L’Ordine e la libera informazione come bene fondamentale

di Riccardo Sorrentino

«J’écris ton nom». Come non amare la poesia di Paul Eluard. «Scrivo il tuo nome», dice e ripete, per poi rivelare alla fine di chi sta parlando; della “liberté”. Era in origine una poesia d’amore, destinata a una donna; ma era il 1941, la Francia era occupata, divisa, umiliata. Nella battaglia di Francia 59mila persone erano morte, 123mila ferite, 1.800.000 prigioniere. La libertà era l’amore più grande.

Amare però non basta. Occorre, come si dice, voler bene, e la volontà è azione: concreta, quotidiana. Libertà è un nome scritto in mille leggi e mille costituzioni – leggete la Costituzione della Russia, l’articolo sulla libertà di stampa – ma non sempre è rispettata. A meno che non diventi patrimonio di tutti, non animi l’attività di ciascuno di noi.

L’informazione è un bene pubblico, ha ricordato l’Unesco un anno fa esatto, nella giornata della libertà di stampa. Ha citato Joseph Stiglitz, che ha ricevuto il premio Nobel per i suoi studi sul ruolo dell’informazione nell’economia. Definire l’informazione come bene pubblico, anzi come “bene fondamentale”, come è più giusto; riconoscerne la necessità per il buon funzionamento del sistema economico, ma anche di ogni sistema politico che voglia essere libero e democratico, e di ogni società che non sia e non voglia restare chiusa, apre orizzonti nuovi. Sul piano economico – oggi che il modello di business dei giornali si è svuotato – significa per esempio domandarsi se non occorrano sostegni pubblici; se non sia opportuno aprire o addirittura riservare alle società senza scopo di lucro – non necessariamente le cooperative – l’attività giornalistica. Sono tutti temi che val la pena di esplorare.

Anche per Vladimir Putin, però, l’informazione è un bene pubblico: infatti punisce con 15 anni di carcere chi diffonde informazioni che, secondo l’attuale governo, sono dannose per la Russia. Anche per le forze militari in campo l’informazione è un bene pubblico. Si era posto questo problema Albert Camus, quando era direttore di Combat, il giornale ufficiale della resistenza francese: uomo rigorosamente di parte, si chiedeva come comportarsi con tutte le informazioni di fonte militare, non facilmente verificabili, perché sapeva che tutte le forze armate in campo avevano la necessità di diffondere informazioni utili, e non necessariamente vere.

Allora dire che l’informazione è un bene pubblico non basta. È la libera informazione che è un bene fondamentale, e la libera informazione è l’informazione che nasce quando è garantita la libertà dei media: l’informazione liberata è e deve essere il nostro costante obiettivo. La libertà d’informazione è una libertà responsabile, certo, ma una libertà piena. In Italia è la legge istitutiva dell’Ordine dei giornalisti che dà la migliore definizione di questa libertà. Ripeterla è diventato un esercizio retorico, ma cerchiamo di andare al di là della stanchezza della ripetizione. «E’ diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede». Non è perfetta, ma l’aggettivo «insopprimibile» fa sì che solo altri diritti fondamentali possano limitare questa libertà.

In ogni caso non basta – lo ripeto – che la parola libertà sia scritta in un testo di legge. Occorre che diventi una “forma di vita”, parte del “mondo della vita” per ripetere i concetti di due tra i più grandi filosofi del secolo scorso. In Italia, in Europa non ci sono leggi che sanzionino i giornalisti a quindici anni di carcere. Ci sono però crepe, varchi, che permettono di bloccare il libero flusso di informazioni. Nel 2017 la Germania ha varato il NetzDg, la legge che impone ai social network di cancellare i contenuti potenzialmente illegali. È stata clonata da 20 paesi, come la Russia, la Turchia, il Brasile, l’Egitto, l’India: è diventata un manuale pratico per reintrodurre la censura. Ci sono rischi – e se ne discute, all’estero – che anche il Digital Services Act dell’Unione europea possa avere effetti perversi e non voluti sulla libertà di espressione.

Siamo tutti vittime della fallacia di Weimar, l’idea che se la repubblica di Weimar avesse messo sotto silenzio la propaganda nazista e Adolf Hitler, il dittatore non avrebbe ottenuto così tanto consensi. Dimentichiamo che Weimar ha tentato costantemente di mettere sotto silenzio Hitler e il suo partito, ottenendo come risultato quello di farlo passare come martire.

Anche l’Italia è piena di crepe e varchi, che aprono la strada alle pretese di ridurre la libertà di informazione e critica. Ci stiamo occupando in questi giorni degli esiti della legge sulla presunzione di innocenza che ha inaridito i flussi di informazione dalle procure e dalle forze dell’ordine e di fatto impedisce anche la verifica delle notizie e quindi l’accuratezza dell’informazione. Sappiamo tutti poi del carcere per diffamazione, delle querele temerarie con temerarie richieste di risarcimento danni.
In Italia la libertà di informazione non viene solo avversata dallo Stato o dalle forze politiche, che pure amano sempre meno il giornalismo. Ci sono le minacce della criminalità organizzata, ma anche le minacce ai cronisti durante le manifestazioni di protesta. Ci sono i legali che si prestano al gioco delle querele temerarie, i magistrati che non le individuano e le sanzionano con rapidità, le imprese e gli enti pubblici che usano questi strumenti come clave.

Esiste un sistema economico che non riesce a riconoscere l’importanza della libera informazione per la sua stessa sopravvivenza. Questo è evidentissimo anche nel settore dei media. È molto triste sentire oggi la necessità di ribadire che i direttori delle testate e la gerarchia delle redazioni – che non può che essere una gerarchia funzionale, a scopo limitato – hanno il dovere di essere i primi garanti, verso le proprie redazioni, i propri collaboratori, della piena libertà di espressione, unita al pieno rispetto della loro dignità.

La tendenza, e non da oggi, va in un’altra direzione. Nelle imprese editoriali la pretesa “tutela” del marchio è diventata più importante della libertà di espressione, come se un diritto costituzionale, quindi universale e inalienabile, possa essere oggetto di contrattazione, o addirittura gestito dall’organizzazione interna delle imprese per via autoritativa. Il diritto di esclusiva, che crea un monopsonio, un male, dal punto di vista economico, da qualsiasi punto lo si guardi; i patti di non concorrenza dopo la fine del rapporto del lavoro danneggiano il tessuto economico, limitano la libertà di iniziativa economica degli individui a vantaggio delle imprese, impoveriscono un settore già in difficoltà.

Senza contare l’aspetto strettamente retributivo: contratti poveri, incerti nella durata e nelle prospettive, non permettono di costruire un settore dell’informazione forte e quindi autonomo e libero. È nota a tutti la crisi strutturale che ha colpito i media. Non può diventare però l’alibi per comprimere la piena libertà di espressione e di critica, di calpestare la dignità dei lavoratori.

L’attività dell’Ordine dei giornalisti oggi non può non ruotare attorno a questi capisaldi. Gli Ordini, ha spiegato non più tardi di quattro giorni fa un magistrato milanese, non servono solo a difendere i loro iscritti. Ogni professionista ha una responsabilità sociale, e così gli Ordini, che sono enti pubblici autonomi e hanno la funzione di tutelare anche i diritti di ciascun cittadino e i beni fondamentali che permettono di esercitare questi diritti. Il nostro lavoro, da oggi, cercherà di andare direttamente in questa direzione.

«Datemi la libertà di sapere, di esprimermi, di discutere liberamente secondo la mia coscienza, prima di ogni altra libertà», scriveva John Milton. Era, ricordiamolo sempre, il 1644.

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