Dietro le prescrizioni del testo unico sui doveri del giornalista vi sono ragioni storiche, culturali e anche “editoriali”. E oggi non sarebbe possibile scrivere un articolo come 30 anni fa: la sensibilità sul tema è aumentata, ma tra chi fa informazione dovrebbe aumentare ancora
Di Giuseppe Guastella, giornalista, componente del Consiglio di disciplina dell’OgL
Se c’è di mezzo un minorenne che delinque, che ha comportamenti devianti, che comunque è coinvolto in un fatto di cronaca di un certo rilievo, preferibilmente se di cronaca nera, il livello di attenzione di giornali e tv aumenta. E’ un dato di fatto. Ciò che solletica l’attenzione dei media sono gli adulti, è a loro che parlano. La sensibilità della stampa italiana nei confronti dei minorenni che “fanno” notizia negli ultimi anni è aumentata in modo progressivo a livello sia quantitativo che qualitativo. Basta sfogliare un giornale e confrontarlo con uno di 20 o 30 anni fa per rendersi conto di questo.
Questo cambiamento è partito dalla metà degli anni novanta. Da quando, cioè, le dosi di sensazionalismo e, diciamo così, l’indagine “introspettiva” sui comportamenti dei ragazzi che fanno notizia sono via via andate salendo negli articoli a prescindere dal fatto che i giovani siano protagonisti attivi o passivi di una vicenda, se vi abbiano contribuito direttamente o se ne siano soltanto dei testimoni.
Le ragioni di interesse
Perché tutto questo è accaduto? Per almeno un paio di ragioni. La prima, perché i giornalisti vivono nella società. Quanto più il lettore è interessato ad un determinato genere di conoscenza, tanto più i media tendono ad appagare il suo bisogno di informazione in un gioco di specchi in cui, alla fin fine, il principale obiettivo degli editori è di vendere più giornali, di catturare il maggior numero possibile di spettatori-ascoltatori o di visualizzazioni nei siti. Nell’azione di rimando in questo circolo, c’è un’altra componente di grande importanza, che è l’azione della politica la quale tende ad esaltare o a minimizzare i fenomeni a seconda delle proprie convenienze.
La seconda ragione che cattura l’interesse dei media sui minorenni è molto “italiana”. Nella società di questo paese, che è la più vecchia al mondo dopo quella giapponese e che fa registrare un tasso di natalità che la colloca agli ultimi posti nel panorama internazionale, da tempo è profondamente cambiato il modo in cui i genitori guardano ai loro figli e la rappresentazione che dei loro figli danno a sé stessi e all’esterno.
I genitori sono l’obiettivo dell’informazione classica, men che mai i giovani, neppure quelli già adulti. I minorenni e i giovani adulti fino ai 24 anni, che sono gli utenti principali di internet, non solo non leggono più i giornali ma non guardano neppure la tv (tranne le piattaforme digitali in streaming) e si informano essenzialmente attraverso i social network o i blog. L’Istat certifica che (dati 2021) a leggere i quotidiani e a stare davanti alla tv generalista oggi sono in stragrande maggioranza persone di età superiore ai 44 anni. Questo dato spiega perché il pubblico di riferimento dei giornali e della tv, il loro “target”, in questo momento storico sono, giocoforza, principalmente i “vecchi” dei quali, per le ragioni già dette in precedenza, cercano di comprendere, intercettare e appagare interessi ed ansie. Accade lo stesso in tutto il mondo.
In Italia c’è anche il problema del basso tasso di natalità. Si fanno sempre meno figli e quei pochi che nascono sono considerati dai genitori come una sorta di patrimonio affettivo e materiale al quale affidare il compito di perpetuare geneticamente la stirpe e di conservare ed incrementare il capitale materiale che hanno accumulato. I genitori proiettano sé stessi sui figli oggi più che nel passato, imponendo loro di primeggiare in tutto, a cominciare dalla scuola. I giovani italiani oggi soffrono degli stessi incubi che da molti anni rovinano le notti di quelli americani costretti, non solo nelle scuole più blasonate, ad inseguire obiettivi sempre più difficili da raggiungere in una costante gara con gli altri studenti per tagliare il traguardo del successo. Tutto questo fa sì che la scuola (lo si è visto chiaramente durante la pandemia) sia diventato uno dei principali settori di cui si occupano i media che, come si diceva, affrontano guardando più ai genitori che ai figli.
