Il giornalismo, la guerra, l’incertezza

( Intervento del presidente Riccardo Sorrentino preparato per la tavola rotonda Le ferite economiche, psicologiche e sociali di una guerra lontana, ma vicina organizzato dall’Ordine dei Dottori commercialisti e degli esperti contabili di Milano e dall’Ordine degli avvocati di Milano – Milano, 27 giugno 2022 )

Parlare delle ferite della guerra, dal punto di vista dei giornalisti, significa parlare di molte cose diverse. Significa raccontare le ferite, concrete o metaforiche, che la guerra infligge al giornalismo e ai reporter, significa raccontare le difficoltà nell’informare il pubblico delle ferite inferte dalla guerra al nostro mondo. Significa anche raccontare le ferite inferte dal giornalismo stesso alla discussione pubblica. Le guerre, in un certo senso, magnificano i difetti – veri e presunti, permettemi di aggiungere – del giornalismo.

Le ferite ai giornalisti

Raccontare la guerra è sempre stato uno dei compiti più difficili, per i giornalisti. Perché si muore, innanzitutto: nei due confronti militari tra Russia e Ucraina, nel 2014 e nel 2022, sono stati uccisi 15 reporter. Sette sono morti tra il 2014 e il 2015. Tra essi un italiano, Andrea Rocchelli, al quale l’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha attribuito una tessera alla memoria: il presunto assassino, assolto dalla magistratura italiana, era – tragedia nella tragedia – un italo-ucraino. Otto reporter sono caduti nel 2022. A tutti costoro si aggiungono sei giornalisti morti quest’anno in circostanze ambigue, e otto reporter arruolati nelle forze armate e morti in combattimento, dei quali quattro quest’anno. Molti di questi caduti, compreso Rocchelli, mostravano in modo molto evidente la scritta “press” sui loro giubbotti antiproiettile o antischegge. Essere informati sulla guerra ha quindi anche un costo umano.

Le ferite al giornalismo

La guerra è anche la classica situazione in cui i media, malgrado i loro sforzi, le difficoltà e le tragedie che affrontano, sono destinati a perdere la fiducia del pubblico. Le notizie sono frammentarie, le fonti tutte inaffidabili; la news analysis, l’approfondimento, è di conseguenza arduo; compito quasi impossibile è riferire il dibattito pubblico sulla guerra senza essere travolti dalle critiche: lo vediamo ogni giorno.

Oggi partiamo anche svantaggiati. Stiamo uscendo, si spera, da una pandemia durante la quale l’informazione non ha brillato; e in precedenza i giornalisti già gareggiavano con magistrati e politici per il podio della categoria più disprezzata. La crisi economica che sta per colpire il mondo intero porrà ora nuove sfide.

Immaginate adesso questa scena, che sembra così tipica del mondo dei media di oggi: l’Ucraina libera una città importante dall’invasore e sulla stampa appare un reportage sulla visita di una grande star del cinema in quei luoghi. Sembra un episodio molto verosimile. Potrebbe accadere?

È già accaduto. Era il 1944: Metz, città francotedesca, era stata liberata dalla Terza armata e un giornale francese racconta del viaggio di Marlene Dietrich, tedesca naturalizzata americana, nel capoluogo della Mosella. La stessa città che poche settimane prima era stata colpita dall’attacco di 1.299 bombardieri pesanti, che avevano sganciato tonnellate di esplosivo e napalm.

È Albert Camus, l’autore della Peste – autore quanto mai attuale, quindi – e direttore del quotidiano della resistenza francese Combat, che lo racconta. È molto significativo quello che scrive, in un articolo dal titolo “Autocritica”:

“Certo, noi non leggiamo senza irritazioni, all’indomani della presa di Metz, sapendo quanto sia costata, un reportage sull’entrata di Marlene Dietrich a Metz. E noi avremo sempre ragioni per indignarci. Ma bisogna anche comprendere, allo stesso tempo, che questo non significa per noi che i giornali devono essere necessariamente noiosi. Semplicemente, non pensiamo che in tempo di guerra i capricci di una vedette siano necessariamente più interessanti del dolore dei popoli, del sangue degli eserciti o dello sforzo tenace di una nazione per trovare la sua verità”.

