Tutela delle fonti, presunzione d’innocenza, interesse pubblico della notizia: una panoramica dei testi che regolano la professione giornalistica in alcuni Paesi esteri
di Guido Camera
Le regole deontologiche hanno un ruolo fondamentale nel diritto dell’informazione. Esse sono delle norme cogenti per gli iscritti all’albo, dalla cui violazione scaturisce l’illecito disciplinare. Inoltre, nei giudizi per responsabilità civile e penali derivanti dall’esercizio della professione di giornalista, costituiscono parametri essenziali per inquadrare correttamente la condotta incriminata. La Cassazione, in proposito, ha spiegato che integrano dei precetti di carattere generale, che hanno forza e valore di fonte normativa e dal cui rispetto può derivare l’esonero di responsabilità per il giornalista (si vedano, in particolare, Cass. pen. n. 16145/2008, nonché Cass. civ. n.12834/2014).
La deontologia non è solo la prima difesa del singolo giornalista; lo è anche del prezioso ruolo sociale che la Costituzione e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo gli attribuiscono per garantire la libertà di espressione dell’opinione pubblica. Per essere una difesa efficace, è importante che i Codici deontologici siano il più possibile “vivi”, cioè capaci di adattarsi con tempismo ai mutamenti della società; perché la deontologia nasce dall’esperienza pratica quotidiana, e disciplina una professione versatile e dinamica, il cui obiettivo è garantire una mediazione intellettuale altamente qualificata e affidabile tra notizie e opinione pubblica, i cui unici limiti devono essere verità, indipendenza e interesse pubblico del fatto narrato o commentato.
Nella società globale, un aiuto può venire dall’esame comparato con le disposizioni in vigore negli altri ordinamenti. Se si passano in rassegna le carte deontologiche che svolgono il ruolo di “bussola” per i giornalisti stranieri, si può riscontrare l’esistenza di valori “universali” della professione, e prendere spunto per dei miglioramenti alle regole nazionali. Ovunque, ad esempio, le disposizioni deontologiche sanciscono che il giornalista ha una funzione “sociale” primaria, cioè quella di garantire il diritto dei cittadini all’informazione.
La responsabilità verso il pubblico
Questa attività diventa una vera e propria missione, soprattutto negli ordinamenti meno sensibili alle libertà; basta pensare che l’articolo 1 dello “Standard etico dei media” della Federazione russa prescrive ai giornalisti di fare «tutto il possibile per favorire l’accesso ai media per l’opinione pubblica», che ha il diritto di ricevere «informazioni affidabili, complete e presentate in modo imparziale (…) non distorte, corrispondenti allo stato reale delle cose del mondo».
Nella stessa direzione, il preambolo del Codice deontologico svizzero stabilisce che «la responsabilità del giornalista verso il pubblico prevale su qualunque altra responsabilità, in particolare su quelle che lo legano ai datori di lavoro o agli organi statali».
Fonti e segreto professionale
In Francia, la dichiarazione di Monaco statuisce che «i giornalisti chiedono il libero accesso a tutte le fonti di informazione e il diritto di indagare liberamente su tutti i fatti che condizionano la vita pubblica. In tal caso, il segreto pubblico o privato può essere invocato nei confronti del giornalista solo in via eccezionale sulla base di motivi chiaramente espressi». La tutela del segreto professionale è condizione per l’esercizio della professione di giornalista, tant’è che ne viene riconosciuta l’indispensabilità nella maggior parte delle carte deontologiche.
Presunzione d’innocenza
Anche il rispetto della presunzione di innocenza è un valore fondante del giornalismo nelle società democratiche. Le regole tedesche in materia, ad esempio, stabiliscono che «le relazioni sulle indagini, sui procedimenti giudiziari penali e su altri procedimenti formali devono essere esenti da pregiudizi. Il principio della presunzione di innocenza si applica anche alla stampa».
Interesse pubblico della notizia
Dalle Carte deontologiche straniere, come detto, possono venire anche insegnamenti importanti per migliorare le nostre regole interne. In particolare, il riferimento va alla nozione di “interesse pubblico” della notizia, la cui definizione è essenziale per comprendere quali sono i limiti all’attività del giornalista, sia nella fase di ricerca delle notizie, sia di divulgazione delle stesse. In Italia, questo parametro è rimesso, caso per caso, alla discrezionalità del giudice; neanche il Testo unico dei doveri contiene una definizione di “interesse pubblico”, limitandosi a individuare il criterio dell’“essenzialità dell’informazione” come limite alla sfera privata altrui. Tutto ciò rischia di alimentare disparità di trattamento, e di conseguenza può disincentivare l’informazione seria. Si tratta di una carenza legislativa che va perciò contrastata in ogni modo, se si vuole tutelare adeguatamente la professione di giornalista; non dimentichiamo, in proposito, che una chiara comprensione di “interesse pubblico” diventa anche il discrimine essenziale, dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 188/2021 sul rafforzamento della presunzione di innocenza, per identificare le informazioni sui processi penali che magistratura e forze dell’ordine possono divulgare.
Una definizione efficace viene dalle regole deontologiche inglesi della Independent Press Standard Organization (IPSO), ove è stabilito che l’interesse pubblico «comprende, ma non è limitato» all’informazione sui reati e i processi penali, la protezione della salute e della sicurezza pubblica, il contrasto alla manipolazione dell’opinione pubblica, la rivelazione degli errori giudiziari; inoltre, è aggiunto che è dovere dei giornalisti sollevare e contribuire al dibattito pubblico – secondo inderogabili regole di verità, indipendenza e accuratezza – su ogni questione afferente queste tematiche, visto che «esiste un interesse pubblico alla libertà di espressione stessa». Parole importanti per la tutela della professione, che bisognerebbe mutuare all’interno del nostro ordinamento. E lo si deve fare sfruttando la riforma del sistema sanzionatorio in materia di diffamazione, che nonostante le sollecitazioni della Corte costituzionale, giace oramai inerme da anni in Parlamento.