Il decreto legislativo 188/2021 lede il principio costituzionale di trasparenza del procedimento e del diritto di informare. Ci sono almeno tre strade per arrivare a un giudizio della Corte Costituzionale.
di Giulio Enea Vigevani, docente di Diritto dell’informazione, Università degli Studi di Milano-Bicocca
In un convegno di una decina di anni fa, provai a elencare tutti i beni di rango costituzionale che venivano in gioco quando l’informazione si occupa di vicende giudiziarie.
Venne fuori un catalogo lunghissimo di diritti e interessi, che investono la sfera della persona, la corretta amministrazione della giustizia, il controllo dell’opinione pubblica sul potere “terribile” del giudicare, la concezione stessa della democrazia come “casa di vetro”. Tra essi: il diritto di informare e di essere informati; il principio di pubblicità del processo; il diritto all’onore, alla reputazione all’identità personale e alla privacy, dei soggetti sottoposti ad un procedimento o di terzi; il rispetto della dignità umana; il principio di non colpevolezza; il diritto all’oblio; la tutela dei minori; il diritto a un equo processo; il diritto di difesa dell’imputato; l’effettivo perseguimento dei reati; la retta amministrazione della giustizia; la serenità del dibattimento; il prestigio del potere giudiziario; la corretta formazione del convincimento del giudice; l’imparzialità e la c.d. verginità cognitiva dell’organo giudicante; la sicurezza dello Stato; il diritto dell’indagato a essere informato riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa.
E si tratta di un catalogo incompleto: un lettore scrupoloso potrebbe aggiungerne molti altri. Ciò spiega quanto sia difficile trovare una composizione accettabile, che consideri l’esistenza di questa pluralità di interessi diversi e spesso contrapposti, che si affacciano sul teatro del processo e che devono in qualche modo essere tutti preservati. Soprattutto, chiarisce quanto sia pericoloso ergere uno solo di questi diritti a “tiranno”, da privilegiare quasi a ogni costo a scapito degli altri.
E questo, a mio avviso, quanto avvenuto con il decreto legislativo n. 188 del 2021 sulla presunzione di innocenza, che per tutelare un principio di grande civiltà giuridica, quale il diritto di una persona a non essere additata come colpevole prima della condanna definitiva, ha finito con il produrre uno sbilanciamento tra tutti questi interessi e, in particolare, una compressione eccessiva del diritto di informare e del diritto dei cittadini ad essere compiutamente informati (ndr. come abbiamo spiegato in questo articolo).
I nodi della normativa
Il principale punto critico risiede nell’art. 3, comma 1, lett. b), del decreto (ora 2-bis d. lgs. 20 febbraio 2006, n. 106), secondo cui «la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico».
Due aspetti problematici debbono essere evidenziati. In primo luogo, il procuratore della Repubblica, anche nei casi di interesse pubblico, può e non deve diffondere le informazioni sulle indagini. La scelta è sostanzialmente affidata alla discrezionalità di un solo soggetto, che decide quando e cosa sottoporre all’attenzione dell’opinione pubblica, senza che tale scelta sia sindacabile. E questo soggetto è tutt’altro che terzo, è il titolare dell’indagine, il controllato, che ben potrebbe voler celare i propri comportamenti. Inoltre, il criterio dell’interesse pubblico è assai sfuggente, in quanto ogni procedimento penale è di per sé di interesse pubblico, perché riguarda un reato e perché la conduzione di un’indagine altro non è che l’esercizio di un potere tra i più delicati e dunque da controllare.
Tutto questo in un quadro che pone tali comunicazioni del procuratore della Repubblica (da effettuarsi per legge solo tramite comunicati ufficiali o, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa) come le uniche legittime fonti per conoscere l’andamento di un’indagine. Il decreto legislativo, infatti, conferma e rafforza il divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire agli organi di informazione notizie o copie di atti relativi all’attività giudiziaria dell’ufficio.
Tre strade per accedere alla Consulta
In questo senso, mi pare che si possa prospettare una violazione del principio costituzionale di trasparenza del procedimento e del diritto di informare. A questo punto però arriva il passaggio giuridicamente più complesso: come arrivare davanti un giudice che sollevi una questione di legittimità costituzionale? Come avere dalla Corte costituzionale quanto meno una pronuncia interpretativa che limiti la discrezionalità del procuratore, che inquadri tale sua funzione quale “potere-dovere”, con l’obbligo in capo a questi di ponderare i valori contrapposti?
Una via potrebbe essere quella di sollevare la questione in un processo disciplinare a carico di un magistrato che abbia in ipotesi diffuso informazioni di interesse pubblico senza autorizzazione del procuratore. Ma questa in questa ipotesi evidentemente l’Ordine dei giornalisti è estraneo.
Vi è poi un’altra ipotesi che invece vedrebbe un protagonismo dei giornalisti, degli editori e dell’Ordine. Il punto di partenza potrebbe essere un’istanza di un giornale al procuratore, con la richiesta di divulgare informazioni su una indagine di rilievo pubblico. A fronte di un diniego o di un silenzio-rifiuto, si potrebbe impugnare avanti al giudice amministrativo il diniego del comunicato e, come atto presupposto, la direttiva del procuratore della Repubblica inerente ai rapporti dell’autorità giudiziaria e delle forze dell’ordine con gli organi di informazione (nel caso di Milano, quella del procuratore f.f. Targetti dell’8 febbraio 2022). E, avanti al Tar, chiedere di sollevare la questione di costituzionalità. Certo, sarebbe stato forse opportuno impugnare direttamente le varie direttive dopo la loro emanazione ma non è più possibile perché i termini sono scaduti.
Una ulteriore via per giungere al giudizio di costituzionalità potrebbe partire dalla presentazione di un esposto al CSM in merito alla discrezionalità incontrollata del procuratore e alle modalità concrete di esercizio di questo potere atipico, nel caso in cui il medesimo si rifiuti di fornire informazioni in merito a procedimenti di rilevanza pubblica.
Quale sia la strada per giungere a Palazzo della Consulta, una pronuncia della Corte servirà comunque a riaffermare che il rapporto tra informazione e giustizia non è di principio antinomico, ma dialettico e collaborativo. In altre parole, la libera stampa non è un’antagonista della giustizia e dei diritti di chi è sottoposto a indagine ma, al contrario, la buona giustizia esige un’informazione continua, vigile ed evidentemente corretta, un “tribunale dell’opinione pubblica” in grado di conoscere e valutare errori ed abusi giudiziari.
Del resto, già Cesare Beccaria esecrava le accuse segrete e sosteneva che l’accusa deve essere pubblica, perché l’accusato non può difendersi dalla calunnia, «quand’ella è armata dal più forte scudo della tirannia, il segreto», così come debbono essere «pubblici i giudizi, e pubbliche le prove del reato, perché l’opinione, che è forse il solo cemento della società, imponga un freno alla forza e alle passioni» (C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano 2010, p. 57). E se la lingua del grande milanese può sembrare arcaica, certo il contenuto è di evidente attualità.