Camus invitava di sfuggire dalla noia con l’ironia e quindi con l’intelligenza. Questo passaggio è però interessante per l’apertura, fatta da un rappresentante della Resistenza, in un paese ancora invaso, a un giornalismo che non si prenda troppo sul serio; o meglio che non si prenda sul serio nel modo sbagliato.

Quello che il giornalismo non può fare

Capita molto spesso che la società prenda il giornalismo sul serio nel modo sbagliato. Due cose i giornalisti non possono fare, almeno in quanto giornalisti, anche se a volta sembra che proprio questo ci venga chiesto. La prima è educare. Non tocca a noi. È vero, sotto questo punto di vista le società moderne, così molteplici, hanno un problema. Le vecchie istituzioni deputate all’educazione hanno rinunciato: non riescono più a educare, come spesso accade alla famiglia; non vogliono più farlo, come la scuola; hanno perso mordente, come molte religioni. Non tocca al giornalismo, però, sostituirli. Il giornalismo informa.

La seconda cosa che i giornalisti non possono, e non devono fare, è plasmare le aspettative, e per questa via ridurre le incertezze. Rubo queste formule al mondo della politica monetaria, che mi sembra un perfetto esempio di politica molto sofisticata, con obiettivi chiari. Plasmare le aspettative, ridurre l’incertezza è compito dei politici. Cosa chiedono del resto gli avvocati all’ordinamento giuridico, che ha vita propria, certo, ma che è il frutto ultimo, e più prezioso, della politica? La certezza del diritto.

Anche qui abbiamo un problema: ci sono politici che ritengono più conveniente aumentare l’incertezza, ponendosi al tempo stesso come la soluzione ai problemi da essi posti. Se vivessimo la stessa situazione nella vita privata, parleremmo forse di relazioni tossiche; e infatti capita spesso che uomini e donne politiche ansiogene siano delle meteore: appaiono, splendono, scompaiono o quasi. Il fenomeno però tende a ripetersi, e con il nostro consenso. Anche se in questo modo la politica viene meno al proprio compito.

Informazione e comunicazione

Plasmare le aspettative non è comunque il compito dei giornalisti. I giornalisti, di nuovo, informano. Non comunicano neanche, attenzione, informano. Il concetto di comunicazione è prezioso, ma ha dato vita a un grande fraintendimento. C’è l’idea che chi comunica possa sempre scegliere cosa comunicare; che possa plasmare, se non la realtà, la percezione della realtà. Quasi si possa – e qualcuno lo ha detto – far passare qualunque sostanza un po’ marrone per Nutella. È passata l’idea che si possa scegliere a quali aspetti si possa e  si debba “aprire il cancello” lasciando nell’oblio gli altri. Noi giornalisti, io stesso, abbiamo rischiato di interpretare così la funzione di gatekeeping dei media.

No, la realtà fa sempre giustizia da sé. Trova il modo di evadere dalle prigioni in cui la rinchiudiamo e poi di imporsi. Putin punisce con quindici anni di carcere chi pubblica notizie sgradite al regime, e noi non abbiamo modo di sapere di quanto consenso davvero goda. Neanche lui può essere sicuro, però, che le notizie di una guerra combattuta contro un popolo, quello ucraino, che parla anche il russo – non dimentichiamolo – vengano tutte nascoste.

Le ragioni della realtà

Realtà è un concetto elusivo, molto difficile da catturare, da prendere, come direbbero i tedeschi, con il pensiero. Si riferisce però sempre a qualcosa che è fuori dal nostro controllo. Oggi più di prima. Possiamo nascondere, per ragioni deontologiche, tutti i morti dalle nostre foto e dai nostri video, tutte le immagini di bambini combattenti, ma ci sono, e possono riapparire attraverso i mille canali – di comunicazione, appunto – che ci raggiungono.

I giornalisti hanno il compito di raccontare questa realtà, per quanto elusiva possa essere. La difficoltà del giornalista, la ragione principale per la quale è difficile avere fiducia nel mondo dei media, nasce da qui, dalla stessa natura della realtà.

