Giornalisti e PA: indipendenza e nuove opportunità

( Saluto del presidente Riccardo Sorrentino alla Tavola rotonda La nuova responsabilità del comunicatore pubblico nell’ambito dell’ottava edizione degli Stati Generali della nuova comunicazione organizzata da PAsocial – Bergamo, 17 settembre 2022 )

« So che pensate di aver capito quel che credete che io abbia detto, ma non sono sicuro che voi abbiate capito che quel che avete sentito non era quello che volevo dire». Mi piace iniziare così, con una frase di Alan Greenspan, ex presidente della banca centrale statunitense, la Federal reserve, il mio breve saluto istituzionale – e ringrazio gli organizzatori per questa opportunità.

Perché per spiegare quanto sia importante il rapporto tra comunicazione e informazione giornalistica, tra comunicatori e giornalisti vorrei fare un esempio concreto. Un esempio che parla di verità e potere, di trasparenza e di interna corporis, di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione, ma lo fa descrivendo una realtà viva.

Ha seguito professionalmente, passo passo, da giornalista, come sia evoluta la comunicazione delle banche centrali. Si è partiti, all’inizio del secolo, con la frase di Greenspan, incomprensibile Oracolo. Si è arrivati oggi a costruire quello che secondo me è un esempio paradigmatico di comunicazione pubblica. Un esempio che ciascun comunicatore – se posso permettermi – dovrebbe studiare con grande attenzione. Perché è un esempio estremo, ma nello stesso tempo estremamente rivelatore della realtà della comunicazione.

Perché? Per molti motivi. Innanzitutto perché la politica monetaria è comunicazione. Per una banca centrale conta molto più comunicare che alzare o abbassare i tassi di interesse. Il loro compito è plasmare le aspettative sul futuro.

Poi perché per una banca centrale conta la sua credibilità. Deve fare quel che dice, sempre. Il presidente del consiglio Mario Draghi, non poche settimane fa, ha trasferito questo principio anche all’azione del governo, e all’azione politica. La credibilità è un’ancora importante per la comunicazione, non solo delle banche centrali: non è possibile costruire creativamente “narrazioni” senza sostegno nella realtà.

Poi per il suo pubblico. Vario, spesso molto competente, e formato anche da una categoria particolare di persone: gli investitori finanziari, gli operatori sui mercati, che con un movimento del dito possono muovere milioni di euro; e, se capiscono male il messaggio della banca centrale, possono vanificare tutti i suoi sforzi. Succede? Certo, l’ultima volta a luglio, quando i mercati hanno interpretato male le parole della Fed che non a caso in questa fase, come la Bce, ha scelto di fare passi indietro nella comunicazione.

Quello che insomma in un comune, in un ente pubblico può accadere in cinque anni, in una banca centrale accade in pochi minuti. Una lezione unica.

A questo punto si possono porre due domande importanti per capire il ruolo dell’informazione giornalistica, in questo mondo. Le banche centrali possono essere trasparenti? Lo sono, e molto; ma la trasparenza ha trovato un suo limite, interno. La banca centrale svedese, la Riksbank, ha voluto spingerla il più avanti possibile, ha pubblicato alla fine di ciascuna riunione di politica monetaria un verbale, per riassunto, con i nomi degli intervenuti. I risultati non sono stati esaltanti. Soprattutto per un motivo: i banchieri centrali hanno cominciato a discutere e a prendere le decisioni… nei corridoi,

Le banche centrali possono dire la verità? No, non tutta. Immaginate una banca centrale che dica (come qualcuno avrebbe in astratto desiderato nel 2008): guardate che sta arrivando una crisi pesantissima. Un secondo dopo, i mercati crollerebbero, e la crisi da pesantissima diventerebbe devastante.

Ancora: può dire che, per combattere l’alta inflazione – come sta facendo in questo periodo – deve far aumentare la disoccupazione e anche far fallire le aziende più deboli, anche a rischio di scatenare una recessione? Non può dirlo, eppure è questo che grosso modo le banche centrali fanno: alzano i tassi, aspettano che anche le banche lo facciano, le imprese più deboli licenziano o falliscono , alcuni lavoratori perdono il lavoro, spendono meno, i prezzi calano. C’è un’altra strada, ma impone ai governi di spendere meno proprio quando i cittadini chiedono loro di spendere di più… è difficile.

Ancora: possono dire le banche centrali – con tutta la retorica che le circonda – che sono impotenti contro l’inflazione? Nel senso che non possono riportarla all’obiettivo da sole, senza l’aiuto dei governi?

No, non possono. I giornalisti, però, sì. Loro possono farlo: possono cercare di capire come si svolge il dibattito interno nelle riunioni, possono spiegare come funziona la manovra di politica monetaria, possono illustrare il ruolo del governo. Possono intervistare, a questo scopo, economisti e analisti finanziari e, con loro, annunciare le crisi. Tanti lo hanno fatto, nel 2008.

La comunicazione delle banche centrali è allora completata dai giornalisti, dagli economisti, dagli analisti. È un rapporto complesso. Dialettico, si sarebbe detto un tempo; di continua retroazione, si direbbe forse oggi. La comunicazione è allora la totalità di questo lavoro. Un banchiere centrale, un sindaco, un amministratore non è – del resto – un economista, un giurista o un sociologo: non descrive, agisce; e a volte agisce con le parole. Il lavoro del giornalista è invece diverso e complementare: descrive e critica la realtà così trasformata.

Non è un caso se non si vedrà mai una banca centrale “dare la linea” ai giornalisti, rettificarne errori o interpretazioni, e men che meno querelarli per diffamazione. Mai. Riconoscerebbe di aver fatto un errore tragico, perderebbe autorevolezza, altererebbe l’intera strategia di comunicazione.

Questo è un punto – lasciatemi cogliere l’occasione di dirlo – che all’Ordine dei giornalisti della Lombardia sta molto a cuore, anche al di là di queste considerazioni “tecniche”. In una civiltà liberaldemocratica, i diritti fondamentali – e tra questi la libertà di stampa – non possono essere solo una norma formale, da evocare – se e quando è possibile – in un tribunale, ma devono animare tutta l’attività quotidiana degli enti pubblici, che costituiscono la nostra Repubblica. Una denuncia per diffamazione da parte di un ente pubblico, insomma, è per noi sempre inappropriata, tecnicamente ed eticamente. Legittima, ma odiosa.

A questo punto, ci si può porre l’ultima domanda: se comunicazione e informazione sono così separate, se il gioco avviene all’esterno, che senso può avere, allora, auspicare – e noi lo facciamo: il Consiglio nazionale sta valutando come poter riconoscere il praticantato – un ricorso sempre più ampio dei giornalisti all’interno delle pubbliche amministrazioni? La risposta è semplice: avere all’interno di un’organizzazione figure e strutture di giornalisti iscritti dall’Ordine – riconoscimento che non è una forma di distinzione, ma attribuisce diritti e doveri rafforzati – significa riprodurre all’interno quella dialettica, quel complesso gioco di retroazioni, in modo da prevederlo e meglio affrontarlo. Porta all’interno la cultura dell’informazione giornalistica, che resta distinta da quella della comunicazione strategica.

Prima però occorre fare un passo importante che possa poi portare ai necessari riconoscimenti legislativi e alle opportune innovazioni contrattuali: far sì che l’attività quotidiana degli enti pubblici e dei loro uffici attivi a vario titolo nella comunicazione, sia animata dal rispetto dell’indipendenza dei giornalisti. Interni ed esterni.

Grazie di tutto, e buon lavoro

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