Il «nostro» Consiglio di Disciplina fra tutela della libertà e sanzione

Il dovere di essere libero è la prima regola deontologica di un giornalista: custodire questo valore più che sanzionare il singolo è il vero compito dell’azione disciplinare e sarà il principio ispiratore della nostra azione

di Paolo Della Sala, presidente del Consiglio di Disciplina Territoriale dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia

La Corte Costituzionale (sent. 168/1971) ha affermato che l’art. 21 della Costituzione, posto a tutela della libera manifestazione del pensiero, “è forse il più alto dei diritti primari fondamentali”. Per definire la funzione del Consiglio di Disciplina Territoriale è opportuno, a mio avviso, partire da qui: solo interpretando un organo di giustizia, quale è il Consiglio di Disciplina, come strumento di tutela della libertà di tutti e non di punizione del singolo si può trovare una linea di valori condivisi da porre a base dell’azione disciplinare per la violazione di regole deontologiche.

La deontologia professionale è tollerata ma non “amata” perché impropriamente letta come strumento di limitazione, se non di oppressione sanzionatoria

La libertà come obbligo

I nostri principi deontologici, infatti, si fondano su tre articolazioni del “dovere” di libertà: libertà di espressione, di informazione e di critica; difesa della libertà di opinione e rispetto dei diritti fondamentali delle persone; indipendenza. Per certi aspetti possiamo dire che, per il giornalista, queste declinazioni del concetto di libertà non costituiscono un diritto, ma un obbligo. La dignità della professione di giornalista trova nel “dovere di essere libero” la sua prima regola deontologica.

Il giornalista, ad esempio, non deve prestarsi a iniziative pubblicitarie o aderire ad associazioni segrete e non può accettare pagamenti o favori o incarichi che possano condizionarne l’autonomia. Il giornalista, per tutelare la propria libertà, ha quale «obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti»: la violazione di questo principio costituisce, pertanto, un atto di disprezzo nei confronti della libertà di informazione, prima che una violazione deontologica.

Tutela dei valori condivisi e della libertà di pensiero

La deontologia professionale (considerata una sorella minore della cultura professionale) è tollerata ma non “amata” perché viene impropriamente letta come strumento di limitazione, se non di oppressione sanzionatoria. Il nostro Consiglio di Disciplina, sia pure coi limiti che necessariamente contraddistinguono l’applicazione della giustizia in ogni sede, si pone l’obbiettivo di ribaltare questa visione errata e di portare la funzione disciplinare nell’alveo che gli è proprio: quello della tutela dei valori condivisi e della tutela della libertà di pensiero. Questo obbiettivo può essere conseguito solo esercitando la propria funzione di garanzia con indipendenza assoluta e, per quanto possibile, “prendendo le distanze dalle proprie opinioni” quando si è chiamati a valutare le opinioni altrui espresse nell’esercizio della professione: la nostra società è piena di temi fortemente divisivi sul piano dei principi (si pensi alla bioetica, alla libera manifestazione delle inclinazioni sessuali, al tema della immigrazione, per non parlare della religione e delle opinioni politiche).

Lavoreremo per rendere celeri i procedimenti e trasparenti le motivazioni delle decisioni adottate, e attivando iniziative di carattere preventivo e divulgativo

Le nostre linee di azione: velocità e trasparenza

L’indipendenza, in linea di massima, è assicurata dal meccanismo di nomina dei componenti del Consiglio che assegna l’individuazione dei suoi componenti al Presidente del Tribunale. Più complesso, inevitabilmente, è l’equilibrato esercizio del ruolo giudicante. Per assicurare il più possibile il rispetto di questa condizione si intende lavorare secondo alcune direttrici principali: rendendo celeri i procedimenti e trasparenti le motivazioni delle decisioni adottate e attivando iniziative di carattere preventivo e divulgativo (le regole devono essere note e ‘comprese’ per poter essere rispettate). L’equidistanza di chi giudica, infatti, trova la sua principale difficoltà operativa nella mediazione fra l’obbligo di garantire la libertà di pensiero e il rispetto dei diritti fondamentali delle persone che il comportamenti degli iscritti talvolta lede.

Solo una migliore conoscenza e accettazione dei principi deontologici da parte degli iscritti e una maggiore consapevolezza dei problemi della professione da parte di chi è chiamato a giudicare può, probabilmente, aiutare ad un esercizio fruttuoso della giustizia disciplinare. Servono attenzione reciproca e disponibilità a mettere in discussione i propri pregiudizi. Come dice Gene Wilder in Frankestein Juinor: «Si può fare!».

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