna, quella della costituzione, quella del diritto internazionale e del diritto della guerra, del liberalismo nel senso più nobile e generoso della parola. Non è certo a voi giuristi che devo ricordare come il diritto, privato, pubblico, internazionale, sia anche il tentativo di proceduralizzare i conflitti, con l’obiettivo di evitare l’esplosione incontrollata della violenza. Oltrepassare la comunità è un salto culturale: da una cultura testuale, basata sulle tradizioni, si passa a una cultura grammaticale, fondata sulle regole.
Ecco cosmopolis, la città mondiale, che si costruisce lentamente, alla costante ricerca della sua costituzione universale. Si è abbandonato troppo facilmente, credo, il tema dell’universalità dei diritti. Ha pesato forse l’imbarazzo dell’Occidente, una “parte” della città globale che ha proposto quello che sembra un suo progetto; e non va dimenticato che ha spesso usato la forza delle armi. È sembrata una forma di imperialismo, ma una cosa è il rispetto della storia degli altri popoli, un’altra è la rinuncia a principi che sono universali non perché condivisi da tutti – non lo sono – ma perché possono valere per tutti.
Credo che non ci sia stata immagine più fuorviante, e più rassicurante, di quella del villaggio globale, che dobbiamo a McLuhan, per leggere il mondo attuale. Il mondo attuale è più simile al caos ordinato di una città che all’ordine immutabile di un grandissimo villaggio; e come tutte le città non è tenuta insieme da una tradizione, da un’identità, ma da un insieme di regole che si tenta continuamente – tra molti fallimenti – di applicare, di rivedere, di correggere. Regole che non sono però un mero strumento tecnico come a volte la scienza giuridica – giustamente, dal suo punto di vista – vuole farla diventare, ma sono una realtà vivente. Si è usato più volte il concetto di religione per descrivere lo spirito di queste regole della modernità: dalla religione della libertà di Benedetto Croce, alla religione della Costituzione, fino alla “religione dei diritti umani”, evocata da molti autori conservatori in senso polemico (ne parla anche, per esempio, François Furet). Non credo che il concetto di religione sia il più adatto, ma sono convinto che quei diritti, quelle libertà siano e debbano essere delle realtà viventi, che animino la vita quotidiana, siano elementi della consapevole e tragicamente lenta costruzione di questa Cosmopolis, che non può che essere globale.
È abbastanza pacifico – lo ha notato anche la nostra Corte costituzionale – che la libertà di manifestazione del pensiero sia il più importante forse di questi diritti e queste libertà. Di essa la libertà di informazione ne è una componente fondamentale. La legge che ha istituito l’Ordine dei giornalisti – un ordine per diversi aspetti sui generis – definisce “libertà insopprimibile” la libertà di informazione e di critica ed è una definizione tanto chiara quanto preziosa. È una libertà imperfetta, dovunque: in Italia trova limiti nella previsione del carcere per la diffamazione, nella pratica non sufficientemente contrastata delle citazioni temerarie – ricordiamo che in altri ordinamenti è punita solo la pubblicazione di notizie false fatta allo scopo di nuocere – nelle nuove regole sulla presunzione di innocenza che hanno affidato alla pubblica accusa il compito di definire quali notizie siano interesse pubblico o no; e ora anche nelle nuove norme sul diritto all’oblio che presentano aspetti molto controversi, su cui l’Ordine nazionale è intervenuto. L’Italia è sempre molto indietro, nelle classifiche sulla libertà di stampa, soprattutto per la presenza intimidatoria delle grandi organizzazioni criminali, a dimostrazione del fatto che la compressione delle libertà e dei diritti non viene soltanto da chi rivendica il monopolio della violenza, lo Stato, ma anche da parte di chi questo monopolio contesta, come le mafie. Nel mondo delle comunità, delle identità, delle fake news, si sollevano forti le tentazioni di limitare questa libertà, a volte persino nel nome della dignità degli uomini e delle donne, un principio che è stato un dono prezioso della cultura italiana al mondo; oppure all’opposto a lamentarne violazioni anche là dove non c’è – o non è necessario che ci sia – violenza, ma solo un opposto diritto di critica, che è il diritto – e il dovere – di “prendere posizione”: penso al bando di alcuni personaggi sui social, alle discussioni anche aspre su internet, al politically correct e alle sue contestazioni, alla cosiddetta cancel culture che, al di là di alcuni aspetti folkloristici o anche estremi, è parte del continuo interrogarsi su chi celebrare e chi no nelle nostre culture.