In ogni caso, tutto il filone delle notizie che coinvolgono in varia misura i minorenni è terreno fertile dell’informazione. Ci si riferisce, ad esempio, al fenomeno delle imprese criminali delle baby gang che, approdato in Italia in ritardo rispetto ad altri paesi europei come la Gran Bretagna, sta assumendo contorni allarmanti nelle grandi città come in provincia. Si dà spazio alle risse a mano armata, alle manifestazioni di sopraffazione che possono anche sfociare, come è purtroppo accaduto, in reati molto gravi come l’omicidio, al bullismo, alle violenze sessuali che arrivano a vedere protagonisti perfino quattordicenni, agli atteggiamenti irrispettosi e sempre più spesso violenti verso gli insegnati che spopolano in rete e agli hikikomori.
Un filone che attira l’attenzione per nulla disinteressata della stampa è anche quello rappresentato da tutto ciò che è connesso in qualsiasi modo al web, visto che revenge porn, traffico di immagini pedopornografiche, estorsioni sessuali sono sempre più all’ordine del giorno tra i minorenni.
Tutto ciò si ripercuote in maniera diretta sulla stampa. I giornalisti che per lavoro percepiscono e come spugne assorbono il respiro dell’opinione pubblica tendono a veicolare le notizie che suscitano l’interesse delle madri e dei padri angosciati, specialmente quella angoscianti che attraggono di più per un meccanismo psicologico. Quando il minorenne o il giovane adulto (in Italia i figli restano in casa fino ed oltre i 30 anni) delinque, quando assume comportamenti devianti, quando esce dal terreno delle regole è lì che l’attenzione dei giornali e delle tv aumenta di intensità.
Maggiori cautele
Questo meccanismo di concentrazione mediatica ha anche avuto come risultato l’innalzamento progressivo (e sacrosanto) delle cautele che i giornalisti devono usare per la protezione dei soggetti minorenni che finiscono nel tritacarne dell’informazione. Negli ultimi 30 anni il modo con cui i media italiani seguono i fatti che riguardano giovani sotto i 18 anni è enormemente cambiato, non solo nella quantità e nei contenuti, ma anche dal punto di vista dei metodi narrativi. Per fortuna in modo positivo.
Nel 1988 il giovane corrispondente dell’agenzia di stampa Ansa da Sulmona, cittadina di 23mila abitanti in provincia dell’Aquila, riportando l’arresto di un padre accusato di aver abusato per anni delle sue figlie, scriveva: “Un uomo di XX anni, XXXX YYYY di Pratola Peligna (L’Aquila) è stato arrestato dai Carabinieri su ordine di cattura della Procura della Repubblica di Sulmona con l’accusa di aver ripetutamente violentato nel corso degli ultimi quattro anni due sue figlie minorenni, AAAA e BBBB, di XX e XX anni. (…) Anche la moglie, CCCC DDDD, di XX anni, era a conoscenza delle violenze ma aveva taciuto per paura. Lo scorso anno la donna aveva abortito a seguito di un calcio al ventre ricevuto dal marito. (….) La vicenda è emersa dalla confessione fatta dalla figlia più grande ad una suora dell’Istituto FFFF che ospita tutti i sei figli di XXXX YYYY”.
Se oggi scrivessi le stesse cose, perché quel giornalista ero io, o addirittura se ripubblicassi quell’articolo esattamente come era l’originale senza cambiare una virgola, nonostante siano passati ben 35 anni potrei giustamente incorrere, per non parlare di altro, nei rigori dell’ Ordine dei giornalisti e rischiare conseguenze disciplinari sicuramente pesanti. Perché violerei il diritto all’oblio delle persone allora coinvolte e perché, nel caso delle vittime, farei a pezzi la loro privacy rivelando anche dopo tanto tempo che subirono abusi. Infatti, ho omissato i nomi dei protagonisti ed ogni altro elemento che ancora oggi potrebbe ricondurre a loro.
Nel 1988 scrivere un articolo in quel modo e con quei particolari atroci non solo era possibile, come è evidente che avvenne, ma i giovani cronisti venivano addirittura spronati dai superiori a scovare la maggiore quantità di elementi con cui soddisfare la curiosità del pubblico, anche la più morbosa.