Una realtà ordinata e tragica

La realtà in cui viviamo è innanzitutto ordinata e tragica. Eraclito, 2.600 anni fa, lo ha insegnato per primo. La guerra lo ha di nuovo dimostrato. Può sorprendere sentir definire la nostra realtà ordinata. Non avremmo una scienza, però, se non ci fossero almeno isole di regolarità. Abbiamo conosciuto, nei dibattiti televisivi Alessandro Orsini. Il professore è un “allievo” italiano di John Mearsheimer, uno studioso di relazioni internazionali che, con maggior rigore del collega italiano, ritiene di aver dimostrato come tutte le grandi potenze si difendano, regolarmente e tragicamente, aggredendo. La Russia di Putin non avrebbe fatto diversamente.

Gli errori di Mearsheimer – secondo me – sono due. Il primo è nella confusione che la sua teoria può creare tra i concetti di difesa e di offesa, che è bene tenere distinti, il secondo sta nel fatto che non sempre le guerre sono soltanto guerre tra stati e tra potenze. Camus non combatteva contro la Germania, non sarebbe stato possibile nella Parigi degli anni 40 del secolo scorso. Camus combatteva il nazifascismo. Oggi, sostengono in molti – e io sono d’accordo – si confrontano due paesi che parlano, in parte almeno, la stessa lingua, il russo: ma una è una democrazia plebiscitaria, l’altra un paese che ambisce ad avvicinarsi, inciampando a volte, alle liberaldemocrazie occidentali. È di nuovo uno scontro tra ideologie, a bassa intensità se vogliamo, ma comunque ideologie. Culture, per meglio dire.

Osservatori dentro la realtà

Qui si apre una nuova dimensione delle difficoltà del giornalismo. Perché non descriviamo la realtà di un formicaio, o di un nido di api, visti dall’esterno. Descriviamo, informiamo, sulla realtà di un mondo in cui viviamo, in cui non possiamo non prendere posizione. È persino eticamente sbagliato. In tempi di guerra tra Russia e Ucraina, mi piace ricordare qui, con Norberto Bobbio, che non è possibile pensare che “accanto alla democrazia liberale possa esserci una democrazia non liberale”.

Mi è capitato – permettetemi un ricordo personale – di andare per lavoro in Thailandia. Ero praticamente un analfabeta, incapace di leggere la scrittura Thai, oltre che a comprendere la lingua. Dovevo descrivere la crisi economica locale. Mi sono trovato di fronte un paese in cui un magnate delle televisioni, Thaksin Shinawatra, aveva conquistato il consenso politico facendo leva sul sostegno di alcuni ex intellettuali di sinistra che, basandosi sul pensiero di Antonio Gramsci, avevano lavorato per plasmare un “blocco storico”, di destra. Difficile osservare anche quella realtà, pur così lontana, con distacco. Ero comunque dentro. La mia opinione non interessava nessuno – e questo è una considerazione che ogni giornalista dovrebbe sempre fare – ma non potevo non averla.

La realtà di cui i giornalisti si occupano è dunque una realtà sociale, una creazione della storia e, in ultima istanza, del pensiero, in cui le idee e il dibattito tra le idee hanno un ruolo fondamentale; e noi, in Occidente, viviamo – giustamente – in un mondo in cui la libertà di critica è insopprimibile.

I fatti e le opinioni degli esperti

Questo pone un ulteriore problema, per i giornalisti. Un problema esploso con la pandemia e con gli errori che sono stati commessi nell’informazione e dall’informazione sulla malattia. Anche oggi, mentre raccontiamo, analizziamo e discutiamo la guerra dobbiamo porci questa domanda: abbiamo, noi giornalisti, ripetuto l’errore? Abbiamo di nuovo messo sullo stesso piano l’opinione dell’esperto con quella dell’uomo o della donna di successo ma incompetente, l’opinione del medico, e quello del no-vax ricco solo dei suoi sospetti? Abbiamo di nuovo confuso – come abbiamo fatto – l’opinione del virologo, che sa tutto del virus, con quella del clinico, che sa cosa accade nel suo reparto ma potrebbe non sapere se il suo campione di malati è davvero rappresentativo della popolazione, con quella dell’epidemiologo, che – lui sì – sa come si sviluppa una pandemia?

Abbiamo messo tutto sullo stesso piano. È giusto? No, non è giusto. Abbiamo sbagliato. Non abbiamo saputo scegliere gli “esperti” e gli “interlocutori” da sentire, non abbiamo saputo leggere le loro opinioni, non abbiamo saputo valutarle. Per andare oltre, evitare questo problema, occorre una sola cosa: competenze. Non insisterò mai abbastanza su questo punto. Il giornalista è costretto a fare da trait-d’union tra persone di diverse competenze e deve essere all’altezza di farlo, da solo o in gruppo. Le sue conoscenze devono essere profonde e interdisciplinari. La formazione continua – l’ho ripetuto ormai molte volte – non può essere uno scambio tra tempo libero e crediti concessi da un monopolista. Deve essere formazione vera.