Non credo che ci sia spazio per illusioni: il conflitto – come dire – “esterno” tra i grandi principi giuridici, tra i diritti, è inevitabile e va spesso risolto nella concretezza delle circostanze e del contesto in cui emergono. Soluzioni “a priori” – credo – sono impossibili: rendono relativi principi che sono, se non assoluti, almeno relativamente assoluti.
Oggi che il tema più importante è quello delle fake news, dell’information warfare, del complottismo, mi sembra necessario affrontare brevemente il problema del rapporto tra la libertà e la verità. Si sta diffondendo l’idea che sia possibile comprimere la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di informazione in nome della verità. Si inizia a parlare, non sempre a sproposito, di un diritto alla verità: per esempio su alcune tragedie storiche – l’Argentina, il Sud Africa, l’Africa intera – ma anche in alcune decisioni della Corte europea dei diritti dell’Uomo. In Italia ha affrontato il tema Stefano Rodotà, a proposito della situazione politica dei primi anni del secolo; ne ha evocato la legittimità una filosofa attenta come Franca d’Agostini.
Io credo, come mostra la realtà giuridica dei paesi anglosassoni che il tema della verità in qualche modo faccia parte integrante del tema della libertà di informazione. Così come non esiste un diritto alla felicità, ma un diritto alla ricerca della felicità – un concetto che la cultura illuminista di Gaetano Filangieri ha donato agli Stati Uniti – così non esiste un diritto alla verità, ma un diritto alla ricerca della verità, e questo diritto corrisponde con la libertà piena di manifestazione del pensiero e di informazione. L’evoluzione storica di questa libertà, le argomentazioni che da John Milton in poi sono state proposte per sostenere questo diritto, sono lì a dimostrarlo.
La libertà di informazione può tollerare – purché, ancora, non diventi strumento per nuocere – persino la libertà di diffondere argomentazioni la cui verità non sia pienamente dimostrata o dimostrabile, si pensi alle verità religiose. Naturalmente, esistono anche altri diritti e altre libertà, sorge subito il tema più volte sollevato sulla opportunità di tollerare gli intolleranti, e non è immediatamente evidente se abbia ragione Karl Popper, che escludeva ogni forma di tolleranza, o John Rawls, che invece riteneva che una società liberaldemocratica non potesse mai macchiarsi dell’orrore dell’intolleranza. [Durante gli anni di piombo, in Italia, la questione se pubblicare i comunicati delle Brigate rosse è diventato, giustamente, quasi drammatica].
L’applicazione concreta della libertà di informazione nel contesto degli altri diritti è dunque difficile. Non può essere affidata ai soli tribunali, ma deve diventare una libertà viva. Per coloro che pubblicano informazioni per lavoro, diventa addirittura essenziale avere proprie regole, propri “tribunali” e proprie sanzioni. Non a caso, in tutto il mondo i giornalisti si sono attivati, creando press councils, consigli della stampa, per la valutazione deontologica del loro stesso operato, affidato ai pari e non ai giudici, spesso alla mediazione e non al giudizio, proprio perché sia strumento di libertà. È una valutazione che – a parte qualche scivolamento verso questa o quella etica, tipico dei tempi – è tutta centrata sull’accuratezza del lavoro giornalistico e quindi sul contributo che può dare alla ricerca della verità.
Non è un caso, credo, che questo tipo di valutazione segua – nell’identificazione dei comportamenti deontologicamente scorretti e nella determinazione delle sanzioni – principi molto simili a quelli del common law, anche se esiste un Testo unico dei doveri del giornalista. La libertà di stampa, il suo corretto utilizzo, il rapporto con gli altri grandi diritti va valutato nella concretezza delle circostanze e dei contesti.
Tutto questo affida all’Ordine dei giornalisti un compito complesso, che va in larga parte costruito: diventare un presidio, non risolutivo ma importante per la libertà di informazione, fornire con la formazione gli strumenti per esercitarla con metodo e rigore interno ed evitare quella che ho chiamato la banalità del falso, del fake, in cui è facile cadere, se non altro per pigrizia; fare della deontologia un vero strumento per tutelare questa libertà, saper indicare – in base alle decisioni dei consigli di disciplina, oggi autonomi – quali comportamenti sono corretti e quali scorretti: il valore delle decisioni è soprattutto segnaletico, la sanzione serve a renderle credibili.
È un lavoro enorme, da compiere con uno sguardo aperto al mondo. È un punto, questo, che mi sta molto a cuore. Quel che è vero a Mosca, o a Kiev, non può essere per noi irrilevante. Essere liberi di esprimersi a Mosca o a Kiev, o ovunque nel mondo, è altrettanto importante per gli abitanti di quelle terre non così lontane, come per noi. Non si è davvero liberi, non si esercitano diritti sicuri – è mia ferma opinione – in un mondo di sudditi.