Oggi, grazie al cielo, le cose sono profondamente cambiate grazie all’introduzione della Carta di Treviso approvata nel 1990 dall’Ordine nazionale dei giornalisti e dalla Federazione nazionale della stampa d’intesa con telefono Azzurro. Essa si basa sulla Costituzione italiana, sulla Convenzione dell’Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e su normative internazionali ed europee. Rivista più volte con aggiunte di prescrizioni fino al 2021, la Carta fa parte integrante del Testo unico dei doveri del giornalista, che è la bibbia etica della stampa italiana contenente tutte le norme alle quali devono inderogabilmente attenersi gli iscritti all’Ordine. Non è un obbligo solamente formale, ma anche sostanziale. Se non lo rispettano, i giornalisti possono incorrere nelle conseguenze di un procedimento disciplinare di fronte al Consiglio di disciplina che può comportare, in caso di riconosciuta responsabilità, sanzioni professionali anche molto gravi che arrivano fino alla sospensione da due mesi ad un anno dalla professione e alla radiazione. Nonostante dall’entrata in vigore siano trascorsi ormai parecchi anni, le violazioni alla Carta di Treviso (che viene richiamata all’art.5 del Testo unico) non sono per niente rare richiedendo l’intervento dei consigli territoriali di disciplina. Molteplici su questi argomenti anche le azioni del Garante della Privacy che più volte è dovuto intervenire con provvedimenti inibitori per bloccare la diffusione di notizie come, ad esempio, quando c’è stato il rischio che attraverso la stampa potesse essere identificato un minore vittima, come è avvenuto in una vicenda di abusi sessuali.
Il principale obbligo stabilito dalla Carta è di «tutelare l’armonico sviluppo dell’identità del minorenne senza distinzione di genere, status sociale, origine etnica, nazionalità, lingua, religione e credo politico». Evitando che possa «essere sottoposto ad interferenze arbitrarie o illecite nella sua vita privata» o subisca «offese all’onore e alla reputazione». Deve, cioè, prevalere il più che noto “superiore interesse” di bambini e adolescenti rispetto a quello del medium.
Al giornalista è anche richiesto di operare «attraverso il bilanciamento responsabile dei principi costituzionali riguardanti la libertà di informazione e la protezione dei bambini e degli adolescenti» facendo attenzione ad «evitare le forme di sovraesposizione mediatica dei minorenni». Dei quali «non va assecondato né sfruttato il loro desiderio di protagonismo o di visibilità attraverso qualsiasi mezzo d’informazione», anche «in caso di autorizzazione di chi esercita la responsabilità genitoriale».
La Carta di Treviso in concreto
Come si rispettano concretamente questi fondamenti? Tra le regole più importanti, la principale è ovviamente quella di non pubblicare mai le generalità dei minorenni coinvolti in fatti di cronaca. All’articolo 2 della Carta, infatti, si legge che «vanno garantiti l’anonimato, la riservatezza, la protezione dei dati personali e dell’immagine del minorenne in qualsiasi veste coinvolto in fatti di cronaca, anche non aventi rilevanza penale ma lesivi della sua personalità, come autore, vittima o teste». Una garanzia che viene meno solo se «la pubblicazione sia tesa a dare positivo risalto a qualità del minore e/o al contesto familiare e sociale in cui si sta formando», che però può trasformarsi in un terreno scivoloso.
All’articolo successivo si aggiunge che «va altresì evitata la pubblicazione di tutti gli elementi che possano portare alla identificazione del minorenne, quali ad esempio le generalità dei genitori, l’indirizzo dell’abitazione o della residenza, la scuola, la parrocchia o il sodalizio frequentati e qualsiasi altra indicazione o elemento: foto e filmati non schermati, messaggi e immagini online che possano contribuire alla sua individuazione». Particolare attenzione va riservata ai casi di affidamento o adozione e alle vicende che riguardano genitori separati in cui va tutelato il minorenne «per non incidere sull’armonico sviluppo della sua personalità, evitando sensazionalismi e qualsiasi forma di speculazione».
Conseguentemente, il «bambino non va intervistato o impegnato in trasmissioni televisive e radiofoniche che possano lederne la dignità o turbare il suo equilibrio psico-fisico, né va coinvolto in forme di comunicazioni lesive dell’armonico sviluppo della sua personalitໂ anche, come detto in precedenza, se i suoi genitori o chi esercita la patria potestà danno il proprio consenso.