Per fare cosa, però? Non certo per scimmiottare i professori, gli esperti, cercare di diventare uno di loro; e neppure per trasformarsi in “intellettuale”. Il giornalista deve fare il giornalista.

Il giornalista deve informare, far parlare la realtà, i fatti, i dati perché quelle tesi, quelle opinioni, ne siano illuminate o confutate. Fatti e dati che non sono mai evidenti: la storia della scienza è lì, a disposizione, a dimostrarcelo. Il dubbio cartesiano è sempre necessario, e occorre saper “far parlare” fatti e dati, compito non semplice. Il lavoro che va fatto sulle opinioni degli esperti non è molto diverso, allora, da quello che deve essere svolto nei confronti delle notizie. Occorre però liberarsi dall’orgoglio dell’ignoranza, dalla “retorica della suola delle scarpe”, come la chiama Francesco Gaeta, il nostro manager per l’innovazione, dall’idea che il giornalismo si impari tutto per le strade, all’università della vita… Abbiamo alimentato anche noi questa retorica.

Tutte le opinioni sullo stesso piano

Permettemi però di difendere un po’ la categoria. Mettere tutte le opinioni sullo stesso piano non è un vezzo, o un errore dei giornalisti. È il frutto di un orientamento molto diffuso. Qualche settimana fa una giovane ragazza valdostana, Giulia Pession, ha vinto un premio filosofico destinato a giovani perché ha “confutato”, per così dire, Eraclito. Il tema era un frammento del filosofo di Efeso che sembra argomentare – almeno secondo alcune interpretazioni, a favore di un logos sottostante a tutte le cose: “Sebbene il logos sia comune, la maggior parte delle persone vive come se avesse dei pensieri propri”. Non è possibile leggere lo svolgimento della ragazza, che però ha argomentato contro Eraclito. “Ho organizzato il mio testo sul fatto che non c’è un logos comune e che le persone pensano in modo diverso perché sono tutte diverse. È la grande sfida che devono affrontare le democrazie”, ha raccontato, dimostrando di aver ben colto lo spirito del tempo.

Spirito del tempo che però implica la rinuncia alla ricerca, faticosa perché senza fine, di questo logos comune, che è parola, ragione, argomentazione, rapporto. È la rinuncia alla scienza, alla razionalità, alla realtà stessa, alla verità. La rinuncia a pensare che un’idea fondata su basi traballanti – fatti incerti, non evidenti, non provati, argomentazioni fallaci, zoppicanti – sia uguale e abbia la stessa dignità – e parlo dell’idea, non della persona – di un’idea che resiste a tutte le confutazioni, e ne esce corroborata. Cosa diventerebbe per esempio il lavoro dell’avvocato, nei tribunali ma anche nelle trattative private, se passasse questo principio? La mera misurazione del potere “duro”, l’hard power, delle parti in gioco…

Occorre un giornalismo allora che non abbia solo la schiena dritta, ma anche un pensiero sano, un metodo corretto, e non è facile né immediato. Oggi come ieri. Per avere un buon giornalismo occorre “limitarsi ai soli fatti veri e principi sani”, scriveva Thomas Jefferson, già nel 1807. Non possiamo dimenticare che il detto de gustibus disputandum non est – come se non avessimo un linguaggio per concatenare i significati e inserirli in un contesto sempre più ricco – è antico (e risale a una Roma non più classica, ma decadente).

Se il giornalismo ha ferito, quindi, è perché si è adeguato al cattivo spirito dei tempi. È anche vero però, come diceva Camus, che “un paese vale quel che vale la sua stampa”, il suo giornalismo. Non suonino quindi, le mie parole, come un tentativo di giustificazione totale dei colleghi. Il giornalismo ha una grande responsabilità, deve diventare altro.

