Margarita Simonyan, il giornalismo che non vogliamo

di Riccardo Sorrentino

Una giornalista contro la libertà di informazione. Margarita Simonyan, direttore di RT, l’ex Russia Today, la rete televisiva che trasmette in inglese, spagnolo, francese, tedesco, arabo e russo e quindi è strumento del soft power russo, ha elogiato nei giorni scorsi la censura, cercando di presentarla come uno strumento di stabilità politica e di sviluppo economico. Una vera svolta: Michael McFaul – l’ex ambasciatore Usa a Mosca dal 2012 al 2014, animatore della politica di collaborazione voluta da Barack Obama dopo la guerra in Georgia – ricorda i tentativi di Simonyan di dimostrare come la Russia fosse democratica.

La censura, secondo Simonyan – che sfida fatti storici, dati statistici e classifiche internazionali rigorose e incontroverstibii – porta stabilità e ricchezza. «Abbiamo avuto due periodi nella nostra storia di censura assente o limitata, dal 1905 al 1917, e ricordiamo come è finita, e durante la Perestroika e i successivi anni 90, e noi ricordiamo come è finita, con il collasso del paese», ha detto alla rete televisiva Rossiya-1, secondo la traduzione inglese del gruppo Russian Media Monitor. «Nessuna grande nazione può esistere senza controllo sull’informazione – ha aggiunto – Coloro che hanno fatto aggiungere alla nostra costituzione che la censura è proibita, lo avevano capito molto bene».

Definire un sistema con informazione limitata più stabile di una democrazia moderna piena che, per sua natura, permette il ricambio del gruppo politico dirigente in maniera pacifica, perché trasforma conflitti sociali potenzialmente violenti in procedure che richiedono e presuppongono la libertà di informazione, significa avere un forte desiderio di falsificare la realtà e la storia.

La libertà di stampa, per Somonyan sarebbe invece un regalo avvelenato delle potenze occidentali per evitare che la Russia diventasse una grande nazione. Anche dal punto di vista economico: «Costoro ci hanno insegnato per decenni: no, no, no, la società deve essere libera, un’economia sviluppata non può esistere senza un sistema politico sviluppato o un sistema politico libero: tutto questo è una totale str…»  (la traduzione in inglese porta BS, ossia bullshit, dal significato ineludibile).

«Guardate solo alla Cina: vi piace l’economia cinese? A me piace. Hanno qualche libertà? nella vita politica del loro paese, nella vita dell’informazione del paese? No, e non l’hanno mai avuta. Forse non è una cattiva cosa, forse è una buona cosa».

Le falsità sono evidenti: non è vero che la libertà di informazione impedisce a un paese di diventare una grande potenza (ma è questo, davvero, l’obiettivo più “giusto” per un qualsiasi paese?); e il miracolo economico della Cina è più apprezzabile a livello di Stato che al livello che davvero importa, la popolazione. Il reddito mediano è di 4,484 dollari (a parità di potere d’acquisto), quasi un decimo dei 42.800 dollari degli Stati Uniti, ma soprattutto poco più di un quarto di quello russo (e meno di un quinto di quello italiano). Finora la Cina ha usato e imitato la tecnologia e i brevetti occidentali: riuscirà poi a imitare la capacità diffusa di innovazione dei paesi più ricchi? Questo resta ancora da vedere.

Più importante ancora degli errori storici ed economici di Simonyan, è proprio l’approccio. Non sono i risultati in termini di stabilità politica a giustificare la libertà di informazione e critica. Sono la prova della bontà di quel principio, non il motivo.

Il motivo è un’altro: il vero non è evidente, è frutto di una ricerca continua, di una discussione continua. Il bene, che sia morale o politico, non è evidente, è frutto di una ricerca continua, di una discussione continua. L’utile (e, va aggiunto, anche il bello), non solo non è evidente ma cambia, nel tempo, da persona a persona, da gruppo a gruppo; e la politica, come l’economia, sono parte del mondo dell’utile. Nessun “capo”, nessun “gruppo dirigente” può davvero pretendere di conoscere ciò che è vero e ciò che è bene ciò che è utile per tutti, senza coprirsi di ridicolo o senza finire il proprio percorso in modo tragico.

Il vero nodo – ed è il nodo del giornalismo, anche nella sua difficile convivenza con i social – è però l’incertezza. «A ogni verità è unito qualcosa che vero non è, ma è tanto simile a essa che quest’ultima non può offrirci alcun segno distintivo che ci permetta di formulare un giudizio e di dare il nostro assenso. Ne deriva che vi sono delle conoscenze probabili», scriveva più di duemila anni fa Cicerone (nel De Natura Deorum). Chi ha potere assoluto, l’autocrate, cerca di presentarsi come colui che è in grado di dare sicurezza, fino al punto da dominare, da azzerare l’incertezza, ma non è vero: questo è il mito del potere, non la sua realtà. L’incertezza inoltre apre al futuro, all’innovazione, chiede cittadini responsabili: la democrazia liberale (e il sistema economico moderno, con tutti i suoi difetti) sa gestire l’incertezza – e, per questo, a volte è lenta – un sistema autocratico no. In questo senso la democrazia liberale è razionale, l’autocrazia, anche se plebiscitaria, è irrazionale.

Un giornalismo che non fa proprio il tema dell’incertezza, sia nella costruzione del “sistema dei media” – garantendo la pluralità dei punti di vista – sia nella costruzione del proprio metodo è un giornalismo falso. E falso, salvo pure coincidenze, è il giornalismo che propone Margarita Simonyan. Non può essere il giornalismo di una democrazia liberale e rappresentativa, non può essere il giornalismo di questo paese e di questa Europa.

Si possono avere molte opinioni sull’aggressione della Russia all’Ucraina, e il nostro sistema informativo – al di là di qualche lamentela non appropriata – sta dando ampio spazio alle voci più autorevoli di tutte le diverse posizioni. È chiaro però che la Russia, la Cina e molti altri loro satelliti e imitatori stanno proponendo un sistema politico, sociale e anche giornalistico, “informativo” alternativo, diverso, che è del tutto legittimo definire falso e irrazionale. Non è, non deve essere il nostro.

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