Esattamente il contrario di quanto è accaduto, purtroppo, a marzo 2019 quando un uomo di origini senegalesi e cittadinanza italiana dirottò da Crema verso l’aeroporto milanese di Linate l’autobus con 51 studenti di scuola media che stava guidando. Bloccato alla periferia di Milano dai carabinieri chiamati dagli stessi studenti che erano riusciti ad usare il cellulare nonostante le minacce, l’uomo appiccò il fuoco al mezzo. Una volta liberati, i ragazzi furono considerati come eroi e rimasero a lungo sotto i riflettori. Fatti positivi, che consentivano di pubblicare le loro generalità e loro immagini. Ad anni di distanza, alcuni di loro stanno ancora facendo i conti con le conseguenze psicologiche dovute a quell’eccesso di esposizione.
Infine, la Carta di Treviso scrimina i casi, come i rapimenti o le scomparse di bambini, in cui immagini e nomi possono essere pubblicati per facilitare le ricerche, ma sempre tenendo “comunque in considerazione il parere dei genitori e delle autorità competenti”.
Anche l’art. 114 del Codice di procedura penale vieta «la pubblicazione delle generalità e dell’immagine dei minorenni testimoni, persone offese o danneggiati dal reato fino a quando non sono divenuti maggiorenni. IlTribunale per i minorenni, nell’interesse esclusivo del minorenne, o il minorenne che ha compiuto i sedici anni, può consentire la pubblicazione». Non si fa cenno ai minori che compaiono in un procedimento penale nella veste di imputati, ma in questo caso interviene in ogni caso, come detto, la Carta di Treviso.
All’estero
E’ del tutto evidente quali siano oggi le norme che impediscono a quel giornalista di fare ciò che fece nel 1988 riportando le generalità delle vittime e dei loro genitori, l’indirizzo dell’abitazione della famiglia e tutto il resto.
E negli altri paesi? Come per la giustizia minorile, anche sulle regole cui deve attenersi la stampa su questo tema l’Italia è all’avanguardia. Negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna, ad esempio, si possono pubblicare nomi e volti dei minori. D’altronde, negli Usa l’imputabilità del minorenne scende in molti stati addirittura fino ai 10 anni per i reati più gravi. Gli over 10 (o 13 in alcuni stati) vengono equiparati agli adulti anche nel procedimento penale grazie ad una norma draconiana varata nel 1978. In questi paesi, come quasi tutti quelli europei in cui non c’è un Ordine (soggetto pubblico per legge) al quale i giornalisti possano essere chiamati a rispondere, le questioni etiche vengono valutate dalle associazioni di categoria privatistiche oppure da comitati interni alle singole testate. Al New York Times, per esempio, si decide caso per caso ed in base alle singole circostanze. Solo se non si tratta di crimini, generalmente i giornalisti chiedono ai genitori dei protagonisti il permesso di pubblicare nomi e particolari, anche quando si occupano di giovani adulti, come gli studenti universitari.
La Associated Press, una delle maggiori agenzie di stampa mondiali, non dà nomi e immagini di minorenni che hanno subito violenze sessuali o abusi gravi anche quando sono le stesse vittime a rivelare pubblicamente la loro identità. Per quanto riguarda i minori accusati di crimini o che ne sono testimoni, le regole interne dell’Ap dicono che la loro identificazione deve essere approvata dal responsabile del board etico che valuta in base alla gravità dell’ipotesi d’accusa, al fatto che la polizia abbia formalmente comunicato il nome del minore e se il minore è stato formalmente ritenuto imputabile al pari di un adulto.
Come detto, purtroppo i giovani leggono poco o niente i giornali cartacei, consultano pochissimo i siti internet delle principali testate giornalistiche e non guardano la tv generalista. Si informano principalmente dai social o dai blog tenuti molto spesso da soggetti non iscritti all’Ordine dei giornalisti. E’ questo il far west dell’informazione dove tutte quelle minuziose e a volte farraginose regole etiche previste per giornalisti italiani non valgono, semplicemente non esistono. Una terra di nessuno che paradossalmente viene considerata la vera patria della libertà e del giornalismo puro. Bisognerebbe mandare qualcuno ad esplorarla, ha bisogno della legge.