Il giornalismo dell’incertezza

Camus, nei mesi convulsi e caotici della liberazione della Francia, quando si intravvedeva la ricostruzione anche ideale di un paese lacerato si spinge a dare qualche indicazione per il suo giornalismo critico:

“Il giornalista può aiutare alla comprensione delle notizie da un insieme di osservazioni che danno la loro importanza esatta alle informazioni di cui né la fonte né l’intenzione sono sempre evidenti. Può, per esempio, affiancare nella messa in pagina dispacci che si contraddicono e metterli in dubbio l’uno con l’altro. Può illuminare il pubblico sulla probabilità che è appropriato dare a quella informazione, sapendo che proviene da quell’agenzia o da quell’ufficio all’estero”.

C’è una parola chiave, in queste frasi di Camus. Probabilità. Apre una nuova dimensione.

Non ci si aspetti, mai, un giornalismo che non ferisca. Informare sulla realtà significa ferire, come farebbe un chirurgo. Una notizia, si dice, è un’informazione che dà fastidio a qualcuno, ma le cose vanno molto al di là del semplice rapporto tra verità e potere, che pure è centrale (e, durante la guerra, si mostra in tutta la sua evidenza).

Il giornalista descrive una realtà che è soggettivamente incerta, a volte radicalmente incerta – nel senso che la sua incertezza non è misurabile – e, soprattutto, lo fa con un metodo che è esso stesso incerto. Questo è un dato strutturale, inevitabile; e duplice. Descrivere in modo incerto una realtà incerta a un mondo ansioso di certezze è di per sé un compito destinato a suscitare frustrazione, a ferire, anche.

Nel recente passato, la Bank of England organizzava ogni anno giornate di studio con la società dei meteorologi britannici su questo tema: come “comunicare” l’incertezza, per quella che è. Banchieri centrali e meteorologi hanno però statistiche e modelli – stocastici, caotici, ma non per questo poco rigorosi, anzi – per leggere la realtà. La pandemia ci ha mostrato, a noi abituati alle tranquillizzanti relazioni lineari, che esistono fenomeni non lineari, per giunta esponenziali, quasi imprevedibili. La storia recentemente ha imposto le sue ragioni rispetto ai modelli di previsione, nel fallimento di Lehman Brothers, nello sviluppo della pandemia, nello scoppio della guerra a poche centinaia di chilometri dai nostri confini. Ci ha ricordato l’imprevedibilità degli eventi.

Il giornalista fa storiografia del presente, un’espressione che sembra presuntuosa per la estrema incertezza del suo metodo, ma che in realtà è molto appropriata. Se va in guerra, non può descriverla come farebbe uno stratega qualche mese o qualche anno dopo gli eventi. Vede poco, sa poco e ha un tempo straordinariamente breve per produrre il suo articolo, spesso brevissimo. Come presidente dell’Ordine dei giornalisti trovo estremamente complicato far capire a chi non fa il nostro lavoro il tema del tempo a disposizione di ciascun giornalista. Mi capita, per esempio, quando racconto ai procuratori le difficoltà create dal decreto legislativo detto sulla “presunzione d’innocenza”: i magistrati sono convinti di essere molti rapidi, e lo sono rispetto agli standard dei loro uffici, per i quali il tempo è spesso prudenza; sono lentissimi per chi ha una scadenza una-due al massimo tre ore dopo.

Il giornalista in guerra farà come ha fatto Stendhal nella Certosa di Parma. Descriverà un grande disordine, in cui è difficile verificare le notizie, in cui non si capisce il quadro d’insieme. Stendhal, che scrisse un romanzo, è stato elogiato per la sua creatività e, insieme, il suo realismo. Il giornalista sarà criticato, ed è giusto così.

Il giornalista, in un certo senso, sarà sempre criticato: dal potere, che lo vuole asservito, e dai cittadini che gli chiedono certezze che non può dare. La conquista della fiducia è un compito infinito. Nell’epoca dei social, delle fake news, dell’information warfare in cui diventa credibile chi grida di più o chi diffonde i più sofisticati sospetti – il male ci appare sempre più reale del bene – si è detto che occorre sviluppare una literacy – perdonate l’inglese, ma “alfabetizzazione” non rende – del giornalismo, presso il grande pubblico, e non solo nelle scuole. Forse è una strada che – insieme alla rifondazione stessa del giornalismo – val la pena di percorrere. Per spiegare e capire che le ferite del giornalismo a volte fanno male, a volte sono le cicatrici lasciate da un chirurgo: rendono più sani.

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